‘Palestina, Giornata della Terra’, in Puglia.

Comitato per la Palestina in terra di Bari
Comunità palestinese in Puglia
Palestina
Giornata della terra
Martedì 30 marzo 2010 – ore 19.30
Centro culturale – via Borrelli 32 Bari

Inaugurazione della  Mostra fotografica sulla Gaza Freedom March

interventi di

Taysir Hasan: La “giornata della terra”: perché?

Mimmo Colaninno: La Gaza Freedom March

Poesie di amore e lotta per la Palestina lette da Amira Abu Amra, Gino Locaputo

Coordina: Andrea Catone

Il 30 marzo il popolo palestinese ricorda la Giornata della terra.

Gli eventi che commemorano questo giorno particolarmente importante, risalgono al 30 marzo 1976, a partire dalla confisca, da parte dell’occupazione israeliana, di centinaia di ettari di terreni di proprietà palestinese in zone a maggioranza arabo-palestinese, in particolare in Galilea.

A seguito di questo atto, gli arabi nei territori occupati nel 1948 dichiararono uno sciopero generale, sfidando, per la prima volta dall’occupazione del 1948, le autorità israeliane.

La riposta militare di Israele fu forte: l’esercito, appoggiato da corazzati, ha invaso le cittadine palestinesi, uccidendo e ferendo diverse persone inermi.

Le proteste iniziarono il 29 marzo, con una manifestazione popolare a Deir Hanna, repressa con la forza, e seguita da un’altra, a Arraba, dove la reazione militare israeliana fu ancora più forte e portò all'uccisione di Khair Yassin e al ferimento di altre decine di cittadini.

La notizia dell’uccisione di Yassin amplificò le proteste in tutte le aree arabe. Il giorno successivo furono uccise altre cinque persone: Raja Abu Raia, Khader Khalaylah, Khadija Shawahneh, di Sekhnin; Muhsen Taha di Kufor Kenna, e Rafat al-Zuhairi di Ain Shama.

La Giornata della terra è stata un punto di svolta nei rapporti tra le autorità israeliane e le masse palestinesi dei territori del '48. Le autorità israeliane, con la loro risposta, hanno voluto dimostrare a tutti quelli che, per la prima volta, protestavano apertamente contro l’occupazione, chi sono “i padroni della terra”.

La Giornata della terra ha aiutato a riunire il popolo palestinese dei territori occupati, la cui lotta, fino ad allora, era limitata all'iniziativa dei singoli o di piccoli gruppi. Tale risposta popolare ha risvegliato i palestinesi che avevano accettato l’occupazione israeliana del 1948, credendo che il progetto israeliano avrebbe accolto qualsiasi minoranza razziale o religiosa non ebraica.

La Giornata della terra non finisce il 30 marzo, ma prosegue fino ai nostri giorni. Le politiche di confisca continuano ancora, così come i progetti coloniali israeliani. Crescono gli atteggiamenti razzisti che tentano di togliere ai palestinesi il diritto politico, legale e esistenziale, e non solo la terra.

La letteratura palestinese contemporanea era a noi fino ad ora sconosciuta. Abbiamo cominciato ad apprezzarla e ad amarla grazie ad un'antologia pubblicata dal Manifesto. In essa sono raccolte poesie, racconti, poemi. La trama unificante è costituita dalla terra, amata, ma negata dalla presenza delle truppe di occupazione israeliane.

Scrive Mu’in Bsisu in un passo dei Quaderni Palestinesi: Avevo la sensazione che negassero la mia carne ogni volta che tagliavano gli alberi d'olivo per sostituirli con piante d'aranci.

Riferendosi al tentativo dei coloni occupanti la sua terra di disperdere la cultura e l'identità di un popolo che per secoli ha basato la sua economia sulla cultura dell'ulivo.

L'amore, l'esilio, la persecuzione, la prigione, il diritto negato all’esistenza, la resistenza, sono i temi dominanti un dramma storico collettivo alla cui stesura contribuiscono mille mani, mille voci, mille cuori in una filigrana meravigliosa, intarsiata da milioni di gocce di sangue, brillanti come rubini d'Oriente al Sole.

In una pagina dei Quaderni Palestinesi di Mu’in Bsisu si legge che quando il poeta abbandonò la sua terra per recarsi a Bagdad, con l’unico dinaro che aveva comprò una bottiglia di vino, una mela e un libro di poesie di Nazim Hikmet, poeta o turco contemporaneo, morto a Mosca negli anni ’70, simbolo universale di lotta per tutti i popoli oppressi e una promessa di futuro per chi soffre, giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, l'oppressione.  

Anche l'amore è un tema molto forte, perché i nemici del sole (come sono definiti gli occupanti) non sono stati capaci di essiccare questo sentimento universale a cui hanno diritto tutti gli uomini, a qualunque latitudine si trovino.

I cuori palestinesi sono pozzi di sentimenti che nessuna oppressione riuscirà a prosciugare: 

I ricchi hanno Dio e la polizia, i poveri le stelle e i poeti, dice Mi'in Bsisu, ad indicare la testardaggine con cui i palestinesi si ostinano a difendere il loro diritto a “sentire” la vita, dalle radici, in maniera cosmica e totale, e non nella sola dimensione che hanno scelto i loro oppressori per loro, quella di vivere con la schiena piegata alla vergogna di una schiavitù rigettata come camicia di forza che brucia le carni.

Anche il futuro è una prospettiva cui essi non vogliono rinunciare.

Dice Mahmud Darwish in un poema che ha suscitato scandalo in Israele:

Prendete la vostra quota del nostro sangue e partite, abbiamo da fare nella nostra terra,

ad indicare che neppure la dimensione del sogno, del futuro, in cui s'intrecciano vite spezzate e proiettili di gomma, è una dimensione che le vittime dell'olocausto di ieri, trasformatesi negli assassini di oggi, (per una sorta di astuzia della ragione?), sono riuscite ad uccidere.

Mahmud Darwish, forse il poeta palestinese più famoso, è anche l'autore del testo della dichiarazione d'indipendenza dello Stato palestinese. Ha scritto un poema, È ora per voi di partire, che ha suscitato scalpore in Israele ed ha portato la stampa più oltranzista e reazionaria israeliana a dire che “voleva gettare a mare gli israeliani”. Alcune parole di tale poema sono state tradotte e usate strumentalmente dalla destra israeliana che, in parlamento, approfittando dell'ignoranza del testo da parte delle cosiddette “colombe”, poteva così cementare le diverse opinioni sulla soluzione della questione palestinese con la paura (ingiustificata) che Darwish incitasse all'odio e alla distruzione dello Stato di Israele.

Un popolo, che per la persecuzione nazista e per quelle più antiche ha per secoli tanto sofferto, arriva ad aver paura delle parole, dure come i sassi dell'Intifada, su cui va a frantumarsi – inutilmente omicida – la vergogna delle sue pallottole e dei suoi manganelli!

Piuttosto che voler cacciare i poeti in galera e affidarsi alla tracotanza muscolosa, che non vede e non sente, che ha preso il posto del cuore e della ragione, dovrebbe invece denudare la sua coscienza, far tacere le armi, e dal filtro della memoria far colare – grumi cocenti – i ricordi di un passato recente, quando l'oppresso era lui.

Altrimenti quelle pallottole potrebbero rimbalzargli contro…

Anche le parole, i tratti di penna che vogliono comunicare un sentimento d'amore e di rivolta sono sassi dell'Intifada, con cui i palestinesi stanno costruendo la Palestina. Anche i poeti sono combattenti in prima fila, perché, come dice il nicaraguense Tomas Borge

Un rivoluzionario è un sognatore, è un amante, è un poeta, perché non si può essere un rivoluzionario senza lacrime negli occhi, senza tenerezza nelle mani.

Mariella Cataldo, introduzione a “La luna giace tra i lupi”, 1995.

Mahmud Darwish

PASSANTI ATTRAVERSO PAROLE PASSEGGERE

Voi che passate attraverso le parole passeggere
portate i vostri nomi e partite.
Ritirate le vostre ore dal nostro tempo, partite.
Rubateci pure quel che volete,
il blu dal cielo, la sabbia dalla memoria.
Fate pure le foto che volete, per sapere
che voi non ci affumicherete
così come le pietre della nostra terra
che edificano il tetto del cielo.

Voi che passate attraverso le parole passeggere
voi fornite la spada, noi il sangue
voi mettete fuoco ed acciaio, noi la carne
voi ancora i carri armati, noi le pietre
voi fornite bombe lacrimogene, noi la pioggia.
Ma aria e cielo sono gli stessi
per voi e per noi.
Allora, prendete la vostra quota del nostro sangue
e partite.
Andate a mangiare, a festeggiare, a danzare.
Dopo però partite.
A noi resti la custodia delle rose dei martiri,
a noi di vivere come noi vogliamo.

Voi che passate attraverso le parole passeggere
come l'amara polvere, passate pure dove volete
ma non svolazzate fra di noi come insetti.
Abbiamo da fare nella nostra terra,
dobbiamo coltivare il grano
abbeverare la rosa dei nostri corpi.
Abbiamo qui quel che non vi piace
pietre e pernici.
Allora portate il passato se volete
al mercato dell'antiquariato
e restituite lo scheletro con la cresta
su un piatto di porcellana.
Noi possediamo quello che non vi piace
noi abbiamo il futuro
e siamo indaffarati nel nostro paese.

Voi che passate attraverso le parole passeggere
ammucchiate le vostre illusioni in una fossa abbandonata
e partite.
Restituite le lancette del tempo alla giustizia del vitello d'oro
o al musicale battito del revolver.
Noi abbiamo quello che non vi piace.
Partite noi abbiamo quello che non è in voi:
una patria che sanguina, un popolo che sanguina,
una patria utile all'oblio e al ricordo.

Voi che passate attraverso le parole passeggere
è tempo per voi di partire.
Stabilitevi pure dove meglio vi aggrada
ma non fissate la vostra dimora fra noi.
È tempo per voi di partire
per andare a morire dove più vi piace
ma non morite fra di noi.
Noi abbiamo da fare nella nostra terra
qui noi abbiamo il passato
il vocio inaugurale della strada.
Qui noi abbiamo il presente, presente ed avvenire.
Qui possediamo le cose terrene e l'aldilà.
Allora uscite dalla nostra terra,
dalla terra ferma e dal nostro mare,
dal nostro grano, dal nostro sale,
dalle nostre ferite,
da tutte le cose,
uscite dai ricordi della memoria.
Oh voi che passate attraverso le parole passeggere!

 

***

 

Innamorato dalla Palestina

I tuoi occhi sono una spina nel cuore
lacerano  ma li adoro.
li proteggo dal vento
e li conficco nella notte e nel dolore
così la sua ferita illumina le stelle
trasforma il presente in futuro
più caro della mia anima.
dimentico qualche tempo dopo
quando i nostri occhi si incontrano
che una volta eravamo
insieme dietro il cancello.
le tue parole erano una canzone
che io tentavo di cantare ancora
ma la tribolazione si era posata
sulle fiorenti labbra
le tue parole come la rondine
volarono via da casa mia
volarono anche la nostra porta
e la soglia autunnale
inseguendo te
dove si dirigono le passioni
i nostri specchi si sono infranti
la tristezza ha compiuto 2000 anni
abbiamo raccolto le schegge del suono
e abbiamo imparato a piangere la patria.
la pianteremo insieme
nel petto di una chitarra.
la suoneremo sui tetti della diaspora
alla luna sfigurata ed ai sassi.
ma ho dimenticato
oh tu dalla voce sconosciuta !
ho dimenticato
e stata la tua partenza
ad arrugginire la chitarra
o e stato il mio silenzio ?
ti ho vista ieri al porto
viaggiatore senza provviste  –  senza famiglia.
sono corso da te come un orfano
chiedendo alla saggezza degli antenati:
perche trascinare il giardino verde
in prigione –  in esilio  – verso il porto
se rimane malgrado il viaggio
l’odore del sale e dello struggimento
sempre verde ?
ho scritto sulla mia agenda
amo l’arancio e odio il porto
ho aggiunto sulla mia agenda
al porto mi fermai
la vita aveva occhi d’inverno
avevamo le bucce dell’arancio
e dietro di me la sabbia era infinita !
giuro   tessero per te
un fazzoletto di ciglia
scolpirò poesie per i tuoi occhi
con parole piu dolce del miele
scriverò  
 “sei palestinese e lo rimarrai ”
palestinesi sono i tuoi occhi
il tuo tatuaggio
palestinesi sono il tuo nome
i tuoi sogni
i tuoi pensieri e il tuo fazzoletto.
palestinesi sono i tuoi piedi
la tua forma
le tue parole e la tua voce.

palestinese vivi 
palestinese morirai

 

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