“Nuova società per Israele e il sionismo” di Exeter fa la guerra agli accademici impegnati

Un workshop con il professor Ilan Pappé presso il Centro europeo di studi sulla Palestina dell’Università di Exeter. (Foto: dal sito web dell’Università di Exeter).

Palestine Chronicle. Di Ilan Pappé. Recentemente ho ricevuto una e-mail molto cortese da uno studente israeliano della mia università che mi invitava a partecipare ad una conferenza di un certo Yoseph Haddad che, mi hanno detto, avrebbe raccontato ai frequentatori del campus la meravigliosa vita di un arabo in Israele. Tutto ciò in coincidenza con la creazione di una nuova associazione studentesca presso l’Università di Exeter, la “New Israel and Zionism Society”. Nel titolo riportato da The Jewish Chronicle viene sottolineato con soddisfazione il fatto che nessun gruppo studentesco del campus si sia opposto.

Il motivo del cortese invito era il tentativo di rappresentare la propaganda sionista nel contesto di una sana e organica vita accademica ricca di dibattiti, mentre l’assenza di obiezioni alla nuova associazione era dovuta al fatto che nessuno era a conoscenza della sua avvenuta costituzione o della sua registrazione. Ma non è questo il punto.

Ciò che conta è che, incredibilmente, la comunità anglo-ebraica che sostiene Israele e il sionismo crede davvero, in questo momento e in quest’epoca, che un arabo sionista o un nuovo gruppo sionista abbiano un messaggio credibile da presentare agli studenti e ai docenti delle università britanniche.

La sprovveduta corporazione studentesca ha ammesso quale sia la motivazione principale che ha portato alla creazione di tale gruppo:  “Crediamo che vi sia una mancanza di rappresentazione delle idee e dei valori sionisti che sono spesso concepiti in modo errato dagli studenti”.

Gli “studenti mal informati” sono gli universitari post-laurea in Studi sulla Palestina e sul Medio Oriente, che conoscono Israele e la Palestina meglio dei giornalisti più esperti del Jewish Chronicle. Quindi, la pretesa della nuova associazione secondo cui “la nostra università ha ora la possibilità di fornire una piattaforma equa e solida per Israele” arriva con circa quarant’anni di ritardo.

Quello che Israele ha fatto in questi quarant’anni, quello che sta facendo ancora oggi – e per molti di noi sapere quello che ha fatto dal 1948 – è così grave che se si cerca una piattaforma equa e solida, lo si può fare solo attraverso lo stesso linguaggio usato da Amnesty International per descrivere Israele, cioè come uno stato di apartheid.

A Exeter ci sono probabilmente tre studenti che si considerano sionisti e Haddad dovrà portare il suo pubblico per diffondere la propaganda sionista nel nostro campus. Quindi, non si tratta di educare gli studenti o i docenti al sionismo; questi sono solo atti di intimidazione volti a minare il successo del consolidamento, nell’Università di Exeter, di un programma di studi sulla Palestina di ottimo livello e professionale e una testimonianza del grande lavoro svolto dai vivaci attivisti pro-Palestina tra i nostri studenti.

Gli studi sulla Palestina sono un’area di ricerca relativamente nuova, costruita sul successo degli studiosi palestinesi a partire dagli anni ‘60. Si tratta di uno sforzo scientifico congiunto che dimostra che una ricerca approfondita e meticolosa conferma le rivendicazioni più importanti avanzate dai Palestinesi nel corso degli anni, ossia che il sionismo è un movimento coloniale di colonizzatori, motivato dalla logica dell’eliminazione dei nativi e che impiega, tra gli altri mezzi, l’apartheid, per cercare di completare il progetto di spostamento e sostituzione della popolazione iniziato alla fine del XIX secolo.

Non vi è alcun modo per mettere in discussione il grande lavoro che stiamo facendo, non solo a Exeter ma in otto centri di studi sulla Palestina in tutto il mondo. È per questo che la controparte sta cercando di combattere l’argomento morale con la forza, il che porta a questi tentativi piuttosto patetici di intimidire, attraverso la presenza, l’inevitabile produzione di conoscenza sulla Palestina.

Questa battaglia non è ancora stata vinta, ma i centri e i programmi di studio continuano a espandersi e ad influenzare altri sui metodi di ricerca, di studio e insegnamento sulla Palestina. Però, tutto ciò ha un prezzo quando viene contrastato dai tentativi di sopprimere e mettere a tacere questi risultati – e alcuni dei nostri colleghi più vulnerabili sono ancora presi di mira dalla lobby israeliana, ovunque si trovino. Alcuni di loro hanno dovuto pagare un caro prezzo, perdendo a volte il lavoro, perché sono rimasti fedeli alle loro convinzioni morali e al loro impegno della lotta in Palestina.

Ci sono ancora Paesi come la Germania, l’Italia e la Francia, per non parlare dei nuovi membri dell’Unione Europea, dove gli accademici non osano ancora istituire un centro per la Palestina o incidere sui programmi di studio e che, pur sapendo bene che ciò che viene insegnato nelle loro università è pura propaganda, non sono in grado finora di fermare nei loro campus questa farsa. È necessario visitare e tenere conferenze in questi luoghi il più possibile per aiutare i nostri coraggiosi colleghi a resistere all’assalto della loro libertà di espressione e del loro lavoro accademico.

La nostra sfida più grande non è costituita dai tentativi di intimidazione nel nostro ambiente accademico, né dall’incapacità di diffondere l’impegno a livello globale. È altrove. Mentre la quantità e la qualità della ricerca impegnata sulla Palestina sono in costante aumento, finora non riescono a incidere sulla realtà sul campo. Di fatto, queste sembrano essere due traiettorie diametralmente opposte: il peggioramento delle condizioni all’interno della Palestina e una chiara e potente produzione di conoscenza al di fuori della Palestina.

Questa frustrante realtà è stata evidenziata in una recente ed eccellente conferenza sulla Palestina organizzata dall’Arab Research Centre di Doha. Una conferenza che ha portato alla ribalta alcune delle recenti brillanti borse di studio di giovani accademici e accademiche palestinesi che lavorano sulla Palestina. Accanto a loro, abbiamo potuto ascoltare studiosi esperti con carriere gloriose in molte discipline, provenienti da tutto il mondo.

L’essenza della sfida è come rendere più efficace la ricerca impegnata e rendere la penna più potente, a volte, della spada. Non c’è nessuno in grado di capire come farlo al meglio; è necessario un impegno congiunto.

L’unico vantaggio della comunità scientifica globale sulla Palestina è il suo approccio consensuale alla questione palestinese; questa comunità è molto meno divisa ideologicamente o politicamente.

Rappresenta una visione piuttosto solida e unitaria per il futuro, senza sottovalutare il suo particolare e limitato posto in un movimento di liberazione. In quanto tale, non assume il ruolo di leadership, né gli accademici si considerano rappresentanti dei movimenti. Ma costituiscono un capitale umano che probabilmente può essere impiegato meglio per contribuire allo sforzo di decolonizzazione e liberazione.

Questo capitale umano è pronto e accessibile e quando, speriamo presto, maturerà un processo di democratizzazione, unità e rappresentanza all’interno del movimento di liberazione, si rivelerà un’enorme risorsa per la causa palestinese.

Dopo tutto, ha svolto un ruolo cruciale negli anni ‘60 nell’istituzionalizzazione della lotta di liberazione, che ha dato inizio a un periodo molto formativo e impressionante nella lotta di liberazione fino al 1982 e, ancora una volta, è stata presente sullo sfondo della più stimolante rivolta del 1987 (anche se alcuni accademici hanno svolto involontariamente un ruolo piuttosto negativo nell’acclamare i disastrosi accordi di Oslo). Inoltre, è una parte importante della resilienza dimostrata oggi dai Palestinesi dentro e fuori la Linea Verde.

Questi sono tutti barlumi di speranza del passato, ma possono diventare molto più trasformativi e rivoluzionari in futuro, come parte della lotta che ci attende.

Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi