Palestina: la rabbia della generazione perduta

351252CBetlemme-Ma’an. Di Killian Redden. Poche settimane prima che un soldato israeliano gli sparasse nello stomaco, Mutaz Zawahreh scoprì l’amore per il mare.
Sulle coste della Bretagna Mutaz e due suoi amici del campo profughi di Duheisha, Murad Ouda e Issa as-Safi, stupivano i francesi bagnandosi nelle fredde acque del nord Atlantico.
Anche con la pioggia andavano in spiaggia, racconta Issa a Ma’an, a volte solo per guardare l’oceano – «perché già sapevamo che non lo avremmo visto più».
I tre palestinesi hanno passato due mesi in Francia, grazie a un programma di istruzione organizzato da un centro di Duheisha.
Ma in questo periodo si sono manifestati i primi segnali di fermento nei territori palestinesi occupati, e i tre amici sono diventati ansiosi di tornare a casa.
Il fratello di Mutaz, Ghassan, in sciopero della fame in una prigione israeliana, per protestare contro la sua detenzione senza capo d’imputazione, aveva iniziato a dimostrare problemi di salute.
I tre ritornarono e un po’ di giorni dopo Ghassan terminò lo sciopero della fame, quando Israele decise la sua liberazione per novembre. Ma i fratelli non si incontrarono più.
Il 13 ottobre, nel corso di una dimostrazione davanti al muro di separazione a Betlemme nord, Mutaz venne ucciso da un colpo di arma da fuoco: il trentesimo palestinese ucciso dalle forze israeliane in 2 settimane.

La rabbia

Mutaz, quando si unì ai manifestanti per lanciare pietre ai militari israeliani, era uno delle migliaia di palestinesi incapaci di contenere più la loro rabbia.
Solo davanti al muro, «affrontando le loro armi con il suo corpo», Mutaz poteva dar sfogo ai suoi sentimenti, dice il suo amico Murad.
«Non ce la faceva più», continua Murad, soprattutto dopo aver visto «come possa essere libera la vita in Francia».
Per Murad le proteste che hanno spazzato il territorio palestinese occupato nelle ultime settimane sono solo la punta dell’iceberg, l’espressione esteriore di ciò che lui chiama «intifada interna», covata in molte persone da anni.
«Si tratta di un’oppressione che dura da 60-70 anni», egli dice. «Le proteste corrispondono all’esplosione della rabbia».
Issa fa notare che, mentre dal di fuori i palestinesi vengono giudicati per il lancio di pietre, «nessuno ci chiede perché lo facciamo».
La prima volta che Issa lanciò una pietra fu all’età di 13 o 14 anni. A quel tempo non ne capiva nulla di politica: «Eravamo solo arrabbiati», egli dice.
Nel campo profughi di Duheisha la loro infanzia venne segnata da scontri di routine e da terrificanti raid notturni da parte dei soldati israeliani che saccheggiavano le loro abitazioni e portavano via membri delle loro famiglie.
Crescendo, dovettero affrontare gravi mancanze di opportunità, una situazione economica problematica e una libertà di movimento pesantemente limitata.
Mutaz, quando venne ucciso, aveva due lavori: lavorava come guardiano in un albergo e faceva il tassista. La maggior parte dei suoi parenti aveva passato dei periodi in prigione.
Murad dice che i manifestanti palestinesi non sono né terroristi né eroi. «Siamo solo persone normali, che vivono in una situazione di oppressione che non potete immaginare».

Mancanza di guida politica

Se la rabbia ha mosso la recente ondata di proteste, ci sono stati pochi tentativi di incanalare quella rabbia. Le proteste sono state caratterizzate dalla mancanza di guida e di organizzazione.
I leader di fazione – sia a livello nazionale che comunitario – non hanno avuto pressoché alcun ruolo nelle proteste, e l’Autorità palestinese guidata da Fatah si è impegnata a contrastarle.
Secondo Murat la mancanza di leader è il risultato di anni di lavoro congiunto di Israele e dell’Autorità palestinese, finalizzato a eliminare chiunque possa effettivamente sfidare lo status quo.
Cresciuti a Duheisha, Murad e Issa ricordano gli incontri regolari della comunità per discutere le problematiche del campo – sia politiche che sociali -, ma in mancanza di leader quelle riunioni sono in gran parte terminate negli ultimi anni.
Murad si riferisce ad esempio a Nidal Abu Aker, un giornalista e leader di comunità schietto, di Duheisha, che ha passato oltre 15 anni nelle prigioni israeliane.
Abu Aker ha recentemente terminato uno sciopero della fame di 42 giorni, portato avanti assieme al fratello di Zawahreh, Ghassan, e dovrebbe essere rilasciato a novembre: ma Murad dice che passeranno pochi mesi prima che egli venga nuovamente arrestato.
«Tutti coloro che hanno cercato di essere a capo di qualcosa vengono uccisi o arrestati», egli dice. «O te ne stai buono o lavori per loro».

Non c’è altra scelta

Senza leader le proteste hanno avuto poco senso strategico, e alcuni analisti ritengono che è nell’interesse sia di Israele che dell’Autorità palestinese far sì che i giovani palestinesi diano semplicemente sfogo alla loro rabbia.
Issa riconosce che i palestinesi che rischiano la vita lanciando pietre contro il muro di separazione israeliano causano ben pochi danni materiali a Israele.
Ma in questo momento, dopo decenni di negoziati e tentativi falliti di far pressione a livello internazionale su Israele, non c’è altra scelta.
I giovani palestinesi scesi in strada a Betlemme recentemente non intendono fare pressione su Israele, egli dice. Loro cercano solo di dimostrare il «rifiuto dell’oppressione».
Le proteste sono il grido di una generazione di palestinesi che sente da troppo tempo di non essere ascoltata da nessuno.
Issa pensa che, in definitiva, Israele teme non tanto la strategia, quanto la mentalità della sua generazione, il rifiuto di rinunciare alla libertà. Se le recenti proteste si sono affievolite, quella mentalità permane.
Issa racconta che nel loro viaggio in Francia i tre amici non sono riusciti a capire perché i francesi non vadano al mare ogni giorno: come se non comprendessero il valore della loro libertà. Come se i francesi fossero più «perduti» di loro tre.
«Almeno qui abbiamo qualcosa per cui combattere», egli dice.

Traduzione di Stefano Di Felice