Obama e Rouhani: la storica stretta di mano che non è mai avvenuta

RT.  Di Nile Bowie.

Obama e Rouhani: la storica stretta di mano che non è mai avvenuta.

Mentre i leader politici a Washington e Teheran si dichiarano favorevoli alla soluzione diplomatica, un riavvicinamento autentico tra le due potenze è davvero possibile?

Entrambi i discorsi tenuti questa settimana durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite dai leader dell’Iran e degli USA, nonostante i suggestivi toni concilianti, prevedono un ordine internazionale molto diverso. Il presidente recentemente eletto Hassan Rouhani, nel suo primo discorso all’assemblea, ha ribadito che la questione nucleare iraniana è sostanzialmente una falsa pista, mentre ha affrontato eloquentemente le carenze morali del sistema internazionale nella sua forma attuale. Ha parlato del costo umano derivante dalle sanzioni che devastano le comunità e i membri più vulnerabili della società, dell’illogicità della ricerca militaristica dell’egemonia e della necessità di un ordine internazionale basato sulla parità tra le nazioni esistenti e sulla supremazia del diritto internazionale. Rouhani ha invitato le nazioni a formare una coalizione per la pace che rifiuti l’estremismo e i gruppi guerrafondai.  Le parole di Rouhani non sono state bellicose, ma fondate sulla moderazione e sull’umanità che riflettono un crescente consenso globale verso un mondo realmente multipolare.

Il discorso del presidente dell’Iran rispecchia una visione del mondo che la maggioranza degli iraniani condivide e quelli che lo hanno votato sono i veri vincitori, poiché Rouhani ha conquistato il palcoscenico mondiale e si è distinto come un vero statista e un rappresentante del suo popolo. Purtroppo, è a questo punto che l’ottimismo si trasforma in pessimismo.

Il discorso del presidente Barack Obama, sebbene conciliante per certi versi, è stato pronunciato attraverso la lente dell’unilateralismo e del mito dell’eccezionalismo che per decenni hanno dominato il processo decisionale degli USA. Elementi significativi del suo discorso sono stati i tentativi di giustificare l’attuale politica americana, vista come sempre meno sostenibile e limitata in diverse parti del mondo. Durante i suoi quaranta minuti di discussione, nelle parole di Obama hanno risuonato echi di Orwelliana memoria, nel tentativo di dare una veste morale alle proprie posizioni reazionarie.

Le sfumature del messaggio connotano una mancanza di volontà nel riconoscere l’evidenza, in contrasto con la posizione della Casa Bianca (sulla Siria, per esempio), e l’ostinata convinzione che le forze del “progresso” abbiano la responsabilità di proteggere i popoli di tutto il mondo da quei leader considerati “tiranni” o “dittatori” da pochi eletti di Washington una filosofia poco più sofisticata della dottrina del “Noi contro di loro” di Bush.

Il presidente americano ha palesemente cercato di difendere le posizioni intrinsecamente intransigenti ed egoistiche e ha chiarito che le critiche – l’idea di un impero americano – vanno liquidate come “propaganda”. I diplomatici americani sostengono che la delegazione iraniana ha respinto un’opportunità “d’incontro” tra i due leader, riferendo che la parte iraniana ha affrontato troppe complicazioni interne per proseguire la riunione. Altre fonti dicono che Rouhani non si sia presentato al pranzo della famosa stretta di mano perché è stato servito alcol.

La parte iraniana deve ancora rispondere del mancato incontro, tuttavia l’entità dei problemi tra i due paesi richiederà ben più di un saluto e di una simbolica stretta di mano tra il leader americano e quello iraniano – e nessuna delle due parti dovrebbe essere incolpata per l’incontro non concretizzato. Il punto centrale della questione è che le posizioni fondamentali tra i due leader sono così palpabilmente differenti, basate su visioni divergenti riguardo la linea politica mondiale in maniera così innegabile, che l’idea di una distensione storica e significativa  è quasi impossibile da ipotizzare. Non riesco a trasmettere abbastanza ai lettori quanto vorrei assistere a un riavvicinamento storico, che si rivelerebbe reciprocamente vantaggioso per entrambi i popoli se solo venisse data loro la possibilità di essere in posizione di parità.

Il mio viaggio in Iran dell’anno scorso mi ha portato nelle eleganti moschee di Esfahan, tra i maestosi deserti di Yazd e i rustici paesaggi montuosi di Abyaneh. Durante il mio soggiorno, il rial è crollato del 40 per cento, suscitando una protesta collettiva dei venditori del bazar di Teheran e una corsa a comprare oro e dollari americani. Dai produttori di automobili alle imprese esportatrici di energia, fino ai tessitori di tappeti e ai coltivatori di pistacchi, hanno tutti accusato il colpo inferto dal regime di sanzioni internazionali prive di etica e inflessibili, guidato dall’amministrazione Obama.

Mi sono storto una caviglia e ho passato qualche giorno nella mia camera d’albergo per tenere il mio piede a riposo. La donna delle pulizie, una madre di quasi cinquant’anni, dopo aver scoperto che viaggiavo con un passaporto statunitense, mi ha chiesto perché Obama stesse adottando una posizione così devastante per i civili iraniani. La donna era quasi in lacrime mentre spiegava come i suoi risparmi fossero stati notevolmente erosi dalla caduta libera del rial e come l’iperinflazione stesse punendo la gente comune. Non sapevo cosa dire, dato che era la verità.

La verità è che Washington non è disposta a riconoscere la Repubblica Islamica come entità politica legittima, ma come un regime che esiste solo per essere cambiato dal reazionario establishment politico degli Stati Uniti attraverso misure sia manifeste che segrete.

I valori propri della democrazia teocratica iraniana sono intollerabili per Washington, e anche se il panorama politico di Teheran ha limiti tangibili se osservato attraverso la struttura della democrazia liberale occidentale, l’elevata partecipazione pubblica alle elezioni, l’ascesa e la grande popolarità del presidente Rouhani fanno pensare che l’establishment politico dominante  sia davvero legittimo agli occhi dei principali interessati: gli iraniani.

Nel suo discorso, Rouhani, ha brevemente affermato che il modo migliore per superare lo scoglio del nucleare è quello di permettere a Teheran di proseguire la sua politica di ricerca su tale energia nel quadro del Trattato di non proliferazione nucleare, di cui è firmatario. La soluzione non potrebbe essere più diretta, ma implica il rispetto del diritto internazionale di tutte le parti.

L’ascesa di Rouhani al potere è stata il risultato di elezioni democratiche, che sono state viste come un referendum popolare sulla questione nucleare. Gli iraniani hanno appoggiato uno slogan di moderazione e interazione costruttiva con il mondo. Ho brevemente intervistato l’importante giornalista iraniano Kourosh Ziabari prima dell’insediamento di Rouhani, e mi ha detto di essere certo che il popolo iraniano non avrebbe avuto «un presidente abbandonato a se stesso in una sala vuota mentre si rivolge all’Assemblea generale delle Nazioni Unite; non avremo un presidente che viene fischiato alla Columbia University e nessuno darà dello squalo al nostro presidente, tanto meno coloro che sono i veri profittatori del mondo contemporaneo».

Proprio mentre Rouhani ha assunto la carica di presidente, gli Stati Uniti hanno emesso una nuova serie di sanzioni contro l’Iran – considerata un segno di buona volontà da Washington. Dato che i prigionieri politici sono stati graziati e la Guida Suprema Ali Khamenei parla di “flessibilità eroica”, Washington sarebbe sciocca a lasciarsi sfuggire quest’occasione di ricucire i rapporti.

L’Iran ha manifestato la propria volontà di operare e dare inizio a una nuova era diplomatica con Washington in diverse occasioni attraverso la cooperazione in Afghanistan e in altre aree – che hanno incontrato scarso interesse o aperta ostilità. È tempo per Obama di mettere da parte gli argomenti reazionari e visitare Teheran. Dovrebbe vedere i quartieri poveri del defunto Imam Khomeini; dovrebbe condividere tempo e tè nero con il presidente Rouhani e colmare le differenze.

Obama dovrebbe interrompere il flusso di armi agli oppositori della Siria e lavorare con Teheran e Mosca per promuovere la conferenza di pace Ginevra 2 senza precondizioni, portando alle elezioni a Damasco monitorate a livello internazionale in una data successiva. Solo una distensione storica fondata sulla parità può salvare il disastroso approccio della politica estera di Obama e la sua vacillante presidenza.

Solo quando Obama percepirà il calore dell’ospitalità iraniana si renderà pienamente conto dell’insensatezza e dell’ingiustizia della sua linea politica nei confronti della Repubblica Islamica.

Traduzione di Silvia Iannone