Palestina e media mainstream tra cerchiobottismo e comunicazione non-neutrale

Palestina e media mainstream tra cerchiobottismo e comunicazione non-neutrale

InfoPal. Di Lorenzo Poli. Non è un tema semplice, ma comunque merita di essere affrontato in un periodo storico in cui l’avvento della cosiddetta “democrazia digitale”, dei mass media, del mainstream e, più in generale, della comunicazione di massa, continua a stravolgere le nostre vite molto velocemente, plasmando spesso anche i nostri comportamenti e il nostro modo di pensare attraverso nessi logici semplici fortemente convergenti che ci portano non più a fatti complicati da analizzare, ma spesso a notizie pre-confezionate di cui siamo consumatori e non attenti lettori.

L’informazione oggi è fortemente monopolizzata da grandi mass-media, dai social network attraverso quella che viene chiamata dittatura dell’algoritmo e dai grandi tycoon del Web di cui ormai siamo materia prima per l’estrazione dei nostri dati predittivi e dei nostri comportamenti futuri, ovvero merce gratis che garantisce a pochi privati un business ultra-miliardario sul mercato dei Big Data. Questo sancisce una nuova struttura, quella che la sociologa canadese Shoshana Zuboff ha chiamato capitalismo della sorveglianza in cui “I capitalisti della sorveglianza sanno tutto di noi, mentre per noi è impossibile sapere quello che fanno. Accumulano un’infinità di nuove conoscenze da noi, ma non per noi. Predicono il nostro futuro perché qualcun altro ci guadagni, ma non noi[1]. È, infatti, questo sistema che, paradossalmente, da un lato “ci accontenta”, ci vede come meri consumatori a cui dare in pasto notizie poco impegnative su cui non dobbiamo “interrogarci” e che possano attirare la nostra attenzione; dall’altro “ci dice quello che vogliamo sentirci dire” e, analizzando i nostri comportamenti, ci propone notizie-refrain che trattano di argomenti che ci interessano, rinchiudendoci nelle nostre convinzioni e impedendo la costruzione di un pensiero critico strutturato. Preso in considerazione il terreno ostile in cui ci si muove, la libera informazione è sempre più messa in pericolo.

Tutto questo può aiutarci a capire la relazione tra media e l’informazione sulla Palestina, iniziando col dire che, ancora oggi, nonostante viviamo nell’epoca del “villaggio globale” e dell’interconnessione smart, vi è un enorme linea di frattura tra Occidente e qualsiasi altra parte del mondo. Nell’informazione mainstream occidentale, l’eurocentrismo rimane il punto di riferimento che, in modo gerarchico, pone su livelli diversi le questioni riguardanti l’Europa e il Nord America rispetto alle questioni che riguardano tutto il resto del mondo, soprattutto il Sud. Vi è ancora l’idea perversa che l’Occidente sia il “centro” di cui è importante sapere ciò che succede, mentre il resto del mondo è sempre troppo “lontano” per riguardarci direttamente. In realtà siamo più vicini che mai se pensiamo che l’Italia è una penisola bagnata dal Mediterraneo, un mare che bagna tre continenti. È ovvio quindi che se non si hanno i mezzi per conoscere il mondo e non si hanno stimoli per farlo, sicuramente gli input non posso venire dai sottili meccanismi del capitalismo del Web, volto più a consolidare presumibilmente le nostre “certezze” piuttosto che metterle in discussione. L’informazione oggi non propone orizzonti divergenti, ma essenzialmente convergenti a cui noi aderiamo senza neanche che ci venga chiesto, dandoci un’illusione di interconnessione che si concretizza nella lunghissima distanza. Possiamo dunque dire che, in linea con i vecchi retaggi culturali e politici, anche con l’informazione di massa è in atto una costruzione culturale della lontananza, ovvero la distanza che alimenta l’indifferenza occidentale nei confronti del mondo con il fine di “non-far conoscere”.

La Palestina vive da più di 70 anni questa cancellazione dal mainstream, sopravvivendo invece nei siti di controinformazione, in alcuni giornali di partito, nelle agenzie stampa indipendenti sulla Palestina, negli incontri delle associazioni palestinesi, nell’attivismo della solidarietà internazionalista, nelle serate di alcuni centri sociali e di alcuni collettivi politici. Però, purtroppo, è il mainstream che riesce ad avere indiscriminatamente un forte impatto su tutta la popolazione, quindi le conseguenze sono deleterie.

Basti prendere ad esempio come, in Italia, è stata raccontata e trasmessa l’ultima escalation militare israeliana su Gaza, soprannominata con il termine biblico Operazione Guardiani delle Mura.

Si è parlato di “tensioni in atto”, senza mai dire chiaramente che si è trattato dell’ennesima aggressione militare di uno Stato occupante (Israele) verso uno Stato occupato (Palestina). Eppure la stampa a reti unificate ha parlato di Israele come se fosse una vittima di tutto questo.

Gli articoli usciti non si sono concentrati sull’evento complessivo, ma hanno dichiarato semplicemente che Hamas ha dato l’ultimatum affinché le autorità israeliane ritirassero i soldati dalla Spianata delle Moschee, dal quartiere di Sheikh Jarrah e rilasciassero i manifestanti palestinesi arrestati. Praticamente il protagonista della notizia e del tragico evento è stato Hamas che, stando a quello che hanno detto, ha lanciato piogge di missile su Israele. Si è riproposto così il vecchio e roboante stigma tout court del “terrorista arabo con la kefiah”, ovvero lo stereotipo sul quale si sono fondate in passato tutte le politiche anti-musulmane di Bush e di altre amministrazioni statunitensi per legittimare “guerre umanitarie”, meglio dette guerre imperialiste in Medio Oriente, portando alla nascita di forti sentimenti islamofobici in tutto l’Occidente.

Interessante però è capire come le notizie importanti per comprendere quello che stava succedendo non siano mai state date. Nessuno ha detto che l’Operazione Guardiani delle Mura, e la conseguente distruzione di Gaza da parte di Israele, è servita per sperimentare la Prima Guerra Mondiale dell’Intelligenza Artificiale. Come già accaduto nei recenti sanguinosi bombardamenti a Gaza, nel Sud del Libano e in Siria, l’ultimo attacco contro i palestinesi è servito per sperimentare sul campo i nuovi sistemi di morte del complesso militare-industriale israeliano. Come ha riportato The Jerusalem Post, citando un ufficiale del servizio d’intelligence delle forze armate di Israele: “per la prima volta l’intelligenza artificiale è stata la componente chiave e un moltiplicatore di potenza nella guerra al nemico”.

Tutto questo sulla pelle e con il sangue di centinaia di bambine e bambini della Striscia di Gaza che non possono essere nemici di nessuno se non di uno Stato razzista, suprematista bianco, senza Costituzione, fondato sul teocon e violatore dei diritti umani che vuole cancellare sistematicamente qualsiasi traccia del popolo palestinese, colpendo le sue giovani generazioni.

A livello mediatico, l’enfasi sui razzi di Hamas ha preso piede anche grazie al fatto che nessuno ha fatto una premessa essenziale: i missili lanciati da Gaza vanno a frantumarsi contro il sistema di difesa aerea di Israele “Iron Dome”, ovvero lo scudo protettivo israeliano che copre tutto il territorio ed intercetta i razzi lanciati da Hamas dalla Striscia di Gaza. Un sistema che viene azionato alla prima “avvisaglia” che è quasi sempre in azione. Pertanto, i missili lanciati dalla Resistenza hanno lo stesso effetto delle pietre lanciate contro il muro cisgiordano: un evento simbolico. I palestinesi non hanno, ovviamente, lo scudo protettivo e quindi, anche solo un missile israeliano che cade sulle case palestinesi, fa morti e distruzione. I media “hanno dato per scontato” che Israele ha uno scudo protettivo, a differenza di Gaza che uno scudo protettivo di difesa non lo possiede, con la diretta conseguenza che i missili israeliani cadono veramente mentre quelli di quelli di Hamas rimangono un’esibizione simbolica di forza che mostra come la Resistenza Palestinese sia pronta a battersi in qualsiasi momento. Nessuno infatti si è posto la domanda di come fosse possibile che “i 200 razzi” abbiano provocato solo 2 morti negli edifici di Ashkelon, mentre nessuno ha preso in considerazione i morti e i feriti tra i Palestinesi che sono stati a centinaia.

A livello mediatico si è messa in atto la solita ricetta da presstitute esattamente come è avvenuto con le escalation militare israeliane durante le Operazioni Piombo Fuso nel 2008, Colonna di Nuvola nel 2012 e Margine Protettivo nel 2014.

La Rai, forse influenzata dall’aumento spropositato di nuovi sponsor privati che “offrono” interi programmi televisivi con tanto di concessione pubblicitaria, ha dimenticato completamente cosa voglia dire “servizio pubblico”; mentre Radio24, lasciando spazio agli “esperti” dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi), ha ricondotto tutto “all’inevitabile esplosione di violenza generata dall’odio palestinese”. Espressioni simbolo delle mistificazioni falsate del presente che indignano ancor di più se pensiamo che sono state pronunciate da coloro che dovrebbero conoscere i contesti politici e geopolitici.

Nonostante ciò, oltre ad alcuni che, credendosi debunkers di Stato, si sono divertiti a dire quanto in realtà fosse Israele ad essere vittima del conflitto, anche i grandi quotidiani della stampa nazionale hanno continuato a dare notizie apertamente cerchiobottiste dal vago carattere imparziale. Eppure nessuno può negare che il linguaggio è una questione politica ed ogni parola oggi viene calibrata dal giornalismo mainstream per poter dare un’impressione piuttosto che un’altra.

I telegiornali hanno dato adito alla spettacolarizzazione del Partito Unico Nazionale sotto l’egida del sionismo durante la manifestazione organizzata dalla Comunità Ebraica in cui Matteo Salvini (Lega), Enrico Letta (PD), Antonio Tajani (Forza Italia), Andrea Cioffi (M5S), Carlo Calenda (Azione), Maria Elena Boschi (Italia Viva) e Giovanni Toti (Cambiamo) si sono esibiti per esprimere “la fine di ogni violenza e per la pace” sventolando la bandiera di Israele ed esprimendo solidarietà ad Israele. Aveva Ragione Malcolm X quando diceva: “Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono”.

Le falsità dette, le mistificazioni concettuali sulla distruzione dei quartieri di Gaza, la totale cancellazione delle cause dell’escalation legate agli sfratti del quartiere Sheikh Jarrah, e il continuo propinare antisionismo e antisemitismo come sinonimi hanno dimostrato per l’ennesima volta come l’informazione si astenga sempre dal suo essere imparziale. Oggi si sta riproponendo, in forme nuove, il giornalismo embedded che si era criticato durante la Guerra in Vietnam e durante la Guerra in Iraq nel 2003. Un modello di informazione collaterale al potere politico e militare, fatto di veline ufficiali di cui si accettano passivamente le fonti, la manipolazione dei fatti, le bufale di guerra (fake news), la staticità dei luoghi d’azione e la banalizzazione totale dei contenuti, spesso ridotti ad aneddoti fine a se stessi. L’informazione di oggi è un esempio di presstitute in cui i giornalisti e altre “teste parlanti” nei media mainstream danno opinioni predeterminate in modo fuorviante per adattarsi ad un particolare programma finanziario o commerciale, trascurando così il dovere fondamentale di riportare le notizie in modo imparziale.

Oggi però la sfida è più grande ed è doveroso riflettere ulteriormente proprio su quest’ultima parte con sottili distinguo politici in modo da non abbandonarci ad illusioni che possono fare male, in questo, anche alla causa palestinese, a tutte le cause non-mainstream e a noi che ci troviamo a portarle avanti.

Se guardiamo alla storia dell’informazione e della comunicazione di massa, quando mai le notizie sono state riportate in modo imparziale? Quando c’è stato un giornalismo imparziale? Per fortuna o purtroppo, nella storia contemporanea, non è mai esistito. Le stesse tesi a favore di una informazione imparziale e del cerchiobottismo, in realtà non hanno mai riportato le notizie in modo neutrale, ma anzi spesso hanno lasciato e tuttora lasciano trasparire una certa faziosità.

Ancora oggi le notizie che provengo dal Medioriente, dell’Africa, dell’America Latina e dal vasto mondo dell’Islam sono colme di banalizzazioni, pregiudizio, demonizzazione e stigmatizzazione volte a trasmettere strutture moralistiche per la quale c’è sempre un “buono da sostenere” ed un “cattivo da rigettare” come nemico. La cosa più assurda è che questi pregiudizi vengono riportanti come dati di fatto indiscutibili fondati su immaginari sbagliati che risulta molto difficile decostruire e smontare. Quindi la domanda sorge spontanea: esiste un’informazione neutrale?

È tipico del potere e delle istituzioni parlare di “neutralità”, di “compromesso”, di “contenimento dei conflitti” e contro gli “estremismi” (che spesso non lo sono) o contro le “degenerazioni ideologiche”, spesso per oscurare, il proprio impianto fortemente ideologico e non-neutrale. Quando il potere mette in discussione una visione di mondo, additandola come “ideologica”, in nome di una presunta neutralità del sapere, come hanno dimostrato gli studi critici decoloniali, in realtà sta celando e riproducendo forme di oppressione.

Questa faziosità nel proporre delle notizie in realtà viene spacciato come una “informazione neutrale” anche se neutrale non è perché, de facto, sta sostenendo una certa posizione spesso neanche troppo velatamente imparziale. Tutto è rigorosamente “ideologico”, soprattutto quando si impedisce di vedere le tante alternative possibili. Nella “Critica all’ideologia”, Karl Marx sostiene che tutti i sistemi di idee non sono dotati di un’autonomia reale, ma piuttosto si tratta di un dominio materiale cioè economico e politico, che poi si estende alla sfera delle idee. Secondo Marx sono le classi dominanti che producono ideologie funzionali ai loro interessi, cioè servono a giustificare determinati rapporti di potere.

A tal proposito è significativo quello che già più di un secolo fa aveva sostenuto Lenin dicendo che “Chi non sta da una parte o dall’altra della barricata, è la barricata”. Prendendo per vera questa frase possiamo dire che la presstitute mainstream è la barricata e quindi una delle tante facce del sistema.

Israele è lo Stato-brand per eccellenza e trova la sua giustificazione e la sua accettabilità attraverso l’esemplificazione della sua immagine pubblicitaria che mostra al mondo, ovvero una serie di “primati inesistenti”: “unica democrazia in Medioriente”, “Paese più ecosostenibile”, “Paese con l’esercito più etico del mondo”, “Paese con l’esercito più vegano”, “Paese più tollerante”, “paradiso gay”, “Tel Aviv, la capitale più gay, più vegana e più dog-friendly del mondo”. Non solo, anche la retorica su una presunta “occupazione benevola” farcita di racconti che pretendono di umanizzare la polizia e i militari israeliani, sono tutti slogan e narrazioni che servono per convincere, soprattutto gli occidentali, che Israele sia un posto vivibilissimo la cui quiete è violata da “barbari terroristi palestinesi” che, come per passatempo, si divertano a lanciare bombe.

Il mainstream è spazio in cui tutti questi slogan si costruiscono, si assimilano, si stratificano e diventano “certezza collettiva” attraverso la banalizzazione, l’appiattimento del dibattito e la polarizzazione dell’opinione pubblica senza descrivere veramente la realtà.

Il nostro modo di fare informazione non deve ambire al mainstream, ma deve prenderne le distanze. Il segreto è continuare a creare controinformazione documentata, incontrovertibile e difficilmente contestabile. Bisogna pensare il mondo dell’informazione al di fuori di quelle logiche di potere, di finanziamenti e di rapporti di forza. Il mainstream, con la comunicazione di massa ha portato a vedere l’utente di informazioni come un consumatore di notizie, ora sta a noi continuare a cambiare la concezione di informazione, dimostrando quale sia la sua quantità senza cinismi, senza ipocrisie e non avendo paura di essere di parte.

[1] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, trad. P. Bassotti, Luiss University Press, Roma, 2019, pag 21.