Palestinesi lacerati tra l’arroganza di Trump e l’indifferenza araba

MEMO. Prendere posizione nel conflitto israelo-palestinese, fulcro delle politiche mediorientali per decenni, è da sempre un’azione destinata a causare un frastuono internazionale. Ma quando un apparente mediatore di pace dichiara in maniera arbitraria di consegnare Gerusalemme – il nodo della contesa nel cuore della lotta perenne tra musulmani ed ebrei – a Israele, il frastuono è garantito.

Ma non a lungo. Il riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele non aggiunge nulla di nuovo ad un dibattito che va avanti da decenni. Gli Stati Uniti hanno a lungo rifiutato il Corpus Separatum di Gerusalemme, hanno appoggiato l’occupazione israeliana della Palestina, fornito le armi con cui le forze israeliane hanno mitragliato i villaggi palestinesi, supportato i loro insediamenti in territorio arabo, posto un veto sulle risoluzione dell’ONU contro Israele e difeso il suo diritto ad occupare il territorio musulmano. Di conseguenza, il recente riconoscimento di Trump non aggiunge molta sostanza a tutto ciò. È meramente un altro atto provocatorio da parte di un narcisista megalomane che intende divorare il mondo arabo con le sue politiche predatorie. Ma come qualunque altro episodio di intensificata tensione all’interno del pluriennale conflitto israelo-palestinese, l’opposizione globale alla dichiarazione di Trump tramonterà presto, la rabbia scomparirà e, al contrario dell’anticipata violenza e spargimento di sangue nel Medio Oriente, non farà niente di più che agitare i musulmani che egli ha tentato intenzionalmente di offendere. Non ci saranno grandi cambiamenti all’attuale status quo e non ci sono nuvole cariche di pioggia che appaiono all’orizzonte.

Al massimo, l’atteggiamento disinvolto di Trump nei confronti del Medio Oriente mostra una mancanza di comprensione delle più semplici politiche regionali. Le sue dichiarazioni politiche, espresse con una così chiassosa e spensierata indifferenza per le conseguenze di cui è difficile non essere arrabbiati come musulmani, fanno degli Stati Uniti un mediatore di pace arbitrario in Medio Oriente. Il suo riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele o anche dell’intera Palestina come parte di un “Grande Israele”, per questo motivo, hanno un impatto irrisorio sulla sicurezza e sull’equilibrio geopolitico del potere nella regione. Ciò è dovuto largamente alla cavalcata israeliana di ossequiosi leader arabi che tacitamente sostengono Israele per ragioni di diversa natura e continuano ad appoggiare il blocco imposto da Israele su Gaza.

Con i fedeli seguaci arabi, monarchi e leader avvolti in fluenti abiti di seta, che soggiogano i propri cittadini e i loro fratelli palestinesi per volere di Israele, quest’ultimo chi deve temere all’infuori, ovviamente, dei jihadisti? Dacchè i regimi repressivi la cui legittimità  e sopravvivenza dipendono realmente dagli Stati Uniti, la gran parte degli Stati arabi potrebbe difficilmente opporsi a Trump. All’infuori del mimare con la bocca le solite banalità ed esprimere solo a parole il loro supporto alla causa palestinese o pronunciare condanne e denunce per calmare il loro pubblico arrabbiato, c’è poco che gli smidollati leader arabi potrebbero fare per sfidare la decisione di Trump o l’egemonia di Israele in Medio Oriente. Loro sono impotenti e inefficaci.

Per dimostrare il loro senso di solidarietà con la lotta palestinese, comunque, sanno bene come rispondere con una finta pietà, come hanno sempre fatto. In questo modo darebbero all’opinione pubblica araba, sotto la facciata della democrazia, un’opportunità per sfogare la loro frustrazione, permettendo loro di bruciare qualche bandiera americana e israeliana e scagliando insulti contro l’ignorante leader americano per aver oltrepassato la cosiddetta linea rossa prima che tutte le proteste scoppino in una chiusura insensata. Con la soddisfazione di aver contribuito alla causa palestinese, l’opinione pubblica araba tornerà alla sua quotidianità come se nulla fosse accaduto. Si tratta di una performance che i leader arabi hanno perfezionato nel corso dei decenni per sedare il pubblico senziente ed assuefare i loro timori riguardo la Palestina. È tutto un “panem et circenses”, niente più e niente meno.

Sono stati i leader arabi a fondare le basi che hanno condotto alle condizioni pietose in cui i palestinesi sono costretti a vivere oggi. La strada palestinese verso la pace e l’autodeterminazione è ostacolata non solo dall’aggressività israeliana ma anche da decenni di indecisione e dalla goffa incompetenza dei leader arabi. E mentre lanciano avvisi sulle gravi ripercussioni nella regione, si inchinano tutti a Trump e tacitamente aderiscono agli ordini del “capo” in cambio di vedersi restare sui loro troni intatti e ricevere aiuti diplomatici e militari aggiuntivi nella regione.

E per i palestinesi, cosa importa loro se protestano e no? Per una popolazione che vive sotto l’occupazione israeliana e non può neanche viaggiare liberamente tra Gaza e la Cisgiordania, coltivare o irrigare le loro antiche terre senza il permesso di Israele, c’è poco che le proteste possano fare. I palestinesi languiscono sotto i colpi dell’umiliazione da decenni, sono un popolo sconfitto, non conquistato dall’esercito israeliano ma pestato dal tradimento arabo, schiacciato dai fallaci tentativi dei loro timidi leader per un processo di pace che è una farsa e paralizzato da una maggiore indifferenza araba verso la loro causa.

Per Israele, la Palestina non è altro che una larga prigione dove i detenuti sono costretti a vivere nelle condizioni più sconcertanti. Le tiranniche guardie della prigione hanno diviso i prigionieri in celle piccole e squallide, tenendoli legati ad un guinzaglio stretto, con le loro proprietà confiscate e si aspettano che tutti i prigionieri obbediscano ai loro ordini perentori che vengono loro urlati.

Occasionalmente, il guinzaglio viene allentato e ai prigionieri viene concesso di tirare pietre e mettere in scena rivolte, cose che consentono alle guardie di giustificare l’incarcerazione di milioni di essi e di procurarsi più armi e fondi dal loro benefattore americano, per reprimere i terroristi ribelli. I prigionieri sono legati, le loro attività monitorate, le loro celle saccheggiate per trovare armi e, quando vengono scovate, loro sono torturati e giustiziati sommariamente. Il loro unico contatto con l’esterno è attraverso le minuscole aperture sulle celle e un tunnel posteriore presidiato dagli accaniti sostenitori arabi di Israele.

Per i leader arabi, la Palestina è un problema troppo difficile da gestire. Non hanno né il coraggio politico né la forza militare per trovare una soluzione decisiva. Così osservano impotenti la prigione dall’esterno del recinto di ferro alto e pesantemente sorvegliato. Tutto quello che potevano permettersi sono semplici parole di consolazione, insieme a canti lontani e discordanti e speranze elusive di libertà. Il mondo occidentale, apatico a tutto ciò, osserva come se un reality show si dispiegasse sui loro schermi mentre Trump si posiziona come l’ultimo blocco monolitico sulla via della pace in Medio Oriente.

Lacerati tra l’arroganza di Trump e l’indifferenza araba, i poveri palestinesi continuano a vivere una miserabile vita nella più grande prigione del mondo piena di sconforto. Il mondo li ha trascurati e i loro leader li hanno fatti fallire. Ma nonostante la loro debolezza, mantengono ancora l’asso di Trump nella manica. Israele può continuare a rivendicare Gerusalemme, ma i fatti concreti sul campo dettano il contrario. La legittimità di Israele è inestricabilmente legata al destino della Palestina. Questa è la verità inattaccabile.

Traduzione per InfoPal di M.D.F.