'Ossessionati dalla guerra all'islam combattiamo senza più Stato'.

«Ossessionati dalla guerra all’islam combattiamo senza più Stato»
Parla Warshawsky: senza leadership politica, Tel Aviv protagonista d’un
processo globale di ricolonizzazione. E i palestinesi scompaiono.

Michelangelo Cocco

Dalle aspettative per il prossimo vertice di Annapolis, previsto per la
fine di novembre negli Stati Uniti, alle prospettive del sionismo.
Michael Warshawsky, intellettuale e pacifista israeliano, ha sempre uno
sguardo molto profondo e contro corrente sulla storia e sulla politica.
Lo abbiamo intervistato il mese scorso a Savigliano (Cuneo), nel corso
del FestivalStoria, l’evento culturale organizzato dal professor Angelo
d’Orsi, di cui quest’anno si è svolta la terza edizione. Prima di
intervenire – assieme a Omar Barghouti, Gideon Levy, Catrin Ormestad –
al dibattito su «Etnos e religione: il caso d’Israele», il fondatore
dell’Alternative information center (

Da www.ilmanifesto.it del 9 novembre

www.alternativenews.org) ha
risposto alle domande del manifesto.

Il governo israeliano e l’Autorità nazionale palestinese (Anp) presto
torneranno a incontrarsi sotto supervisione americana. Cosa s’aspetta
dal summit di Annapolis?
I colloqui non produrranno alcun passo in avanti. Abu Mazen non ha
l’appoggio della maggioranza della popolazione palestinese e Ehud Olmert
è il primo ministro più debole che abbiamo da molti anni a questa parte.
Due leader così impopolari potranno, al massimo, fare una dichiarazione
congiunta.

Olmert segue la stessa politica di Sharon?
Tra i due non c’è niente in comune. Sharon aveva una strategia di lungo
periodo: la colonizzazione di tutta la Palestina e nessuna trattativa,
perché il negoziato avrebbe implicato la necessità di fissare un confine
tra Israele e i Territori occupati. E lui non voleva frontiere, almeno
per i prossimi 50 anni. Quella di Olmert è una strategia che mira alla
sua sopravvivenza, come leader politico e nei confronti della giustizia,
dalla quale è sottoposto a quattro procedimenti.

L’anno prossimo Israele celebrerà 60 anni d’indipendenza. Dove crede
stia andando lo Stato ebraico?
Da nessuna parte. Israele è uno degli esempi più estremi del mondo di
cosa possa fare il neoliberismo. Alla fine della guerra del Libano,
l’anno scorso, uno dei migliori giornalisti di Ha’aretz, Daniel
Ben-Simon, scrisse un articolo dal titolo «Non c’è più stato». Infatti
abbiamo avuto una privatizzazione completa dello stato e della società.
Abbiamo un’economia florida come mai prima (con sacche di povertà come in tutte le economie neoliberiste), un esercito. Ma non abbiamo nessun progetto nazionale, né una leadership politica che ci guidi da qualche parte.

Israele ha ancora bisogno di forza lavoro palestinese?
No, come molte economie neoliberiste, quella israeliana non è basata
sullo sfruttamento di forza lavoro ma su speculazioni finanziarie,
investimenti in tutto il mondo: Israele è un paese imperialista nel
vecchio senso della parola. Sono stato recentemente in India ed è
incredibile quanto, in una città come Nuova Dehli, siano presenti
capitali israeliani. Il governo esiste in quanto istituzione vuota,
mentre i palestinesi sono spariti dall’agenda dell’opinione pubblica.
Non esistono: sono al di là del muro, non li vedi. Lavoratori
palestinesi non ce ne sono più, eccetto a Gerusalemme. Negli anni
scorsi, alle cene degli israeliani ben educati, il primo argomento di
conversazione erano loro. Ora si parla dei palestinesi solo in mancanza
di altri argomenti di conversazione, dopo aver discusso di corruzione,
scandali sessuali, sport. Vengono percepiti come un eczema: niente di
pericoloso, non è un problema, a volte ti gratti, ci metti una crema ma
non vai in ospedale. Puoi conviverci, anche se qualche volta ti può dare
un po’ fastidio.

L’etnia influenza la cittadinanza e i diritti civili?
Israele è un esempio estremo di «stato etnico». Definendo se stesso come
«stato degli ebrei» mette l’etnia al centro della definizione di
cittadinanza. Israele si definisce anche come «stato ebraico
democratico», ma c’è una tensione interna tra questi due concetti: uno
stato democratico è uno stato di tutti i suoi cittadini,
indipendentemente dall’etnia. I palestinesi (il 20% della popolazione,
ndr) hanno diritti di cittadinanza ma non eguaglianza, per quanto
riguarda, ad esempio, l’accesso alla terra. Due anni fa è stata
approvata una norma che stabilisce che un cittadino israeliano non
ebreo, se sposa una persona non ebrea, non può vivere nel Paese con
quest’ultima. Una legge unica al mondo, in base alla quale un cittadino
deve scegliere tra vivere con il proprio sposo/a o rimanere nel Paese.

A sessant’anni dallo nascita dello Stato, pensa che ci sia un
ripensamento del sionismo?
C’è stata un’era molto promettente, negli anni ’80-’90, in cui il
sionismo è entrato in crisi. Tutto quel periodo, definito «post
sionismo», mise in dubbio una serie di dogmi. «Ok, il sionismo è stato
importante per la fondazione – si diceva -, ma ora dovremmo essere uno
stato come gli altri». Ci fu una de-ideologizzazione, un tentativo di
«de-sionizzazione». Alcuni membri della Knesset misero in dubbio la
necessità della legge del ritorno, che attribuisce diritto di
cittadinanza in Israele a ogni ebreo della diaspora che si stabilisca
nello Stato. «Forse – si pensò – dobbiamo essere lo stato degli
israeliani non degli ebrei». In questa tensione tra stato israeliano e
stato ebraico perfino la Corte suprema stabilì che sarebbe stato
necessario un bilanciamento tra i due termini. Con una serie di sentenze
affermò che il nostro Stato era abbastanza forte per essere più
democratico e meno ebraico. Nel 2000 questo processo si è interrotto. A
fermarlo, il processo di ricolonizzazione, parte di uno scontro di
civiltà globale. Israele è tornato indietro, in tutti i campi (politico,
militare, culturale, intellettuale) al «vecchio sionismo»: pensiamo di
avere il mondo e l’islam contro, di essere in guerra.

La seconda intifada e l’11 settembre hanno contribuito a questa situazione?
Non esiste una seconda intifada, questa è una grande mistificazione:
l’intifada è stato l’ultimo movimento anti coloniale di massa del XX
secolo. Quello che la gente chiama «seconda intifada» non è stata una
rivolta palestinese, ma un piano israeliano per riprendere dai
palestinesi ciò che era stato dato a Yasser Arafat e all’Olp in termini
di sovranità, diritti. Il 2000 segna, a livello globale, l’inizio della
messa in atto della strategia di ricolonizzazione dei neoconservatori:
riprendersi ciò che avevano perso a causa delle rivoluzioni
anti-coloniali degli anni ’50 e ’60 e dei movimenti sociali di massa in
Europa.
La ricolonizzazione della Cisgiordania e di Gaza è stata parte
di questo fenomeno: la terza offensiva sionista per riprendersi ciò che
era stato perso politicamente militarmente nel corso degli anni ’80 e ’90.

Dove sono le altre aree in cui possiamo osservare questo fenomeno?
Non solo casi come quelli di Iraq e Afghanistan, dove siamo tornati al
«colonialismo classico»: prendere il petrolio e il controllo diretto,
anche se attraverso una marionetta locale. Ma anche a livello dei
diritti delle donne, diritti sociali, civili, nei paesi
sviluppati. La
grande intuizione di Sharon fu capire che il suo sogno (riprendere il
controllo diretto), che appariva contro il corso della storia, stava in
realtà per diventare di nuovo «la regola del gioco».

Perché nessuno fa pressioni su Israele affinché tratti la pace coi
palestinesi?
Perché il mondo è cambiato: abbiamo avuto finora una divisione netta con
una strategia israelo-statunitense molto offensiva e l’Europa che ne
elaborava una alternativa, di normalizzazione, pacificazione. In questo
quadro (anni ’80-’90) i palestinesi erano appoggiati da chi voleva
risolvere le crisi. Ora abbiamo un riallineamento totale dell’Europa nei
confronti delle politiche aggressive e di ricolonizzazione degli Usa
.

I pacifisti israeliani sono addormentati?
Il cosiddetto «campo della pace» ha una ruota piccola e una grande. La
prima, più radicale, inizia a muoversi e trascina la maggiore, Peace
now, in grado di mobilitare centinaia di migliaia di persone e avere un
impatto sulle decisioni politiche. È accaduto così nella prima guerra
del Libano, durante la prima intifada, ma non oggi. La ruota piccola ora
funziona: siamo tra le 7 e le 10mila persone, mobilitate
permanentemente.
Ma non c’è più la ruota grande. E il nostro ruolo,
importante in termini morali, è politicamente irrilevante. E così
durante l’ultima guerra del Libano non abbiamo avuto nessuna
dimostrazione di massa. Piuttosto che addormentata, temo che la ruota
grande sia «morta», intrappolata dalla paura di rappresentare la prima
linea dello «scontro di civiltà».

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