Non si può comprendere l’ISIS se non si conosce la storia del Wahhabismo in Arabia Saudita

Libano. ICH. Di Alastair Crooke. 2 settembre 2014. Il plateale arrivo del Da’ish (ISIS) sulla scena irachena ha scioccato molti occidentali. La sua violenza e la spiccata attrazione esercitata sui giovani sunniti hanno lasciato molti perplessi e atterriti. Oltre a ciò l’esitazione dell’Arabia Saudita nell’affrontare la sua manifestazione è preoccupante e inspiegabile, ci si chiede “i sauditi non hanno capito che l’ISIS rappresenta una minaccia anche per loro”?

A quanto pare persino i governanti sauditi ora sono divisi. Alcuni applaudono di fronte alla risposta del “fuoco” sunnita al “fuoco” sciita iraniano, e alla creazione di un nuovo stato sunnita nel cuore di quello che viene considerato patrimonio storico sunnita. Alcuni sono anche attratti dalla rigorosa ideologia salafita del Da’ish.

Altri Sauditi sono più timorosi, e ricordano quanto avvenne durante la rivolta dei wahhabiti Ikhwan contro Abd-al Aziz che quasi fece collassare il Wahhabismo e il al-Saud nella seconda metà degli anni ’20. (Avvertenze: gli Ikhwan a cui si fa riferimento non hanno nulla a che vedere con l’Ikhwan dei Fratelli Musulmani – si prega di notare che qualunque prossima citazione in questo brano si rimanda agli Ikhwan wahhabiti e non agli Ikhwani Fratelli Musulmani).

Molti sauditi sono profondamente scossi dalle dottrine radicali del Da’ish (ISIS) — e cominciano a interrogarsi su alcuni aspetti dell’orientamento dell’Arabia Saudita.

Il dualismo saudita

Per comprendere la discordanza e le tensioni riguardo all’ISIS bisogna risalire alla inseparabile (e persistente) ambivalenza presente alla base della composizione dottrinale del Regno e nelle sue origini storiche.

Una componente principale dell’identità saudita risale direttamente a Muhammad ibn ʿAbd al-Wahhab (fondatore del Wahhabismo) e al modo in cui il suo puritanismo radicale e restrittivo è stato messo in pratica da Ibn Saud. Quest’ultimo era nient’altro che un leader minore – tra i tanti – di continui contrasti e raid verso le tribù beduine dei deserti poveri e roventi del Nejd.

Il secondo aspetto di questa ambivalenza riguarda re Abd-al Aziz, che negli anni 20 dello scorso secolo ha portato il paese verso la formazione di uno Stato, frenando le ondate di violenza degli Ikhwani (per avere il riconoscimento diplomatico di nazione-stato da parte di Gran Bretagna e America). Ha inoltre istituzionalizzato l’originario impulso wahhabita, cogliendo al volo l’occasione di mettere mano sul rubinetto dei petrodollari negli anni ’70, spingendo i pericolosi Ikhwani fuori dal paese e diffondendo una rivoluzione culturale piuttosto che una rivoluzione violenta all’interno del mondo musulmano.

Tuttavia questa “rivoluzione culturale” non è avvenuta tramite un mansueto riformismo. Si è trattato di una rivoluzione basata sull’odio quasi-giacobino di Abd al-Wahhab nei confronti della corruzione e della dissidenza che percepiva attorno a sé – da qui l’urgenza di purgare l’slam di tutte le sue eresie e idolatrie.

Al-Wahhab: “Impostori musulmani”

Steven Coll, giornalista e scrittore americano ha descritto come Abd al-Wahhab, discepolo di Ibn Taymiyyah -austero e critico studioso del XIV secolo -, disprezzasse “la nobiltà ottomana ed egiziana che attraversava l’Arabia per recarsi a pregare a La Mecca, carica di eleganza, tabacco, hashish e tamburi”.

Secondo il punto di vista di Abd al-Wahhab non ci sarebbero musulmani, ma solo impostori mascherati da musulmani. E il comportamento dei beduini arabi del luogo non era alquanto meglio. Indispettivano Abd al-Wahhab onorando i loro santi, erigendo lapidi e con le loro superstizioni (per esempio veneravano tombe o luoghi toccati dal divino).

Abd al-Wahhab denunciò tutti questi comportamenti come bida’ – proibito da Dio.

Abd al-Wahhab, così come Taymiyyah prima di lui, era convinto che la società musulmana dovesse rifarsi al periodo trascorso dal Profeta Maometto a Medina, (“i tempi d’oro”) al quale i musulmani dovrebbero aspirare a emulare (in poche parole salafismo).

Taymiyyah dichiarò guerra a sciismo, sufismo e filosofia greca. Si dichiarò inoltre contrario alle visite alla tomba del profeta e alla celebrazione del suo compleanno, spiegando che tutti questi comportamenti non erano altro che una imitazione della venerazione cristiana di Gesù come Dio (e quindi un’idolatria). Abd al-Wahhab fece suoi questi insegnamenti, sostenendo che “qualunque dubbio o esitazione” da parte dei credenti rispetto a questa sua particolare interpretazione dell’Islam dovesse “privare un uomo dell’immunità, delle sue proprietà e della sua vita”.

Uno dei principali precetti della dottrina di Abd al-Wahhab è l’idea cardine di takfir. In accordo con la dottrina takfiri, Abd al-Wahhab e i suoi seguaci potevano perseguire come infedele qualunque musulmano intraprendesse attività considerate in violazione con la sovranità dell’Autorità assoluta (cioè il re). Abd al-Wahhab denunciava tutti i musulmani che onoravano i defunti, i santi o gli angeli. Riteneva che tali sentimenti sminuissero la completa sottomissione nei confronti dell’unico Dio.

L’Islam wahhabita bandiva qualunque preghiera a santi, morti e persone care, pellegrinaggi verso tombe e moschee di particolare importanza, festival religiosi in onore dei santi, la celebrazione del compleanno del Profeta Muhammad e proibiva persino l’uso di lapidi durante il la sepoltura dei defunti.

Ha scritto: “coloro che non si adegueranno a questi precetti dovrebbero essere uccisi, le loro mogli e figlie stuprate e i loro possedimenti confiscati”.

Abd al-Wahhab esigeva conformismo, che doveva essere dimostrato in modo fisico e tangibile. Sosteneva che tutti i musulmani dovessero individualmente giurare fedeltà a un unico leader musulmano (un Califfo, se ce n’era uno). Ha scritto: “coloro che non si adegueranno a questi precetti dovrebbero essere uccisi, le loro mogli e figlie stuprate e i loro possedimenti confiscati”.

La lista degli apostati meritevoli di morte includeva sciiti, sufi e altre scuole musulmane, che Abd al-Wahhab non riteneva per nulla musulmane.

Non c’è nessuna differenza tra il Wahhabismo e ISIS. La frattura emergerà solo in un secondo momento: dalla successiva istituzionalizzazione della dottrina di Muhammad ibn ʿAbd al-Wahhab, “Una Regola, Una Autorità, Una Moschea”: questi tre pilastri fanno esplicito riferimento al re saudita, autorità assoluta del Wahhabismo ufficiale e al suo controllo “della parola” (cioè, la moschea).

La negazione da parte dell’ISIS di questi tre capisaldi, sui quali l’intera autorità sunnita poggia tutt’ora, è la frattura che rende l’ISIS – gruppo che sotto ogni altro aspetto rispetta e si conforma al Wahhabismo – una minaccia per l’Arabia Saudita.

Cenni storici 1741 – 1818

Questa visione ultraradicale costò a Abd al-Wahhab l’espulsione dalla sua città, e nel 1741, dopo diverse peregrinazioni, trovò rifugio sotto l’ala protettrice di Ibn Saud e della sua tribù. Ibn Saud vedeva negli insoliti insegnamenti di Abd al-Wahhab un mezzo per ribaltare le tradizioni e le convenzioni della cultura araba. Era la strada verso il potere.

“La loro strategia – così come quella dell’SIS oggi – consisteva nel sottomettere le popolazioni conquistate. Miravano a infondere paura.”

Il clan di Ibn Saud, riprendendo la dottrina di Abd al-Wahhab potevano fare quello che avevano sempre fatto, cioè razziare i villaggi vicini e impossessarsi dei loro beni. Solo che ora lo stavano facendo non più nell’ambito della tradizione araba, ma sotto la bandiera del Jihad. Ibn Saud e Abd al-Wahhab introdussero nuovamente l’idea del martirio nel nome del Jihad, garantendo ai martiri immediato accesso in Paradiso.

All’inizio conquistarono poche comunità locali e imposero le loro leggi. I popoli sottomessi non avevano molta scelta: la conversione al wahhabismo o la morte. Entro il 1790, l’Alleanza aveva il controllo della maggior parte della penisola arabica e razziò ripetutamente Medina, la Siria e l’Iraq.

La loro strategia — come quella dell’ISIS oggi – consisteva nel sottomettere i popoli conquistati, mirando a instillare il terrore. Nel 1801 gli Alleati attaccarono la città santa di Karbala in Iraq. Massacrarono migliaia di Sciiti, donne e bambini inclusi. Molti reliquie sciite, tra cui quelle dell’Imam Hussein, nipote assassinato del Profeta Muhammad furono distrutte.

L’ufficiale britannico Francis Warden, osservando la situazione all’epoca scrisse: “Hanno devastato l’intera città di Karbala e profanato la tomba di Hussein…, massacrando oltre cinquemila abitanti in una sola giornata, con particolare crudeltà…”.

Osman Ibn Najdi, storico del primo stato saudita riportò che il massacro di Karbala avvenne nel 1801. Ha documentato con orgoglio la carneficina, scrivendo “Abbiamo conquistato e sconfitto Karbala, riducendo i suoi abitanti in schiavitù, dopodiché abbiamo pregato Allah, Signore dei Mondi, e non chiediamo perdono per questo atto e ai miscredenti diciamo ‘vi aspetta lo stesso trattamento’”.

Nel 1803 Abdul Aziz entrò nella Città Santa della Mecca, che si arrese in preda al panico e al terrore (lo stesso destino che toccò anche a Medina). I seguaci di Abd al-Wahhab abbatterono i monumenti storici e tutte le tombe e le reliquie che trovarono sul loro cammino. Alla fine avevano distrutto secoli di architettura islamica nei pressi della Gande Moschea.

Tuttavia nel novembre del 1803 un assassino sciita uccise re Abdul Aziz (rivendicando il massacro di Karbala). Suo figlio, Saud bin Abd al Aziz, gli successe al trono e portò avanti la conquista dell’Arabia. I sovrani ottomani non potevano più stare a guardare mentre il loro impero veniva smembrato. Nel 1812 l’esercito ottomano formato da egiziani spinse l’Alleanza fuori da Medina, Jeddah e La Mecca. Nel 1814 Saud bin Abd al Aziz morì di febbre. Il suo malcapitato figlio tuttavia fu catturato dagli Ottomani e portato a Istanbul, dove fu orribilmente ucciso (secondo i racconti di un visitatore che si trovava in città l’erede subì umiliazioni per le strade di Istanbul per tre giorni, dopodiché impiccato e decapitato, il suo capo sparato da un cannone e il cuore strappato e impalato sul suo corpo).

Nel 1815 le forze wahhabite furono sconfitte dagli egiziani, che agirono per conto degli Ottomani, in una battaglia decisiva. Nel 1818 gli Ottomani conquistarono e distrussero la capitale wahhabita Dariyah. Questa fu la fine del primo stato saudita. I pochi wahhabiti rimasti si ritirarono nel deserto per riorganizzarsi e lì vi rimasero, a riposo per la maggior parte del XIX secolo. 

La storia si ripete con l’ISIS

Non è difficile capire che le basi dello Stato Islamico di ISIS, nell’Iraq di oggi, suonino familiari a chi si ricorda questa storia passata. Infatti le usanze wahhabite del XVIII secolo non scomparvero nel deserto del Nejd, ma tornarono in vita quando l’impero ottomano crollò durante la prima guerra mondiale.

Gli Al Saud – in questa loro rinascita del XX secolo – furono guidati da Abd-al Aziz, uomo astuto e di poche parole, che unificando le molteplici tribù beduine, lanciò l’Ikhwan saudita sulle orme del precedente proselitismo battagliero di Abd-al Wahhab e Ibn Saud.

Gli Ikhwan erano la reincarnazione di quel movimento feroce e semi-indipendente, dei “moralisti” wahhabiti, armati, che quasi erano riusciti a conquistare l’Arabia nei primi anni del XIX secolo.

Come era già successo gli Ikhwan riuscirono a conquistare La Mecca, Medina e Jeddah tra il 1914 e il 1926. Tuttavia Abd-al Aziz cominciò a sentire i propri interessi minacciati dal “giacobinismo” mostrato dagli Ikhwan. Questi ultimi si ribellarono, portando ad una guerra civile che durò fino agli anni ’30, quando il Re li fece abbattere, a colpi di mitragliatrice.

Per re Abd al-Aziz le semplici verità degli scorsi decenni erano state intaccate. Nella penisola era stato scoperto il petrolio. Gran Bretagna e America corteggiavano Abd-al Aziz, ma si dimostravano ancora inclini ad appoggiare lo Sceriffo Husain come unico e legittimo re di Arabia. I sauditi avevano bisogno di sviluppare una posizione diplomatica più sofisticata.

Il Wahhabismo subì una trasformazione forzata da movimento di rivoluzione jihadista e di purificazione teologica takfiri a movimento di conservazione sociale, politica, teologica e da’wa religiosa (chiamata islamica) e per giustificare l’istituzione che sosteneva la lealtà alla famiglia reale saudita e al potere assoluto del re.

La ricchezza del petrolio e la diffusione del wahhabismo

Con l’avvento della manna del petrolio – come lo studioso francese Giles Kepel riporta, gli obiettivi sauditi consistevano nel “diffondere e divulgare il Wahhabismo all’interno del mondo musulmano, “wahhabizzare” l’Islam, riducendo quindi la “moltitudine di voci all’interno della religione”, e unificandole sotto un “unico credo” – un movimento che superasse quindi le divisioni nazionali. Miliardi di dollari furono investiti – e lo sono tuttora – in questa manifestazione di soft power.

Proprio questa esuberante previsione di soft power, dal valore di miliardi di dollari – unita alla volontà saudita di orientare l’Islam sunnita secondo gli interessi americani, pur integrando il Wahhabismo nell’educazione, nella società e nella cultura, attraverso i territori islamici – creò una politica occidentale di dipendenza dall’Arabia Saudita, una dipendenza che dura dall’incontro di Abd-al Aziz con Roosevelt a bordo di una nave da guerra statunitense (di ritorno dalla Conferenza di Yalta) fino ad oggi.

I paesi occidentali osservarono il Regno, soffermando il proprio sguardo sulla ricchezza, la presunta modernizzazione e la leadership professata dal mondo islamico. Decisero di dare per scontato che il Regno si stesse piegando agli imperativi della vita moderna – e che anche il comando dei sunniti si sarebbe piegato al Regno e ai voleri della vita moderna.

“Da un lato l’ISIS è profondamente wahhabita. Dall’atro è ultra radicale in un modo completamente diverso. Potrebbe essere visto come un movimento correttivo del Wahhabismo contemporaneo”.

L’approccio Ikhwan dei sauditi nei confronti dell’Islam non si è spento negli anni ’30. E’, sì, indietreggiato, ma pur sempre mantenendo il controllo su alcune parti del sistema – da qui deriva il dualismo che ancora oggi si osserva nell’atteggiamento saudita verso l’ISIS.

Da un lato l’ISIS è profondamente wahhabita. Dall’atro è ultra radicale in un modo completamente diverso. Potrebbe essere visto come un movimento correttivo del Wahhabismo contemporaneo.

L’ISIS è un movimento “post-Medina”: si rifà alle gesta dei primi due Califfi, piuttosto che al Profeta Muhammad in persona, come fonte di emulazione e nega fermamente l’autorità saudita.

Mentre la monarchia saudita fioriva nell’era del petrolio come istituzione sempre più vasta, l’interesse verso il messaggio Ikhwan guadagnò terreno (a dispetto della campagna di modernizzazione di Re Faisal). L’approccio Ikhwan ha goduto – e gode tuttora – del sostegno di molti uomini, donne e sceicchi di spicco. Da un certo punto di vista Osama bin Laden incarnava perfettamente l’approccio Ikhwan nella sua tarda fioritura.

Oggi la minaccia dell’ISIS verso la legittimità del re non è vista come un problema, ma piuttosto come un ritorno alle origini del progetto saudita-wahhabita.

Nella collaborazione alla gestione della regione da parte dei Sauditi e dell’Occidente, all’inseguimento dei tanti progetti occidentali (la lotta al socialismo, al Ba’athismo, al Nasserismo, al Sovietismo e all’influenza iraniana), i politici occidentali hanno sostenuto la loro interpretazione preferita dell’Arabia Saudita (la ricchezza, la modernizzazione e l’influenza), scegliendo tuttavia d’ignorarne l’impulso wahhabita.

Dopo tutto, gli impulsi islamici più radicali erano visti dai servizi segreti occidentali come una risorsa più efficace nel rovesciamento dell’URSS in Afghanistan e nella lotta contro leaders e stati medio orientali non più in loro favore.

Perché dovremmo quindi essere sorpresi se dal mandato saudita-occidentale del Principe Bandar di gestire l’insorgenza siriana contro il Presidente Assad sia poi emerso un tipo movimento d’avanguardia neo-Ikhwan, violento e spaventoso: l’ISIS? E perché mai dovremmo stupirci – conoscendo un po’ riguardo il wahhabismo – se i rivoltosi “moderati” siriani sono diventati più rari del mitico unicorno? Perché avremmo dovuto immaginare che il Wahhabismo radicale avrebbe generato dei moderati? O perché avremmo dovuto immaginare che la dottrina di “un leader, un’autorità, una moschea: sottomissione o morte” avrebbe poi portato alla moderazione e alla tolleranza?

O forse, non abbiamo mai immaginato.

Traduzione di Elena Ferrara