Palestina: “La riconciliazione è lontana dal potersi concretizzare”

Nell’ambito dell’inchiesta sulla situazione geo-politica del Vicino e Medio Oriente, pubblichiamo un’intervista a Jean François Legrain raccolta da Catherine Gouëset per L’Express.

I palestinesi annunceranno sabato 18 febbraio la formazione di un governo di alleanza nazionale Fatah/ Hamas secondo i termini dell’accordo firmato a Doha il 6 febbraio sotto l’egida dell’emiro del Qatar, sheikh Hamad ben Khalifa Al-Thani. Questo accordo ha più possibilità di concretizzarsi del precedente? Che ruolo ha avuto il contesto della primavera araba e della crisi in Siria? Cosa significano i cambiamenti in corso per  Hamas.

Jean François Legrain, ricercatore del CNRS, profondo conoscitore del Movimento nazionale palestinese, ha risposto alle domande de L’Express.

Quali sono le possibilità di una concretizzazione della riconciliazione palestinese?

“Allo stato attuale,  la probabilità di giungere a una vera riconciliazione è debole, per la mancanza di volontà e di capacità ad agire sufficienti da ambo le parti. Le divergenze di fondo restano e le tensioni sul campo sono sempre forti. La società civile non ha un grado d’organizzazione sufficiente per spingere Fatah e Hamas a cambiare linea politica. Nei due accordi, quello del Cairo, nel maggio 2011, e quello di Doha, la settimana scorsa, i palestinesi – o piuttosto i loro apparati politici –  di fatto si sono visti imporre questa coalizione che non è stata la conseguenza della mobilizzazione del popolo.

“Le due parti hanno sicuramente dovuto procedere ad adattamenti a causa dei cambiamenti in atto durante lo scorso anno  nella regione, ma sono ancora lontani da potere concretizzare una vera intesa. La scadenza prevista nel mese di maggio per le elezioni non sarà probabilmente confermata.

“Fatah di Mahmoud Abbas è mal ridotto…

“Mahmoud Abbas si trova in una situazione senza uscita su tre questioni: i negoziati di pace con Israele sono completamente bloccati; la domanda d’ammissione dello Stato della Palestina all’ONU è a un punto fermo, e non è riuscito a concretizzare l’accordo di riconciliazione firmato nel maggio scorso. All’approssimarsi dei suoi 77 anni, Mahmoud Abbas, annunciando che non si ripresenterà alle elezioni per la presidenza dell’Autorità palestinese, avrà difficoltà ad uscire della vita politica. E Fatah si è mostrata incapace di rinnovare i propri quadri e le proprie idee: nessuna vera riflessione è stata condotta sulla sconfitta del 2006 nei confronti di Hamas; nessuna personalità si è imposta per succedere a Mahmoud Abbas. E benché sia impossibile appoggiarsi ai sondaggi – non affidabili- , è probabile che Fatah non sarebbe in grado di dare battaglia in caso di elezioni”.

Queste difficoltà vanno oltre Fatah?

“I palestinesi tutti insieme non sono in effetti più capaci di darsi una linea politica consensuale come negli anni 70/80, quando l’OLP era riuscito almeno ad organizzare un programma politico proprio.

“La causa palestinese in questi ultimi anni è ridiventata, come negli anni 60, il giocattolo delle potenze vicine. È ciò che io ho qualificato come ‘depalestinizzazione’, i cui primi i sintomi sono apparsi appena prima della morte di Arafat, nel 2004, si sono in seguito aggravati per l’incapacità dei movimenti palestinesi di superare le loro controversie, per l’impossibilità di uscire dal quadro degli accordi di Oslo: i palestinesi sono stati così obbligati a fare intervenire dei ‘padrini’, di volta in volta egiziani, yemeniti, siriani, sauditi.

“È ora la volta del Qatar che prova a cogliere i frutti ‘della primavera araba’ – come sta facendo in Tunisia, in Libia e in Egitto, parrebbe con il sostegno degli Stati Uniti  e anche di Israele.

“Hamas sembra in preda a una serie di confusioni…

“È in effetti in preda a una crisi organizzativa profonda ma in un’intesa sui suoi ‘valori’. Si tratta innanzitutto di un’inevitabile autorivalutazione dopo cinque anni di gestione della politica. Ma Hamas, ne sono convinto, resta capace di consensi nonostante le tensioni interne che hanno potuto emergere qua e là in questi ultimi mesi. Ciò che cambia, è che prima riusciva a gestire le tensioni al suo interno, senza che sfociassero all’esterno”.

Questi cambiamenti sono anche legati alla trasformazione del contesto regionale?

“Le vittorie dei Fratelli musulmani in Egitto e di Ennahda in Tunisia, come pure l‘implicazione crescente della Turchia sotto la guida dell’AKP negli affari arabi sono in effetti state l’occasione per Hamas di rivedere la propria diplomazia nel contesto di tensioni con i suoi partner tradizionali, la Siria e l’Iran. La scelta di questi protettori era stata motivata dal pragmatismo: la Siria aveva violentemente represso i suoi Fratelli musulmani, in particolare a Hama nel 1982, e l’Iran sciita non erano l’alleato più ovvio per questo movimento sunnita. Ma, di fronte a Fatah, che Hamas considera come un giocattolo nelle mani degli Stati Uniti e di Israele, questi due paesi erano alleati di circostanza in quanto  polo di resistenza alle politiche americane.

“Rifiutando di sostenere la repressione del regime di Bachar el-Assad, Hamas di fatto ha creato attrito nei confronti del suo vecchio alleato.

“La crisi siriana ha messo Hamas in una posizione delicata. Rifiutando di sostenere la repressione del regime di Bachar el-Assad e manifestando la sua comprensione per le aspirazioni del popolo alla democrazia, di fatto si è messo in difficoltà con il suo vecchio alleato. È per questo che la maggior parte dei suoi quadri è stata costretta a lasciare la Siria. Questa posizione avrebbe anche comportato un raffreddamento delle sue relazioni con l’Iran, di cui Damasco è uno dei principali alleati.
Ed è anche per pragmatismo che alcuni membri di Hamas desiderano ora attivare nuovi legami con il Qatar nel momento in cui le relazioni con la Turchia o i Fratelli musulmani dell’Egitto e della Tunisia sono più consensuali”.

Quali sono le possibili direzioni del cambiamento del movimento?

“Uno dei principali dibattiti interni a Hamas attualmente riguarda la sua organizzazione. Dovrebbe mettere in evidenza la sua appartenenza al movimento dei Fratelli Musulmani (da cui è uscito e da cui attinge i propri fondamenti ideologici) e creare una partito politico sul modello giordano (Fronte d’azione islamica, fondato nel 1991) o egiziano (Partito libertà e giustizia, più recente). Questo permetterebbe così di creare uno strumento distinto dalla ‘Casa madre’, cosa che potrebbe servire per tentare di sfuggire dal boicottaggio internazionale che colpisce Hamas.
Se un tale partito nascesse, dovrebbe integrare logicamente l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, forse anche al posto di Hamas. L’OLP è la sola rappresentazione riconosciuta come legittima da tutto il popolo palestinese, nei territori occupati e nella diaspora. L’Autorità palestinese è in effetti soltanto un’istanza provvisoria per l’autonomia delle sole popolazioni di Cisgiordania (a parte Gerusalemme) – Gaza. È dunque importante che Hamas e il Jihad islamico integrino quest’organizzazione. Si pensa che la riconciliazione palestinese sbocchi in una rifondazione del movimento palestinese, che comprende questa ricomposizione dell’OLP, ma per il momento non è possibile  prevederla a breve scadenza”.