Newsletter BoccheScucite.

Riceviamo da don Nandino Capovilla, Pax Christi, e pubblichiamo.

Newsletter "BoccheScucite" n.61.

Anche stavolta hai due possibilità:
 
a) accontentarti dei titoli dei media in queste ore, che amplificano da Parigi* l’ultima di Olmert, Sarkozy &   Company:… "la pace non è mai stata così vicina!" (con l’aggiunta demenziale di Abu Mazen: "Più vicina che mai, addirittura entro un mese!")
b) leggere l’esatto contrario su BoccheScucite n.61.
 
 
* davvero interessante l’analisi di Alain Gresh sul numero di Le Monde Diplomatique che trovi ancora in edicola. Commenta "lo spettacolare viaggio del presidente francesce Sarkozy in Israele, secondo cui non ci può essere nessun compromesso sulla sicurezza d’Israele". (…) "Nel suo discorso ha espresso la sua vicinanza alla sofferenza degli israeliani -senza una parola su quella dei palestinesi- e omette di parlare dell’occupazione." (…) " I legami bilarerali si rafforzano, come se la colonizzazione non proseguisse, l’occupazione non esistesse, e la repressione quotidiana si spiegasse col terrorismo"

 

 

voci dalla Palestina occupata

BoccheScucite

 

quindicinale di controinformazione

numero 61 – 15 luglio 2008

 

Ognuno a casa sua

Da quando il Patriarca emerito Michel Sabbah ha coniato quest’incredibilmente semplice ed efficace sintesi di sessant’anni di conflitto israelo-palestinese, questa frase ad effetto l’abbiamo risentita spesso, quasi come un ritornello da mandare a memoria. Secondo Sabbah era -lo diceva aprendo lentamente le braccia e inclinando il capo- “una cosa davvero semplice in sé: ognuno a casa sua. Due popoli si fanno la guerra e uno occupa la casa dell’altro. La soluzione sarebbe semplicemente che ciascuno occupasse la propria casa: gli israeliani a casa loro e i palestinesi a casa loro”. Con la disarmante forza della verità diceva quello che anche un bambino capisce, ma che i leader si ostinano a censurare e dimenticare. È così che alla ridicola ostinazione degli Usa, che continuano a difendere la costruzione di colonie illegali a Gerusalemme e in West Bank, corrisponde l’inedita dichiarazione del nuovo ministro degli esteri Frattini. Alla precisa richiesta di pronunciarsi sul nodo più decisivo della colonizzazione, ha coniato una nuova e assurda espressione: “speriamo che gli israeliani dimostrino moderazione”. Sì, avete letto bene. Invece di denunciare le ripetute violazioni e le conseguenze devastanti sul processo di pace, dovremmo limitarci a sperare nella “moderazione” di chi in queste settimane ha riempito di gru e cantieri tutta Gerusalemme.

Ognuno a casa sua.

Le notizie che da Nablus ci raggiungono in queste ore (vedi ULTIM’ORA) sono drammatiche, ma nessuno intima ad Israele di “starsene a casa sua”. D’altra parte che ne è delle case di Gaza, da un anno sotto assedio? (in LENTE D’INGRANDIMENTO).

A casa del regista e amico Mohammad Bakri è invece arrivata una buona notizia (o quasi). Una piccola vittoria per un’ingiusta accusa che tiene sotto processo un coraggioso artista che ha denunciato il massacro di Jenin (in A VOCE ALTA).

Ognuno a casa sua.

Ma le case del villaggio di Niilin vivono da giorni nel coprifuoco.

Dopo Bil’in, sono gli abitanti di Niilin – già vittime nel ’48 e nel ’67 – a dire «no» alla confisca delle loro terre. Una resistenza nonviolenta sta impegnando nella lotta gli abitanti e gli internazionali. Prima del 1948 gli abitanti di Nilin possedevano 580 ettari di terra, ma 400 finirono annessi al neonato Stato di Israele. Dopo l’ occupazione della Cisgiordania nel 1967, il villaggio perse altri 80 ettari di terre su cui furono costruite le colonie ebraiche di Kiryat Sefer, Mettityahu e Makabim. Ora siamo all’atto finale. Dei 100 ettari rimanenti, almeno 25 serviranno per completare il muro in quella zona e per costruire una nuova base militare. L’esercito ha già chiuso l’ingresso del villaggio e in futuro gli abitanti per lasciare Niilin dovranno servirsi di un tunnel, che passa sotto una strada ad uso esclusivo dei coloni israeliani, che può essere chiuso in qualsiasi momento. A quattro anni dal parere dell’Onu che la definiva «illegale», un altro villaggio palestinese si ribella alla barriera dell’apartheid.

Ognuno a casa sua.

Sembra invece impossibile, per Feisal e Kaled, trovar casa e cittadinanza nel nostro Paese. (Moni Ovadia in HANNO DETTO) Tra xenofobia e intolleranza viene alimentata la paura, interna ed esterna, per un nemico sempre più vicino, anzi, in casa.

Nonostante tutto, buona lettura, allora, con QUESTO NUMERO di BoccheScucite. Dal prossimo numero, come ogni anno di questi tempi, anche noi di BoccheScucite non scriveremo più dall’Italia ma dalla Palestina; cambiamo casa…per abitare quelle piccole ed ospitali dei campi profughi e dei villaggi palestinesi dove con tanti nuovi volontari italiani impareremo a scoprire volti e storie straordinarie. Per chi fa del mondo la sua casa, la paura è sconfitta ed ogni uomo diventa fratello.

Concludiamo allora, con Sabbah: “Certo, la paura ha complicato le cose e si vogliono vedere nei palestinesi  dei terroristi o delle persone incapaci a garantire la sicurezza. Finchè continuerà l’occupazione della casa altrui, continuerà questo disequilibrio. E finché esso persisterà in Terra Santa, la regione intera e il mondo ne soffriranno. Bisogna accollarsi il rischio della pace, porre fine all’occupazione: ciascuno a casa sua, per cominciare il processo di guarigione nella nostra terra, nella regione e nel mondo”.

(Messaggio di Pasqua 2007, in Voce che grida dal deserto, EP)

Ultim’ora 

DEVASTATAZIONE IN CLINICHE, ORGANISMI DI BENEFICEN-ZA E NEGOZI A NABLUS

 Con una violenza sempre maggiore l’esercito israeliano ha invaso la città di Nablus in questi giorni. Con un dispiegamento di più di 50 tank e mezzi militari, i soldati hanno invaso il municipio, le sedi di alcune organizzazioni di assistenza, ospedali e perfino scuole! Un’escalation di violenza nella più palese illegalità di incursioni e raid con incredibili “novità” finora mai viste, come ci racconta un amico al telefono: in piena notte, accompagnati da bombe sonore e blindati, non hanno solo occupato cliniche mediche e istituzioni; non avevano provato l’ebbrezza di devastare un intero Centro Commerciale nel cuore di Nablus colpendo più di 50 tra negozi e uffici. Distrutti computer e merce dei negozi, hanno imposto la chiusura di tutto il centro minacciando cinque anni di carcere a chi avesse provato ad entrarvi…

Luisa Morgantini, Vicepresidente del Parlamento Europeo ha espresso sdegno e stupore per il solito immobilismo: “Il Quartetto, gli Stati Arabi, l’Unione Europea e chiunque dice di credere nella pace deve agire ora e chiedere al Governo Israeliano di fermare le sue pratiche illegali e inumane contro la popolazione palestinese e di lavorare per l’unità politica e geografica del popolo e del territorio palestinese”.

 Mohammad Bakri assolto… ma colpevole

Potenza della dialettica e della giurisprudenza!

 La vicenda di Jenin Jenin: punito l’attore regista Ma non dovrà risarcire gli accusatori

 Si viene processati perché avremmo calunniato 5 soldati della riserva in un film in cui, gli stessi, non compaiono, e si viene condannati perché avremmo "vilipeso" l’intero esercito israeliano … però non i 5 soldati che hanno intentato il processo … quindi siamo assolti … o no?!?

Ilpessottimista ha voluto attendere qualche giorno per commentare e, forse, chiudere la Campagna promossa per Mohammad Bakri (il forse è dovuto alla fiducia nella fantasia e pervicacia di nuovi potenziali accusatori: la sentenza d’altronde offre, a costoro, ampi margini di manovra).

Abbiamo chiesto un commento a Bakri, per riassumere l’intera, drammaticamente farsesca, vicenda.

Ci piacerebbe poter affermare che la Campagna de Ilpessottimista ha influito sull’esito positivo del processo, ma questo sarebbe, a dir poco, presuntuoso ma, soprattutto, millanteremmo un merito impossibile ad attribuirsi. Possiamo, però, sostenere con serietà che l’obiettivo ultimo dei nostri sforzi è stato sicuramente raggiunto: "mettere in imbarazzo l’intellighentia pacifista israeliana" che aveva spudoratamente ignorato la vicenda. Ha’aretz – il quotidiano di detta intellighentia – dedicò 3 articoli alla Campagna de Ilpessottimista e seguì, da allora, la vicenda processuale. Come dicevamo la Campagna termina con la sentenza del 30 giugno scorso … forse.

Un grazie vero va a tutti i cineasti, attori, sceneggiatori che vollero sottoscrivere l’appello; a coloro che hanno permesso le 55 proiezioni di "Jenin, Jenin" in tutta Italia (ed un grazie particolare ad Alessandro che ha impostato la campagna grafica per tutte le località coinvolte); a quanti hanno acquistato copie del DVD (e, ad oggi, sono circa 500 le copie vendute), augurandoci che si continui a voler comprare e regalare questo documento straordinario.

Grazie a Marco che persistendo vivamente nel nostro ricordo ci ha permesso di arrivare sino in fondo.

 Il 30 giugno scorso il tribunale di Petah Tikva ha respinto il ricorso per diffamazione presentato da cinque soldati israeliani contro l’attore palestinese e cittadino israeliano Mohammed Bakri. Il giudice Michal Nadav ha stabilito che con «Jenin, Jenin», l’attore -che di quel documentario era regista- ha diffamato l’intero esercito israeliano, ma non i cinque soldati in particolare. In questo modo Bakri non sarà costretto a pagare le richieste di risarcimento danni presentate dal gruppo di militari.  La Campagna, sostenuta anche da BoccheScucite, è stata condotta da Marco Dinoi, Andrea Del Grosso e Nicola Perugini e dedicata a Marco Dinoi, scomparso il 15 gennaio 2008.

                                                              Il mio crimine? Tre documentari

di Mohammad Bakri

 Costretto, non eroe. Così che ho girato i miei tre documentari. Dico «costretto», perché sono un attore e non un regista, dico «costretto» nonostante io abbia amato i miei tre documentari come un padre ama i suoi figli. Costretto, perché in questi film non sono stato altro che un essere umano che difende il suo racconto vietato (non ufficialmente) in Israele, perché Israele da 60 anni diffonde la sua narrazione, che smentisce e contraddice la mia.

Il mio primo film è stato girato nel 1998, sui 50 anni di Nakba. Il secondo – nel 2002 – intitolato «Jenin, Jenin», sulla popolazione del campo profughi di Jenin e sul loro racconto al mondo di che cosa è successo durante l’invasione israeliana, nell’aprile del 2002. L’ultimo, «Da quando te ne sei andato», su quello che è successo a me e a noi palestinesi dopo la scomparsa del mio amico e maestro, l’intellettuale palestinese Emile Habibi; film in cui faccio visita alla sua tomba – ad Haifa, la sua amata città – e gli parlo, confidandomi da amico ad amico, di quello che è successo da quando ci ha lasciati. Lui, morto, è sempre vivo dentro di noi.

Sin dalla sua apparizione – nel 2002 – «Jenin Jenin» è stato vietato dalla Commissione israeliana per la censura dei film, ma dopo due anni sono riuscito a ottenere un permesso dalla Corte Suprema e così ad annullare la censura su «Jenin, Jenin». Durante questi sei anni, a partire cioè dal 2002, cinque soldati israeliani mi hanno trascinato nei tribunali con l’accusa di diffamazione e di aver sporcato il loro «buon nome», chiedendomi di pagare due milioni e mezzo di shekel di risarcimento (500.000 euro circa, ndt)!

Questi soldati sostengono di aver partecipato all’invasione come soldati di riserva! Ma io non conosco questi cinque soldati, non sono menzionati nel mio film, né nominati, né ripresi! Sostengono che «Jenin, Jenin» li abbia feriti e che abbia danneggiato il loro nome!

Finalmente, qualche giorno fa, è stata emessa la sentenza con cui il tribunale ha respinto le loro richieste nei miei confronti. Tuttavia, fra le varie cose, la sentenza afferma che non sono riuscito a provare che il film è veritiero, nonostante mi sia dovuto trascinare nel tribunale israeliano i protagonisti del film per testimoniare che sullo schermo hanno detto la verità e nient’altro che la verità. Inoltre, la sentenza afferma che ho mentito quando ho detto che ho prodotto il film con delle buone intenzioni; al contrario, lo avrei fatto con delle cattive intenzioni.

Ma la stessa legge israeliana mi protegge, perché la diffamazione sarebbe in generale contro tutto l’esercito israeliano e non contro questi cinque soldati in particolare! Oddio grazie, legge israeliana! Mi domando: quando un soldato israeliano ha sparato su un’attrice teatrale – la mia collega di lavoro Valentina Abu ‘Aqsa – che cosa avrei dovuto fare? Non sono un soldato per difenderla con le armi. Mi sono trovato in mano la mia telecamera e sono entrato nel campo profughi di Jenin, dopo l’invasione, perché il soldato le aveva sparato mentre stavamo dimostrando contro l’invasione, al posto di blocco di Al Jalmeh, a nord di Jenin.

Israele ha sollevato un polverone intorno a questo film, ha allertato tutti i suoi ambasciatori per combatterlo e per impedirgli di raggiungere gli schermi internazionali. E ci è riuscita! Ci è riuscita con le pressioni e l’intimidazione, vietandone la trasmissione, programmata per il 1 aprile 2003 sul canale satellitare Arte. Lasciamo stare…

Israele ha deformato la mia immagine attraverso i suoi schermi, i suoi giornali e dai banchi della Knesset, accusandomi di terrorismo, fino a che non sono diventato – agli occhi di tanti – quasi come bin Laden! Io, quello che lotta da 35 anni per la pace. Date un’occhiata alla mia storia e ai miei film negli ultimi trent’anni e oltre! Guardate «Private», «Dietro le sbarre», «Hanna K.», «La masseria delle allodole», «Finale di coppa del mondo», «Haifa», «Il pessottimista»…

Oltre tutto questo, l’impero mediatico sionista israeliano ha prodotto centinaia di film contro di me e io non ho fatto ricorso a nessun tribunale. Il mio unico crimine è stato quello di reagire e di girare i tre film (perché costretto, non perché eroe). Israele ha girato tre film come risposta al mio «Jenin Jenin», e li ha trasmessi su Prime Time (durante l’ora di massimo ascolto). Il primo è «Quaderni dei riservisti» (in cui compaiono tre dei cinque soldati che mi hanno fatto causa in tribunale). Il secondo, «La strada per Jenin», di un regista che ha usato un falso nome francese: Pierre Rahuf. Il terzo, «Jenin. Il massacro della realtà», di un regista ebreo-canadese. Questi film sono stati trasmessi ripetutamente a una popolazione israeliana già manipolata e già sottoposta al lavaggio del cervello. Mentre il mio film è stato proibito e attaccato sino ad oggi, nonostante la mia vittoria in tribunale per ben tre volte. Due contro la censura israeliana, e l’ultima contro cinque vacche sacre!

(traduzione dall’arabo di Farah Saleh e Nicola Perugini)

 

Stampa sotto occupazione

per togliere il bavaglio a chi denuncia le ingiustizie 

Torino, 9 luglio 2008

Egregio Signor Dov Alfon, caporedattore di Haaretz

Abbiamo letto la Sua lettera al Dott. Raymond Leicht e alla signora Ronit Beck, in cui tenta di rassicurare i lettori di Haaretz, sostenendo che il quotidiano in cui poniamo fiducia, e che riteniamo il più affidabile e il più libero, in Israele – non compie discriminazioni politiche, né atti censori.

Come ha scritto, dietro il licenziamento di Meron Rapaport, la limitazione dello spazio a Gideon Levy, e così via, vi sono solo le difficoltà economiche incontrate da Haaretz, come dalla maggior parte dei quotidiani del mondo. Per quanto riguarda Amira Hass, sappiamo che ha chiesto un anno sabbatico; speriamo di rivedere i suoi articoli su Haaretz, l’anno prossimo. In base a quanto ha scritto, dovremmo ritenere che a Haaretz non è in pericolo la libertà di stampa, né per il recente cambio di proprietà, né per il crescente autoritarismo del governo israeliano.

Tuttavia, le nostre preoccupazioni non si sono completamente dileguate. Per “nostre”, intendiamo non solo quelle della Rete degli Ebrei contro l’Occupazione, che fa parte dell’associazione European Jews for a Just Peace, ma anche quelle di un insieme più vasto dell’opinione democratica e di sinistra.  (Siamo consapevoli del fatto che una definizione precisa di ‘sinistra’ è oggi sempre più difficile, ma speriamo di riuscire a trasmettere il nostro modo di vedere: consideriamo ‘di sinistra’ qualunque persona o associazione che si impegni in questioni sociali, opponendosi agli sciovinismi nazionalistici e ad ogni tipo di fondamentalismo, religioso o laico che sia). Queste persone e queste associazioni, di Ebrei o Gentili, sono in rapporto, tramite i siti internet e la corrispondenza personale, con i gruppi israeliani che costituiscono una vera opposizione. Ma, fino ad oggi, l’edizione inglese di Haaretz è certo stata per noi il quotidiano di riferimento, in Israele. Possiamo altresì seguire, tramite i commenti dei lettori israeliani agli articoli pubblicati, le tendenze dell’opinione pubblica in Israele, che spesso sono molto preoccupanti: vedere ad esempio i commenti offensivi rivolti al Maestro Barenboim, quando è divenuto ‘cittadino’ di Ramallah. Talvolta è possibile vedere commenti di lettori fuori da Israele, ed è possibile distinguere immediatamente coloro che – in genere Ebrei – sono emotivamente a favore di Israele, indipendentemente dai suoi atti, e le opinioni di altri, Ebrei o Gentili, che riescono ad elaborare idee più meditate. Riteniamo che dare una scorsa ai commenti dei lettori sia anche importante per valutare quanto l’opinione pubblica corrente, in Israele, sia distante da quella del resto del mondo. Certo, può essere questione di punti di vista: è forse a conoscenza del commento di un giornalista britannico a proposito di un uragano sulla Manica, “L’Europa è completamente isolata!”

Riteniamo che per l’informazione riguardante Israele ed i Territori Occupati sia estremamente importante tenere ad Haaretz autori come Amira Hass, Meron Rapoport, Gideon Levy e Akiva Eldar: questi giornalisti, in stretto contatto con associazioni e personalità palestinesi, attivamente impegnate nella lotta non violenta per la libertà, la giustizia e la pace, riportano le attività svolte, e la cooperazione con i gruppi israeliani che rispettano gli stessi principi. Senza di loro, Haaretz diventa solo un’edizione più colta di Yediot Aharonot, e, in Europa, non è di questo che abbiamo veramente necessità: ci è necessario, invece, qualcuno che dica il vero circa quel che avviene in Israele, in Gerusalemme Occupata, nel resto della Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. 

 Cordiali saluti,

Rete-ECO (Rete degli Ebrei contro l’Occupazione)


                                                               Le verità della Tregua

di Eyad Sarraj

 Gaza, 3 luglio 2008

Dopo quasi un anno di soffocante assedio imposto su Gaza dal sistema miliare israeliano, Hamas e Israele hanno raggiunto un accordo per una tregua. Questo a seguito di mesi di delicate operazioni diplomatiche dell’Egitto. I razzi lanciati da Gaza devono cessare in cambio di una graduale fine dell’embargo.

Un cessate il fuoco che si mantenga per sei mesi, verrebbe poi esteso alle operazioni in Cisgiordania.

Il rilascio di Gilad Shalit, il militare israeliano tenuto in ostaggio, verrebbe invece a far parte di un accordo separato che coinvolge lo scambio con prigionieri palestinesi. Negoziati successivi definirebbero i termini per l’apertura del confine tra Gaza e l’Egitto.

Hamas ha promesso di rispettare l’accordo, e lo stesso vale per altri partiti ed organizzazioni palestinesi. Oltre ad Hamas, solo Jihad Islamica è da prendere sul serio. Fatah, la fazione legata al presidente Abbas, ha già da molto tempo aspramente criticato il lancio di razzi da Gaza.

Dopo cinque giorni dall’inizio di questa attesa tregua, Israele ha consentito l’ingresso a Gaza di tovaglioli e garze sterili come segno di buon intento. Simultaneamente, nella prima mattinata ha effettuato un’incursione in un ostello studentesco di Nablus, uccidendo due giovani Palestinesi nei loro letti. Volendo giustificare un gesto che a molti è sembrato un’ovvia provocazione, i portavoce israeliani hanno invocato per l’ennesima volta il razionale della “bomba ad orologeria”.

È stato detto che i due uomini, entrambi poco più che ventenni, stavano progettando un attacco terroristico che è stato prevenuto all’ultimo minuto. La risposta che Israele si aspettava è presto arrivata. Razzi sono atterrati su Sderot, i primi due lanciati da Jihad Islamica ed il terzo dalle brigate Al Aqsa di Fatah che hanno denunciato la tregua con Israele come un tradimento, rimproverando ad Hamas di essere più preoccupati della sopravvivenza del proprio direttivo a Gaza che del destino dei compagni Palestinesi in Cisgiordania. Hamas è stretta in un angolo. Gli viene negato riconoscimento a livello internazionale, è sotto assedio e a corto di fondi, i suoi capi si sentono responsabili di venir incontro alle necessità di una popolazione strangolata ed è messa alla prova dal difficile compito di portare avanti un governo senza avere nessuna esperienza in merito. Forse il dilemma più difficile che Hamas deve affrontare è di riuscire a governare bene e consolidare il proprio potere ed allo stesso tempo mantener fede al loro solenne impegno di essere in prima linea nella lotta armata contro l’occupazione israeliana.

Alcuni dei capi di Hamas credono che la partecipazione alle elezioni politiche del 2006 si sia rivelata una trappola, nonostante la decisiva vittoria riscossa. L’eco di questa purezza dottrinale si può riscontrare nelle accuse dei militanti delle brigate di Al Aqsa contro Hamas, per aver abbandonato la nobile missione della resistenza per occuparsi di uno squallido compromesso politico. 

Molti sono convinti che il lancio di razzi danneggi i Palestinesi e sia un ostacolo nella loro ricerca di giustizia, e che militanti di altre fazioni, in particolare delle brigate di Al Aqsa, si adoperano per mettere Hamas in imbarazzo sottolineando loro contraddizioni e la loro incoerenza ideologiche. Ma i capi di Hamas, che ora insistono sull’autocontrollo ed accusano chi non rispetta la tregua di essere traditori, devono confrontarsi con l’ironia del tempo. Non molto tempo fa hanno usato lo stesso linguaggio polarizzante per accusare Abbas di collaborare con Israele quando, riferendosi al lancio di razzi, chiese che quei “futili” attacchi finissero.

Dal fronte di Israele, è sempre più tragicamente chiaro che la continua violenza rappresenta il modus operandi del sistema militare israeliano. Per quanto la pace possa venir invocata a livello retorico, in realtà rimane un anatema, in quanto significa la inevitabile resa di terre occupate ai Palestinesi.

Israele è maestra nel far passare la sua aggressiva intransigenza come legittima autodifesa. L’assassinio eseguito la scorsa settimana a Nablus mirava ad incitare la risposta violenta dei Palestinesi. E così è stato. E questo a sua volta è servito a confermare la consueta visione  del conflitto, così familiare nella cronaca proposta dai media, che protrae gli Israeliani come le perenni vittime ed i Palestinesi come traditori ed inaffidabili.

Questa strategia d’Israele non è una novità. L’attuale Intifada, provocata dalla visita di Sharon alla moschea di Al Alqsa e velocemente militarizzata, è stata testimone di un vorace appetito di Israele per le terre palestinesi in Cisgiordania. E mentre le colonie si espandono e sono sempre i più trincerate, Israele è riuscita a far giocare ai Palestinesi il ruolo dei violenti seccatori “che non sprecano mai l’occasione di perdere un occasione”.

Nel mio dialogo con alcuni capi di Hamas, ho costantemente provato a metterli in guardia sui progetti di conquista coloniale di Israele e sulla necessità di cambiare rotta per acquisire un vantaggio tattico ed anticipare i nostri opponenti assuefatti alla violenza. Ho sempre trovato orecchie che ascoltavano. Intrappolata tra due fuochi, un assedio di una brutalità medioevale imposto dai militari israeliani e violente lotte intestine della comunità palestinese, Gaza è stata portata al punto di rottura.

Tuttavia, i residenti hanno dimostrato un’incredibile perseveranza, trovando la forza nella loro fede religiosa, nelle tradizioni di unità familiare e nella convinzione della giustizia della causa palestinese. La perseveranza, tuttavia, ha i suoi limiti.

L’assedio deve essere terminato in modo completo e permanente, così che il milione e mezzo di persone che hanno sopportato questa specie di collettiva tortura da annegamento abbia la possibilità di tornare a galla per prendere fiato. Perché ciò avvenga, i leader politici a Ramallah e Gaza devono concentrarsi meno sul pareggio dei conti con gli opponenti e più sull’andare incontro alle necessità dei cittadini che rappresentano, comunicando una serie di messaggi fondamentali al pubblico europeo ed americano, e creando una strategia di negoziato con Israele che sia agile, ponderata e di principio.

Eyad Sarraj

Campagna "End the siege on Gaza" www.end-gaza-siege.ps

(traduzione a cura di Corinna Giorgi)

 

Ma per chi legge Il Corriere

che male c’è a costruire le colonie?

Perché ostinarci tanto nel denunciare da decenni, dall’Onu in giù, l’ininterrotta colonizzazione di Gerusalemme e della West Bank!! Se perfino gli Usa non possono più tacere sulla vergognosa politica di Israele, il lettore del Corriere della Sera deve comunque restare ignaro di questo scandalo. Davide Frattini (Corriere della Sera, 16 giugno) riesce come sempre a non “disturbare” Israele. Alla critica di Condoleza Rice che “sferza Israele: stop agli insediamenti", contrappone la dichiarazione di un tale Danny Dayan, “che guida il consiglio regionale degli insediamenti in Cisgiordania: "È una retorica impertinente e senza vergogna; l’ambasciatrice di un paese straniero viene a Gerusalemme e rimprovera Israele perché costruisce appartamenti per i suoi cittadini. la colpa è di Olmert e di Tzipi Livni che lo consentono".

Basta sostituire “colonia” con “appartamenti” e il gioco è fatto. Il Corriere evita accuratamente di  informare i lettori che la costruzione degli insediamenti viola il diritto internazionale, nella fattispecie la IV Convenzione di Ginevra che vieta il trasferimento della propria popolazione in territorio occupato. Tale violazione è ricordata nella Risoluzione ONU 452 del 1979 che condanna la costruzione delle colonie nei territori occupati palestinesi. risoluzione 452 del 20 luglio 1979 che intima ad Israele “di cessare, urgentemente, la costruzione e la pianificazione di insediamenti nei territori arabi occupati dal 1967, inclusa Gerusalemme.”

“Siamo ancora qui, dopo quasi 30 anni a parlarne”, commenta Renzo che monitora mensilmente il Corriere.  “Sintomatica è la collocazione del primo quotidiano nazionale riguardo alle innumerevoli violazioni israeliane del diritto internazionale.

Per favore fate un piccolo sforzo, mandate la vostra firma per protestare contro il rifiuto d’ingresso in Israele a tre donne il makers. Mancano 82 firme alle mille firme che si volevano raggiungere. Fatelo oggi. Vi pregherei di far circolare nelle vostre liste. Grazie

Luisa Morgantini

 From Dorothy Naor

Dear Friends,

The petition regarding the entry-denied of the 3 women in the film industry was to have been sent out today.  I have delayed sending it till tomorrow because it is only 82 short of 1000 signatures–a nice round firm figure.  I can’t delay it any longer.  One reason for this is that Norma’s 87 year old mother has suffered an additional stroke since the petition was put online.  Another reason is that tempus fugit, and we need to get the women (and others) in.

For the petition open the following link:

http://www.petitiononline.com/entryOPT/petition.html

Please help find the 82 (or more) so that I can send the petition with at least 1000 signatures. 

Thanks, Dorothy

 

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