Oslo ha reso impossibile il boicottaggio di Israele in Cisgiordania?

Betlemme-Ma’an. Di Alex Shams. Dall’inizio dell’assalto di Israele a Gaza, una raffica di campagne popolari sono apparse in Cisgiordania, invitando al boicottaggio dei prodotti israeliani in Cisgiordania.

Molti negozi hanno tolto dagli scaffali i prodotti israeliani e li hanno rimpiazzati con prodotti locali equivalenti, mentre altri hanno continuato a fornirli, ma evidenziando le merci palestinesi con simpatiche bandiere nazionali e disponendoli in modo più evidente sugli scaffali.

Quasi dopo un decennio dal lancio della campagna globale per il boicottaggio di Israele, negli ultimi due mesi abbiamo finalmente assistito ad imponenti manifestazioni di entusiasmo per fermare “il supporto al tuo occupante” in tutta la Cisgiordania.

Nonostante i manifesti celebrativi e gli scaffali risistemati, comunque, l’aumentare improvviso del movimento di boicottaggio ha sollevato questioni più ampie su come possa avere realmente effetto un potenziale boicottaggio all’interno del territorio occupato da Israele.

In Cisgiordania è quasi pressoché impossibile trovare un singolo negozio di alimentari che non abbia in magazzino soprattutto prodotti di Israele a causa degli Accordi di Oslo del 1993 che hanno concesso ad Israele il controllo pressoché totale ed accesso senza restrizioni all’economia palestinese, limitando invece, allo stesso tempo, le importazioni e le esportazioni palestinesi.

Col movimento per il boicottaggio che non mostra segni di cedimento, tuttavia, ed un piccolo numero di aziende israeliane che denunciano l’aumento delle loro perdite economiche sulla sua scia, la campagna sta costringendo molti a porsi un interrogativo a lungo rimandato: è possibile boicottare Israele anche sotto l’occupazione?

Risveglio di coscienza della resistenza

“Negli ultimi anni molti Palestinesi hanno pensato che gli abitanti della Cisgiordania fossero stati domati e non più capaci di opporre resistenza”, ha riferito a Ma’an Tariq Dana, un analista politico del gruppo Palestinese di esperti Al-Shabaka.

Ma la campagna di boicottaggio è un “indicatore e segno importante del risveglio della coscienza di resistenza dei Palestinesi in Cisgiordania”, ha affermato.

Durante un’intervista nella città di Beit Sahour nel sud della Cisgiordania, all’interno del Singer Cafe (nebbioso a causa del fumo), un ritrovo locale di politici con i muri ricoperti di ritratti di eroi di sinistra come George Habash e Che Guevara, Dana ha dichiarato a Ma’an che qualcosa è cambiato nella mentalità della Cisgiordania a seguito della recente offensiva israeliana su Gaza che ha fatto più di 2000 morti.

Dana ha sottolineato che la campagna di boicottaggio è “apparsa spontaneamente” in tutta la Cisgiordania, probabilmente perché la sua natura disorganizzata le ha permesso di evitare gli ostacoli che una Intifada in piena regola avrebbe incontrato.

“Sono state fatte molte analisi sul potenziale di una Terza Intifada in Cisgiordania, ma vi sono numerose restrizioni sull’Autorità Palestinese da parte di Israele, così come la mancanza di strutture politiche, partiti, società civile, ed organizzazioni politiche dal basso per indirizzare la rabbia nella giusta direzione”, ha dichiarato.

“Ma il boicottaggio è un altro strumento della resistenza”, ha continuato, “e qualsiasi Intifada è una forma di rivoluzione”.

Dana ha detto che, nonostante gli ostacoli che gli Accordi di Oslo hanno messo lungo la via dell’autosufficienza dei Palestinesi – compreso lo smantellamento delle istituzioni che avevano promosso il boicottaggio durante la Prima Intifada – il boicottaggio è una grande possibilità.

“Il boicottaggio deve diventare parte integrante della cultura nella società palestinese e richiederà cambi dei nostri stili di vita… la gente ha bisogno di boicottare i prodotti israeliani anche se sono migliori poiché essi ci danneggiano e offrono supporto all’occupazione”.

Dana ha sottolineato la necessità di “assicurare che la campagna sia sostenibile ed istituzionalizzata, non solo da alcuni gruppi qui o là, ma attraverso organizzazioni, comitati e partiti politici”.

Dana ha portato come esempio la città di Beit Sahour durante la Prima Intifada, enfatizzando come il villaggio abbia prodotto “semplici forme di auto-sufficienza” per ridurre la dipendenza dai prodotti israeliani.

Beit Sahour potrebbe affidarsi completamente alla sua base produttiva per fornire prodotti semplici, loro hanno inventato i cosiddetti orti della vittoria – orti comuni nei quartieri che la gente condivide. E’ stato un modello semplice, ma efficace”.

“Beit Sahour potrebbe boicottare i prodotti israeliani per anni, e non riuscireste a trovare nessun prodotto israeliano nei mercati locali”, ha aggiunto. “La Prima Intifada è stata qualcosa di più di gente che tirava sassi… compreso un cambio dello stile di vita”.

Infatti, il piccolo villaggio di Beit Sahour, vicino a Betlemme, è famoso per il suo metodo innovativo nell’utilizzo delle campagne di boicottaggio, inclusa la ribellione del 1989 nella quale i residenti bloccarono i pagamenti delle tasse con lo slogan “Nessuna tassazione senza rappresentanza” (No Taxation Without Representation).

Sebbene i soldati israeliani avessero risposto con 42 giorni di assedio alla città, la ribellione – assieme ad una caccia all’uomo israeliano per 18 mucche che gli abitanti locali usavano per evitare l’acquisto di latte da Israele – hanno reso Beit Sahour un simbolo del desiderio di libertà palestinese.

Non possiamo semplicemente tenere le nostre case fuori dal reticolato

L’attuale sindaco di Beit Sahour, Hani al-Hayek, tuttavia, dubita che le strategie utilizzate un tempo nel villaggio, che hanno sortito tali effetti, siano ancora adeguati.

Sebbene l’ufficio del sindaco sia a pochi passi, lungo un vicolo, dal Singer Cafè, nella tranquilla parte antica di Beit Sahour, il comune si sente come un mondo a parte, con gli abitanti locali che entrano ed escono dagli uffici in mezzo a muri con manifesti che promuovono il turismo.

“Ogni anno quasi 4 miliardi di dollari vanno ad Israele attraverso i prodotti che acquistiamo, ma la maggior parte di ciò è per l’elettricità, l’acqua e il carburante”, al-Hayek ha dichiarato a Ma’an. “Che cosa dovremmo fare? Non possiamo semplicemente tenere le nostre case fuori dal reticolato”.

Anche se al-Hayek ha riconosciuto che il movimento per il boicottaggio ha raccolto successi nelle ultime settimane, egli ha sottolineato che la salvezza non può avvenire attraverso il boicottaggio di “yogurt e spremute” dati i problemi economici strutturali che devono affrontare i Palestinesi.

“Boicottare non può essere solo per alcune cose sparse qui e là, deve ricevere ampio sostegno dei prodotti palestinesi”.

Al-Hayek evidenzia la necessità di “un programma organizzato, sistematico e pianificato per far progredire il mercato palestinese. Dobbiamo dare supporto alla competizione, e non soltanto per due settimane. Il boicottaggio non può essere per due settimane a causa di quel che è successo a Gaza”.

Ha detto che, ad agosto, il comune ha dato vita ad una esposizione per far familiarizzare i residenti locali con i prodotti palestinesi, nella speranza che questo possa incoraggiare più persone a comprare i prodotti locali.

La spinta ad aiutare l’economia palestinese, tuttavia, incontra grossi ostacoli che non iniziano né terminano con la consapevolezza sociale.

Accanto al controllo di Israele su tutti i passaggi di confini, i regolamenti israeliani sulla terra palestinese limitano la capacità degli imprenditori palestinesi di espandere le imprese produttive.

Un enorme 61% dei terreni in Cisgiordania è nell’area C sotto totale controllo israeliano, e decine di migliaia di Palestinesi – in larga misura agricoltori – sono stati sfrattati per la costruzione delle colonie ebraiche.

Dar vita ad aziende in queste aree è un’impresa kafkiana piena di richieste di permessi, potenziali demolizioni, fastidi da parte dell’esercito, che convincono molti Palestinesi a cooperare con l’occupazione, importando e distribuendo prodotti israeliani.

La Banca Mondiale ha stimato in ottobre che solo il controllo di Israele sull’area C – senza contare la innumerevole varietà di restrizioni nel resto della Cisgiordania – ha un costo economico di 3,4 miliardi di dollari all’anno.

Anche se i Palestinesi cercano di aiutare l’industria locale, le restrizioni israeliane in tutti gli aspetti della vita dei Palestinesi, istituzionalizzate dagli Accordi di Oslo, significano che gli impedimenti strutturali per realizzare un boicottaggio totale in Cisgiordania dei prodotti israeliani potrebbero essere insormontabili.

Le critiche nei confronti della campagna sono talmente pesanti che il boicottaggio può solamente sperare di essere almeno simbolico, offrendo agli abitanti della Cisgiordania veramente poca speranza.

Un atto morale individuale

Non tutti, comunque, vedono la natura potenzialmente simbolica del boicottaggio come un impedimento.

“Se vuoi parlare di simboli, questa intera struttura politica è il sintomo che noi abbiamo virtualmente effetto uguale a zero”, ha dichiarato l’artista palestinese Omarivs Ioseph Dinae aka Omar Joseph Nasser-Khoury in un’intervista su Skype.

“Ma se noi almeno abbiamo effetti su questi simboli, questi effetti hanno risonanza economica, internazionale e simbolica su tutto il globo. Questo è abbastanza. E’ un punto di partenza”, ha aggiunto, denunciando la “narrativa disfattista” che ha deriso il movimento di boicottaggio senza presentare chiare alternative.

All’inizio di agosto, Nasser-Khoury ha lanciato una campagna invitando gli artisti palestinesi a osservare il boicottaggio culturale di Israele che ha raccolto più di 200 firme.

La campagna, intitolata “Una reiterazione-Una intensificazione” (A Reiteration – An Escalation), invita a boicottare “le impalcature sionista-israeliane ed i loro apologeti”, sottolineando che i Palestinesi che lavorano con loro sono “direttamente complici… dell’oppressione, omicidio, esproprio e pulizia etnica”. Essa invita anche i creativi palestinesi “ad affrontare e riconsiderare queste realtà oppressive ed a smantellarle”.

Boicottare nell’”industria creativa è più facile che nel commercio”, ha ammesso Nasser-Khoury, “dato che, in quanto creativi, non dovete incontrare apparati ufficiali e burocratici del governo. Siamo persone con privilegi, mezzi, creatività e strumenti per poter dare l’esempio”.

Nasser-Khoury ha indicato esempi storici di resistenza culturale in Palestina, affermando che “la situazione non è cambiata” e non dovrebbe esserlo nemmeno la reazione.

“Prima del 1993, prima dell’OLP, tutta la Palestina era occupata, tutto lo spazio creativo e dissidente era sotto coercizione e censura. La gente rischiava la prigione e di essere uccisa (per la loro arte)… Non si potevano nemmeno mettere insieme i colori della bandiera in nessun tipo di scarabocchio”.

“Siamo ancora sotto occupazione, veniamo ancora ammazzati, oppressi, massacrati e stiamo vivendo nell’apartheid. Soltanto perché vi è un governo (l’Anp) non significa che le cose siano cambiate. Lo stesso vale per la Palestina del ‘48”.

Ammettendo che il BDS non voglia “disintegrare Israele ed il Sionismo all’improvviso”, Nasser-Khoury ha affermato: “Almeno stiamo dicendo che ci siamo e che capiamo. Noi non approviamo l’Anp, Israele, il Sionismo, o l’OLP, o chiunque sia complice con loro, ed abbiamo uno strumento col quale possiamo combattere. E’ una forma di resistenza che non deve mai essere indebolita”.

Per Nasser-Khoury, anche se il boicottaggio economico non ha portato ad un cambio immediato sul terreno, è stata una maniera importante, per i Palestinesi, di affermare la loro stessa esistenza ed il loro rifiuto del colonialismo di Israele.

Si tratta di liberarsi, affermando: Io rifiuto di prendere accordi con l’occupazione”.

“(Boicottaggio) sono io che riconosco che moralmente concedendoti terreno libero dimostro la normalità della situazione, sto approvando ciò che stai facendo. Ma non prendendovi parte stiamo dicendo: no, questa non è una situazione normale”.

Traduzione di Aisha Tiziana Bravi