Per i palestinesi, la guerra del 1967 rimane una ferita persistente e dolorosa

Bdsitalia.org. Di Omar Barghouti *. Dopo anni di occupazione e di spoliazioni, è ora il momento della libertà per i palestinesi.

L’occupazione militare di Gaza e della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, ha raggiunto 50 anni questa settimana. La cicatrice sulla mia testa dopo una fatidica giornata del giugno 1967, quando ha avuto inizio il regime militare, è ora completamente coperta da capelli grigi, ma la cicatrice che quel giorno ha lasciato sulla mia vita rimane in larga parte scoperta.

Avevo meno di 3 anni quando la mia madre ventiquattrenne afferrò frettolosamente me e i miei due fratelli più grandi per fuggire verso la relativa sicurezza della Giordania, pochi giorni dopo che le forze armate israeliane avevano occupato Ramallah.

Mia nonna, una rifugiata di Safad durante la Nakba del 1948 – l’espulsione di massa di più di 750.000 palestinesi per stabilire in Palestina uno stato a maggioranza ebraica – era tormentata su cosa consigliare a sua figlia. Non voleva che soffrissimo il destino della sua famiglia quando furono costretti sotto la minaccia delle armi ad abbandonare la loro casa a Safad e, in seguito, a diventare profughi in Siria. Eppure, più di tutto, mia nonna voleva che fossimo al sicuro.

La voce, fonte di panico, che le autorità militari israeliane avrebbero chiuso presto l’unico passaggio tra Palestina e Giordania risolse il dilemma. Ciò convinse mia madre a portarci ad Amman “temporaneamente, fino alla fine della guerra”. Mia nonna cercò di confortarla con queste parole, ma non sapeva nascondere la propria convinzione che Israele non ci avrebbe mai permesso di tornare.

Mia madre scivolò attraversando il ponte di legno verso la Giordania gravemente danneggiato. Stava portando il mio fratello maggiore e me mentre afferrava il nostro fratello più grande e due borse. Sono caduto a terra, e il sangue ha cominciato a sgorgare dalla mia testa. La mia ferita, grazie a un rimedio arabo tradizionale a base di olio d’oliva e aglio, è guarita, ma non lo sono la mia vita e quella dei miei cari.

In quel momento, siamo entrati nelle file di centinaia di migliaia di altri rifugiati palestinesi, sradicati dalle nostre comunità e ai quali è stato negato il diritto di tornare nell’unico luogo che abbiamo conosciuto come casa.

Quasi tutto è cambiato in questi ultimi decenni tranne che l’aspirazione di milioni di Palestinesi a vivere in dignità, liberi da un brutale regime militare e di apartheid che controlla quasi ogni aspetto della nostra vita.

Il tempo può guarire molte cose, ma le cicatrici lasciate dalle due ondate di spostamenti forzati nel 1948 e nel 1967 possono difficilmente guarire quando Israele continua quello che molti di noi considerano una Nakba in corso, una spoliazione senza fine.

Il tempo da solo non può curare le ferite dei palestinesi che vivono da più di 10 anni sotto l’assedio fatale di Israele a Gaza, all’ombra dell’odioso muro israeliano che usurpa la nostra terra, o delle centinaia di checkpoint militari in Cisgiordania. Esso non può attenuare la violenza degli sforzi sempre più intensi di Israele al fine di espellere le comunità palestinesi dalla loro terra, sottraendola per la costruzione di insediamenti illegali, riservati agli ebrei, in violazione del diritto internazionale e di decenni di politica statunitense dichiarata.

Le comunità palestinesi nell’attuale Israele, che vivono sotto quello che il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti una volta definiva un sistema di “discriminazione istituzionale, legale e sociale”, hanno affrontato un destino simile. All’inizio di quest’anno, per esempio, le forze armate israeliane hanno demolito il villaggio beduino di Umm al-Hiran per costruire sulle sue rovine un nuovo insediamento esclusivo per gli ebrei, chiamato “Hiran”.

I palestinesi che vivono al di fuori della Palestina storica, prevalentemente rifugiati, rappresentano il 50 per cento di tutti i palestinesi e a loro è negato il diritto legale riconosciuto a livello internazionale di tornare nelle loro case d’origine.

Mentre sempre più persone riconoscono la verità riguardo al sistema israeliano di oppressione contro l’intero popolo palestinese, cresce il sostegno popolare per i diritti palestinesi e la pressione per porre fine all’impunità israeliana.

Un sondaggio dell’ottobre del 2016 rilasciato dalla Brookings Institution rivela che il 46 per cento di tutti gli statunitensi e il 60 per cento dei Democratici sostengono l’imposizione di sanzioni o misure più severe contro Israele perché arresti i suoi insediamenti illegali.

Questi sondaggi e indicatori simili denotano la crescita sana negli ultimi anni del movimento di base del Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), guidato dalla Palestina, che io ho aiutato a fondare e che credo sia fondamentale per raggiungere libertà, giustizia, uguaglianza e pace duratura.

Il BDS ha rilanciato le nostre speranze che, con una resistenza interna non violenta e una crescente pressione internazionale, simile a quella applicata all’apartheid del Sudafrica, possiamo prevalere sul sistema oppressivo israeliano.

Quando 6 degli 11 giocatori della lega nazionale di calcio hanno rifiutato di partecipare a una visita ufficiale di propaganda israeliana e quando una “ondata” di cancellazioni da parte di ospiti internazionali ha colpito il Tel Aviv LGBT Film Festival, la nostra speranza è cresciuta.

La speranza palestinese è stata anche rafforzata quando alcune delle più grandi chiese degli Stati Uniti, tra cui la Chiesa Metodista Unita, la Chiesa Presbiteriana e la Chiesa Unita di Cristo, hanno disinvestito dalle banche israeliane o dalle multinazionali complici e quando alcune di queste multinazionali hanno dovuto cessare il proprio coinvolgimento nei progetti illegali di Israele.

Accende ugualmente la nostra speranza il fatto che il sostegno ai diritti palestinesi stia rapidamente crescendo tra i giovani americani, inclusi gli ebrei del millennio, e venga integrato ancora una volta nelle lotte per i diritti dei rifugiati, degli immigrati, delle donne, dei lavoratori, dei neri americani, dei musulmani, dei nativi americani e della comunità LGBTQI.

Dopo 50 anni di brutale regime militare israeliano e quasi 70 anni di spoliazioni, basta. Ora è il tempo della libertà per i palestinesi. Dopo più di due decenni di negoziazioni sponsorizzate dagli Stati Uniti, che Israele usa come copertura per il suo “il massimo della terra con il minimo dei palestinesi”, è chiaro che, a meno che non sia effettivamente costretto, Israele continuerà a negarci la nostra libertà e i nostri diritti.

Non potremo mai dimenticare le nostre molte cicatrici affettive e spesso fisiche. Ma quando, non se, raggiungeremo la giustizia e gli uguali diritti, potremo veramente guarire. E noi contiamo sul crescente sostegno di persone di coscienza in tutto il mondo come aiuto per arrivarci.

*Omar Barghouti è un Palestinese difensore dei diritti umani e co-fondatore del movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni per i diritti dei Palestinesi. Egli è un co-destinatario del Premio Gandhi del 2017.

Fonte: The Nation