
Brasilia, Gaza – GGN. Di Francirosy Campos Barbosa. Non esiste una via per il genocidio: è già in corso.
L’articolo “Israele non sta commettendo un genocidio a Gaza, ma potrebbe esserne in procinto”, scritto da Benny Morris e pubblicato su Folha de S.Paulo, tenta di dimostrare che Israele non sta ancora commettendo un genocidio. Per farlo, l’autore ricorre a un argomento tecnico-giuridico che ignora la dimensione umana, storica e strutturale di ciò che si sta verificando da quasi otto decenni nei Territori palestinesi. Quando la disumanizzazione è già una politica statale, quando i civili vengono uccisi in massa, quando le infrastrutture civili vengono deliberatamente distrutte e l’accesso all’acqua, al cibo e al riparo viene bloccato, quando tutti i diritti internazionali vengono violati, il genocidio non è “in arrivo”, è in corso.
La retorica di Morris normalizza la violenza estrema sostenendo che, sebbene Israele causi distruzione a Gaza, non vi è alcun intento genocida perché, a suo dire, non esiste un piano formale per lo sterminio. Ma questa interpretazione restrittiva della Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio ignora ciò che gli studiosi del genocidio hanno sottolineato: l’intento non deve essere formalizzato in decreti, ma si rivela nella sistematicità degli attacchi, nelle parole dei leader e nei risultati materiali delle politiche. La distruzione delle condizioni di esistenza di un popolo è, per definizione, genocidio. Morti e mutilazioni sono all’ordine del giorno.
Un altro punto serio dell’articolo è l’uso decontestualizzato di passaggi del Corano, come la menzione della trasformazione degli ebrei in “maiali e scimmie”, attribuita a Hamas. Questo riferimento, tratto dal versetto 5:60, è stato ampiamente manipolato nei discorsi politici e islamofobici. Il Corano menziona effettivamente, in passaggi come 2:65 e 5:60, la punizione divina inflitta a un gruppo specifico che aveva gravemente violato i comandamenti religiosi, solitamente interpretato come un gruppo di ebrei che avevano infranto il sabato. Tuttavia, i grandi commentatori classici, come al-Ṭabarī e Ibn Kathīr, furono chiari: si trattava di una punizione specifica, localizzata nel tempo, e non di una condanna generalizzata dell’intero popolo ebraico. Molti studiosi musulmani contemporanei interpretano addirittura questi passaggi in senso allegorico o moralistico, rifiutando qualsiasi utilizzo degli stessi per giustificare la violenza o l’odio religioso.
Ciò che viene raramente menzionato, d’altra parte, è che lo stesso Corano, nella Sura al-Mā’idah 5:82, afferma: “Troverai coloro che sono più vicini nell’affetto a coloro che credono e che dicono: ‘Noi siamo cristiani’. Questo perché tra loro ci sono monaci e sacerdoti e perché non sono arroganti”. Questo è uno dei tanti passaggi che sottolineano la possibilità del rispetto reciproco e della convivenza interreligiosa, se basati sull’umiltà e sulla giustizia. Questa prospettiva è coerente con la Costituzione di Medina, un documento politico e legale scritto dal profeta Muhammad al suo arrivo a Medina, in cui venne stabilito un patto tra musulmani, ebrei e altri gruppi religiosi come parte della stessa “umma” (comunità). La Costituzione garantiva la libertà di credo, la sicurezza reciproca e la cooperazione politica, costituendo un esempio storico di pluralismo e di governo condiviso. In questo modo viene smantellata l’idea che l’Islam sarebbe incompatibile con la coesistenza tra credenze diverse: la disumanizzazione religiosa non ha quindi una base teologica, bensì ideologica.
La strategia di presentare Israele come una democrazia assediata, costretta ad agire per autodifesa, nasconde la realtà dell’Apartheid e dell’occupazione prolungata. La disumanizzazione dei palestinesi non è un fenomeno nuovo: è il fondamento del regime eccezionale che li governa dal 1948 e che si sta aggravando con gli attacchi attuali. La costruzione del nemico come barbaro, irrazionale e fanatico è il meccanismo simbolico che rende possibile la pulizia etnica agli occhi del mondo. Come ammoniva Claude Lévi-Strauss in Razza e storia, “un barbaro è colui che crede nella barbarie”, cioè colui che si autorizza a escludere, a mettere a tacere e a uccidere in nome di una presunta superiorità civilizzatrice.
Definire “conflitto” ciò che sta accadendo a Gaza o suggerire che il genocidio può ancora essere evitato significa scegliere il silenzio di fronte alla barbarie. È una forma di complicità. L’articolo di Morris cerca di abbellire un discorso che normalizza lo sterminio e squalifica la sofferenza palestinese come neutrale. Di fronte a più di 50 mila morti, la maggior parte dei quali donne e bambini, negare il genocidio non è solo insensibilità, è una forma di violenza.
La negazione del genocidio diventa ancora più evidente alla luce delle recenti immagini emerse da Gaza. Alla fine di marzo 2025, un’esplosione a Rafah ha fatto volare in aria i corpi dei civili, tra cui donne e bambini che cercavano rifugio in tende di fortuna. I video ampiamente diffusi dalle agenzie internazionali e dai giornalisti locali mostrano la disperazione delle squadre mediche che cercano di aiutare i feriti con risorse minime, nel mezzo di uno scenario di devastazione totale.
La Mezzaluna Rossa e i paramedici delle Nazioni Unite sono stati obiettivi diretti di attacchi. Secondo il ministero della Salute di Gaza, più di 340 operatori sanitari sono stati uccisi dall’inizio dell’offensiva israeliana nell’ottobre 2023. A marzo, due cliniche sono state bombardate, uccidendo i paramedici che prestavano soccorso in pieno giorno. Non si tratta di “effetti collaterali”, ma di un attacco sistematico alle infrastrutture civili vitali per la sopravvivenza.
Lo stesso vale per i giornalisti: più di 140 reporter e cameraman palestinesi sono stati uccisi, molti dei quali indossavano giubbotti antiproiettile con la scritta “stampa”. A gennaio, in un attentato, sono rimasti bruciati vivi due giornalisti che stavano trasmettendo in diretta da Khan Younis. Dalle registrazioni effettuate dai loro colleghi poco prima dell’attacco risulta che si trovavano in un’area chiaramente contrassegnata come area stampa. Mettere a tacere queste voci non è una mera coincidenza: fa parte di una politica di controllo narrativo che mira a cancellare la memoria del popolo palestinese.
Il bilancio delle vittime è impressionante: secondo fonti locali, sono stati uccisi più di 50 mila palestinesi, di cui oltre il 70% donne e bambini. E questo senza contare le migliaia di persone disperse sotto le macerie, le decine di migliaia di feriti e gli oltre due milioni di sfollati all’interno di Gaza, ovvero praticamente l’intera popolazione. Scuole, ospedali, moschee, chiese e mercati sono stati distrutti. La fame sta raggiungendo livelli catastrofici: i bambini muoiono di fame negli ospedali senza elettricità. Le Nazioni Unite hanno già classificato Gaza come “inabitabile”.
Negare che ciò costituisca un genocidio significa partecipare al progetto della sua normalizzazione. Il genocidio non è solo lo sterminio diretto: è la distruzione deliberata delle condizioni che rendono possibile la vita di un popolo. La cancellazione del futuro palestinese non è “in corso”: è in atto ora, con l’acquiescenza di una comunità internazionale che, nella migliore delle ipotesi, è silenziosa.
Alla luce di queste prove, l’articolo di Morris sembra un tentativo di tessere un velo legale su una realtà insopportabile. Ma i corpi carbonizzati, le urla dei bambini sepolti, gli operatori sanitari uccisi in servizio: tutto questo vanifica ogni tentativo di astrazione. Non si tratta più di “dibattito” o di “opinione”: si tratta di responsabilità, di chiamare l’orrore per quello che è e di rifiutare la complicità nello sterminio di un popolo.