Negev, “Il deserto trasformato in orto” che ha causato la crisi idrica: l’origine del greenwashing israeliano

InfoPal. Di L.P. Domenica 19 aprile è andata in onda su RaiTre alle ore 12:25, la puntata di Mediterraneo, la rubrica nazionale della TgR dal titolo “L’orto nel deserto“, che ha introdotto come la tecnologia eco-sostenibile sia messa al servizio di zone desertiche, come finalmente si possano far sbocciare i fiori nel deserto e come si possano sviluppare orti molto produttivi che vengono studiati da imprenditori e studenti di agrari in tutto il mondo per esportarne le biotecnologie.

Il servizio ha detto che il Negev, il vastissimo deserto nel sud di Israele, è sempre stato una zona arida e inospitale e che, solo grazie ad anni di studi e sperimentazioni, i ricercatori israeliani hanno potuto trasformarlo in una delle principali zone agricole del paese, con una produzione varia e molto ricca.

Il servizio però non ha spiegato come tutta questa falsa “eco-sostenibilità” porti a gravi problemi per l’ambiente, l’acqua e altre risorse naturali sia in termini economici e sia in termini di eco-sostenibilità poiché, come ci insegnano gli studi di ecologia sociale, non è per niente ecologico trasformare un territorio naturalmente arido in territorio artificialmente fertile. Ovviamente i media occidentali aderiscono alla narrazione sionista basata su operazioni di greenwashing sia a danno dell’ambiente sia a danno del popolo palestinese.

Neve Gordon, attivista e accademico israeliano, scrisse: “L’80% delle falde acquifere montane, i più vasti bacini d’acqua di queste regioni, è ubicato nel sottosuolo della Cisgiordania, il restante 20% in quello israeliano. Rendendosi conto dell’importanza di questa risorsa vitale, che al momento fornisce il 40% del fabbisogno dell’agricoltura di Israele, e quasi il 50% della sua acqua potabile, dopo la guerra, Israele cominciò a modificare lo statuto giuridico e istituzionale dei diritti sull’acqua delle regioni occupate. L’effetto principale di tale trasferimento di poteri fu una pesante limitazione alla trivellazione di nuovi pozzi atti a soddisfare i bisogni degli abitanti palestinesi, in parallelo all’appropriazione di acqua per soddisfare i fabbisogni della popolazione israeliana”.

E così la retorica dei 240 milioni di alberi piantati in 70 anni, della riforestazione del paesaggio, della creazione di banche del germoplasma e della resa fertile dei terreni aridi, ha permesso ad Israele di dipingersi, oltre a fautore dei diritti civili e dei diritti animali, anche a grande sostenitore della sostenibilità ambientale attraverso i suoi centri studi di biotecnologie. Niente di più falso ancora una volta. Israele ha architettato un ottimo dispositivo retorico in grado di far pendere il mondo occidentale dalle proprie labbra in nome dell’ennesima svolta “green” che, con la globalizzazione neoliberista, ha permesso al capitalismo di rigenerarsi, facendo passare il messaggio che l’inquinamento, il surriscaldamento globale e la devastazione ambientale sono fattori facilmente risolvibili con tecnologie, leggi e riforme, senza far pensare che sia il modello economicistico-sviluppista il vero problema. Il sionismo, ancora una volta, oltre a nascondere la repressione che infligge al popolo palestinese, si fa portavoce dell’attuale “sistema economico di rapina” che procede come se le risorse naturali fossero infinite e non, come ci ricorda Serge Latouche, che viviamo “in un mondo finito con risorse finite”.

Il sionismo, con la sua spettacolare opera scenica fatta di orti verticali e tante immagini mozzafiato proiettate sui padiglioni durante l’Expo 2015, ci fa credere ancora oggi che basta dirottare gli investimenti in campi “green” per risolvere il problema della devastazione ambientale. Ci fa credere che l’inquinamento del Pianeta è un problema di metodo all’interno del capitalismo. Peccato che non sia così! Il capitalismo ci fa credere che, i problemi faraonici che quotidianamente si ripropongono, siano emergenze da risolvere improvvisamente e non problemi strutturali frutto di contraddizioni all’interno di un sistema economico nel pieno della sua crisi congiunturale

La propaganda sionista non tiene conto dei costi, in termini di risorse naturali, di come lo sviluppo di stampo capitalista abbia inciso sullo squilibrio degli ecosistemi e delle simbiosi ecologiche.

Infatti sarebbe interessante analizzare la devastazione delle risorse naturali che si cela dietro “i fiori nel deserto” in Israele. Per sostenere questo sistema di fioritura del tutto artificiale e che ha un grave impatto sugli equilibri ecosistemici, Israele usa il lago di Tiberiade per estrarre acqua. Il lago di Tiberiade, più comunemente conosciuto tramite i Vangeli come “Mare di Galilea”, è un’importante meta turistica e di pellegrinaggio religioso che da anni sta affrontando una delle peggior crisi sul rifornimento di acqua che era stata la principale fonte potabile per Israele. Essendosi accorto che da decenni questo impianto stava portando con sé una grave crisi idrica, le autorità israeliane hanno avviato un piano di desalinizzazione dell’acqua di mare riuscendo a ridurre la quantità di acqua che veniva estratta dal lago per irrigare le coltivazioni nel deserto.

Il calo dei livelli di acqua nel Lago di Tiberiade non è il risultato dei cambiamenti climatici, ma è dovuto ad opere geo-ingegneristiche che hanno permesso l’incremento dell’uso delle acque degli immissari del Giordano che dovrebbero rifornire il lago per l’irrigazione, e allo sfruttamento per l’estrazione di minerali. Ciò che si può analizzare oggi è una situazione insostenibile su tutti i fronti, ma soprattutto sul ritiro dell’acqua che lascia il Mar Morto completamente secco in alcune zone. Il Lago di Tiberiade è alimentato principalmente dal fiume Giordano, a Nord, ma il Giordano non ha emissari e la modifica del suo corso, prelevando una ingente parte delle sue acque per il settore agro-chimico-alimentare e le colonie, ha segnato un duro colpo per gli equilibri ambientali. Questo incide sulla rapida diminuzione del livello del Mar Morto portando a più elevati costi di pompaggio per le fabbriche che utilizzano il Mar Morto per estrarre il cloruro di potassio, magnesio e sale, accelerando il deflusso delle acque dolci sotterrane e circostanti dalle falde acquifere. Ecco il problema strutturale della crisi ecologica.

Queste grandi opere di costruzione di pompe idrauliche e di desalinizzazione progressiva delle acque pompate dal mare, sono visti dalle grandi potenze occidentali come un fattore di evoluzione che pone Israele in un ruolo salvifico, come liberatore dall’arretratezza, come civilizzatore in terre aride abitate da barbari, come importatore occidentale dello sviluppo tecnologico e della modernizzazione, non a caso capitalista. Tutta questa moina per poter ovviare gli effetti collaterali e i danni irreversibili di uno sviluppo insostenibile sul piano ambientale volto a prosciugare e a “bio-distruggere” il Lago di Tiberiade, il Giordano e il Mar Morto, a causa di politiche fondate sul consumismo.

Qualsiasi persona con un minimo di intelligenza e un briciolo di senso critico può capire che non è logico e né tantomeno eco-sostenibile trasformare un deserto in un giardino. Eppure viene fatto passare tale messaggio, costringendo il Lago di Tiberiade in condizioni sempre sotto la soglia e il governo israeliano a prendere 400 milioni di metri cubi di acqua annui per gestire la richiesta idrica di coltivazioni, allevamenti intensivi e insediamenti coloniali illegali.

Israele, evidentemente disinteressato all’ecologia, ha visto in queste grandi opere, devastanti sul piano ambientale, un modo per poter investire 250 milioni di euro per pompare nel lago acqua presa dal Mediterraneo, per avere in futuro un rilancio del PIL attraverso l’attuale economia locale basata sul turismo. L’acqua per bagnare le coltivazioni, che distano circa 50 chilometri, viene quindi pompata e in seguito desalinizzata. Persino il 90% dell’acqua del fiume Giordano viene usato per irrigare le piantagioni nel Negev senza badare alle necessità delle comunità palestinesi. Anche questo è un forte impatto ecologico dovuto a spreco elettrico, di materiali, scavi, devastazioni di habitat marini e lacustri per far realizzare ciò che in Natura è impossibile con il fine ultimo di accumulo di capitale e profitto.

Il ministero dell’Energia israeliano si era prefissato di stabilizzare il livello del Lago di Tiberiade entro il 2020, cosa che non è avvenuta e che risulta ad oggi impossibile, dal momento che a novembre 2019 lo stesso Ministero ha espresso la volontà di raddoppiare i già consumati 600 milioni circa di metri cubi d’acqua desalinizzata ogni anno.

Tutto ciò per la volontà, ancora una volta, di insediare lo stile di vita occidentale in un territorio che occidentale non è e che necessiterebbe di ben altro rispetto all’uso spropositato e sproporzionato delle risorse, come attuato per secoli dalle comunità palestinesi.

Questa distruzione degli equilibri ecologici tra ecosistemi, biodiversità, clima e comunità palestinesi, ha portato anche ad utilizzo d’acqua massiccio per monocolture intensive non endemiche, disadatte alla ciclicità naturale del terreno in tutta la valle di Gerico. Lo stravolgimento del paesaggio ha portato alla perdita di biodiversità vegetale locale comportando pian piano la scomparsa di alberi di arance e il conseguente commercio in mano a coltivatori palestinesi, favorendo le coltivazioni di datteri, manghi o avocado, più richiesti e pagati maggiormente che vengono coltivati in terre occupate da coloni a discapito delle comunità palestinesi.

Infatti nel Negev l’acqua arriva non solo per irrigare i magici fiori nel deserto, ma anche le colonie degli insediamenti illegali. Colonie con una ricca serie di aiuole e fontane che inaugurando veri e propri villaggi turistici, villette a schiera in stile americano, grandi centri commerciali, fiori dai mille colori, outlet, supermercati e tutto ciò che può offrirci il consumismo di stampo americanista. Tutto in uno splendido ed idilliaco Eden con alle porte un regime di Stato di Polizia fatto di “ordine”, “decenza”, “decoro” e (illusione) di “benessere”, volto a reprimere la popolazione palestinese e le comunità beduine palestinesi, ad oscurare la condizione dei palestinesi nei campi profughi con lo scopo di cancellare dalla memoria storica l’apparente disorganizzata civiltà palestinese che aveva consentito il vivere la vita in simbiosi con ambiente, animali e biodiversità. Così oggi Israele inaugura nuovamente la devastazione della Natura e dell’ambiente dal volto “green” con lo scopo di eliminare la conoscenza che le comunità palestinesi avevano sviluppato sul clima e sulla ciclicità delle stagioni preservando quell’ambiente desertico e le sue falde acquifere che si autoregolano, conoscendone la bellezza, la particolarità e i misteri.