Perché: il femminismo? Perché ora?

Spectrejournal.com. Di Loubna Qutami. Una riflessione: “La Palestina è una questione femminista”.
(Da Beniamino Benjio Rocchetto). Il 15 marzo 2021, in onore del Mese Internazionale delle Donne, il Collettivo Femminista Palestinese con sede negli Stati Uniti ha promosso un impegno dichiarando che “la Palestina è una questione femminista”. Nei giorni che seguirono, migliaia di organizzazioni e singoli si iscrissero da Stati Uniti, Palestina, Kenya, Sud Africa, Scozia, Regno Unito, Cile, Australia e da tutto il mondo. I firmatari includevano figure femministe degne di nota come Cherrie Moraga, Mariame Kaba, Judith Butler e Chandra Mohanty (tra molte altre); oltre 200 organizzazioni con sede negli Stati Uniti tra cui l’Associazione Nazionale di Studi Femminili (National Women’s Studies Association- NWSA), Donne Afroamericane Radicali, Alleanza di Giustizia (Globale Black Women Radicals, Grassroots Global Justice Alliance – GGJA); e altre organizzazioni femministe, LGBT, studentesche e giovanili, antirazziste, di giustizia sociale e principi religiosi; e organizzazioni femministe in Palestina e in tutta la regione araba, compresa l’associazione contro la violenza sulle donne palestinesi Tal3at.
La vasta adesione globale ha dimostrato un impegno popolare a sostenere la Palestina come questione femminista attraverso sei azioni concrete. Tuttavia, quando l’impegno è stato condiviso con vari siti di social media, sono emerse critiche che apparentemente hanno trascurato l’articolazione dell’impegno di una visione femminista che è saldamente fondata sull’analisi de-coloniale e impegnata nella lotta comune. Alcuni critici hanno sostenuto che la Palestina fosse una lotta per i “diritti umani” piuttosto che una lotta femminista, mentre altri hanno sostenuto che il femminismo è un valore occidentale incompatibile con le strutture e le tradizioni spirituali, politiche e culturali palestinesi. Alcuni hanno espresso esitazione o il rifiuto assoluto di riconoscere la Palestina come una questione femminista, sostenendo che il femminismo è sempre stato solo uno strumento di intervento imperialista nelle terre e nelle comunità del Sud-Ovest Asiatico e Nord Africano (Southwest Asian and North African – SWANA), una categoria pan-etnica e transnazionale che descrive le comunità negli Stati Uniti con discendenza ancestrale, immigrazione diretta o status di residenza temporanea da uno dei paesi della regione araba. Gran parte del dissenso ha dimostrato che le definizioni ristrette del femminismo, vale a dire il femminismo coloniale occidentale, rimangono dominanti nella coscienza popolare, piuttosto che le elaborazioni autodeterminate del femminismo offerte dal pensiero e dalla pratica femminista palestinese, araba, africana, indigena e del Terzo Mondo.
Un’attenta lettura dei principi presentati nell’impegno rivela che il Collettivo Femminista Palestinese detiene una profonda consapevolezza delle tensioni e delle ansie che circondano la questione del “femminismo” tra i circuiti attivisti palestinesi. Tuttavia, l’impegno propone che il femminismo, come definito e praticato dai popoli oppressi, possa anche essere un contesto e un percorso rilevanti per la realizzazione della liberazione palestinese, e coglie l’urgenza di abbracciare la Palestina come questione femminista nel presente. Di seguito sono riportati 5 principi fondamentali che appaiono nell’impegno che sono utili per capire perché il femminismo e perché ora.
Colonialismo sionista come progetto di violenza sessuale e di genere. 
Le forme dominanti di femminismo occidentale o coloniale esaltano l’acquisizione di diritti individuali piuttosto che la libertà collettiva, e sono queste forme di femminismo che lo stato sionista mobilita. In tali condizioni, le donne palestinesi sono relegate a soggetti bisognosi di essere salvati dalla violenza patriarcale delle proprie famiglie e della società. La violenza strutturale del progetto coloniale è elusa. Si presume invece che i salvatori provengano dalle cosiddette democrazie liberali dell’Occidente, amanti della libertà e portatrici di diritti, mentre coloro che hanno bisogno di essere salvati provengono dall’antimoderno, non illuminato, inquietante e minaccioso “Oriente”.
De-costruire questi stereotipi coloniali non è affatto nuovo: i resoconti orientalisti delle soggettività delle donne arabe, palestinesi e musulmane sono stati a lungo contestati e smascherati come stratagemmi coloniali da pensatori, studiosi e movimenti femministi del Terzo Mondo. Ad esempio, una delegazione di donne africane giunta in Palestina nel 2012 ha rilasciato una dichiarazione in cui affermava: “Come femministe, deploriamo la pratica israeliana del ‘pink-washing’, l’uso da parte dello Stato di un apparente sostegno per l’uguaglianza di genere e sessuale per mascherare la sua occupazione.”
Eppure, nonostante la longevità di queste espressioni di femminismo anti-sionista, i vecchi stereotipi che presentano le donne palestinesi come eterne vittime bisognose di essere salvate da uomini pericolosi riappaiono nel lessico delle campagne di propaganda sioniste proprio per legittimare Israele come una democrazia liberale femminista e tollerante della sessualità di genere. Tali sforzi si traducono in molti vantaggi per il sionismo, uno dei più pericolosi è che mascherano il colonialismo sionista come progetto di violenza sessuale e di genere.
Come tale, l’impegno illustra chiaramente come l’espropriazione coloniale sionista, l’occupazione e il controllo regolamentato dell’esistenza dei palestinesi siano radicati nelle logiche e nel contesto del “militarismo maschilista”. L’impegno recita:
La violenza sionista continua a dominare la vita dei palestinesi in modo profondo. In tutta la patria, Israele demolisce le case palestinesi, sottopone sistematicamente i prigionieri di coscienza palestinesi ad abusi e torture sessuali e fisiche e controlla i corpi dei palestinesi, la sessualità, i diritti riproduttivi e la vita familiare.
Di fronte ai costanti dettami di cancellazione e annientamento che il colonialismo sionista impone, le capacità riproduttive delle donne palestinesi sono state oggetto di controllo, sorveglianza e attacco bio-politico sin dall’inizio del sionismo. Resoconti storici hanno illustrato come le campagne di violenza sessuale eseguite dalle milizie sioniste, come quelle usate durante gli eventi culminati nel massacro dei palestinesi a Deir Yassin nel 1948, siano state determinanti per cacciare i palestinesi dalle loro case.
Più recentemente, decine di donne palestinesi sono state costrette a partorire ai posti di blocco, impedendo loro di accedere a cure mediche adeguate, a testimonianza dei modi eclatanti in cui la vita palestinese è limitata dai vincoli di mobilità dell’occupazione. La follia omicida indiscriminata del progetto sionista ha anche impedito ai palestinesi di preservare la vita: questo è stato il caso dell’infermiera di 21 anni Razan al-Najjar assassinata dalle forze israeliane mentre prestava soccorso ai feriti durante la Grande Marcia del Ritorno del 2018 nella Striscia di Gaza.
Innumerevoli palestinesi hanno anche testimoniato l’uso dello stupro e della tortura sessuale nelle celle delle prigioni sioniste, e di come l’apparato di sorveglianza sionista manipola le vite intime dei palestinesi a scopo intimidatorio durante l’interrogatorio: la minaccia che le proprie vite intime o sessuali vengano rese pubbliche se uno si rifiuta di obbedire durante l’interrogatorio o di collaborare con le forze dell’intelligence sionista è una tattica comune usata per ottenere false confessioni.
Tali esempi indicano come il colonialismo sionista debba essere inteso come un progetto di violenza sessuale e di genere e perché una visione femminista per una Palestina libera è centrale per sfidare in modo completo il governo politico, economico, razziale e sociale del sionismo sulla vita collettiva e la terra palestinese. Di conseguenza, un contesto e un percorso femminista palestinese non rientrano nel modo in cui la propaganda sionista trasforma in armi i diritti delle donne e i diritti LGBT contro i palestinesi, ma invece li ribalta facendo luce sulle violenze sistemiche di genere e sessuali che sono sempre state centrali per il colonialismo sionista
Rifiuto della cancellazione e dimostrazione dell’attività femminista. 
Lanciato da un collettivo di donne palestinesi e arabe intergenerazionali e femministe negli Stati Uniti, l’impegno sfida oggi il clima di repressione anti-palestinese negli USA. Considerando le decine di campagne di repressione sioniste condotte negli Stati Uniti dirette costantemente a sopprimere la libertà di parola sulla Palestina, mettere a tacere il dissenso e criminalizzare i palestinesi e i loro sostenitori, l’impegno dimostra un atto di rifiuto diretto da parte delle femministe palestinesi e arabe di essere soggiogate fino al silenzio e sparire. Invece, dimostra una profonda consapevolezza dei modi in cui tali campagne di repressione, anche se operano al di fuori della patria storica, sono coerenti con le logiche e le strutture coloniali sioniste che lavorano per annientare l’esistenza palestinese. Ad esempio, i punti di azione numero due e tre invitano le comunità globali a “sostenere i diritti dei palestinesi alla libertà di parola e all’organizzazione politica ovunque”; e “Respingere l’equiparazione dell’antisionismo all’antisemitismo, in particolare l’applicazione legale della definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto – IHRA)”. Entrambe le azioni mirano a garantire il diritto dei palestinesi e dei loro sostenitori ovunque di creare, preservare e diffondere liberamente narrazioni, argomentazioni e aspirazioni palestinesi senza ritorsioni.
Inoltre, l’impegno offre un potente rifiuto dei dibattiti liberali che continuano a cancellare e criminalizzare le visioni femministe palestinesi: i femminismi liberali e sionisti si affidano ai dibattiti orientalisti per mettere a tacere e minare le aspirazioni collettive delle donne palestinesi e dei loro sostenitori, contribuendo a una intensificazione della repressione politica che criminalizza la libertà di parola sulla Palestina e la liberazione palestinese.
Pertanto, le visioni presenti nell’impegno portano alla luce femminismi occidentali strettamente definiti e aprono i confini alle femministe palestinesi e ai loro sostenitori per rivendicare il femminismo come qualcosa che è profondamente loro. Tali sentimenti violano i dettami della cancellazione coloniale fermamente diretta a cancellare la Palestina dalle mappe del mondo, cancellare le narrazioni palestinesi dai documenti storici e decimare gli archivi palestinesi. La moralità collettiva che l’impegno incarna ristabilisce la perseveranza delle espressioni autonome palestinesi di identità in esilio e aspirazioni di libertà, in particolare delle donne. In quanto tale, l’impegno presenta una dimostrazione della tenace energia che guida una rivendicazione collettiva contro la scomparsa per e da parte delle femministe palestinesi e arabe e dei loro sostenitori.
Affermare la connessione storica e transnazionale.
Sebbene il Collettivo Femminista Palestinese sia di relativamente nuova istituzione, l’impegno sostiene che tali visioni sono costruite “sulla storia delle donne palestinesi e dei loro sostenitori che hanno lavorato per porre fine a molteplici forme di oppressione”. I riferimenti citazionali dell’impegno rendono omaggio ai movimenti storici, agli autori e agli studiosi delle donne palestinesi che hanno gettato le basi per le nuove imprese proclamate del pensiero e dell’attivismo femminista palestinese nel presente. L’impegno trae anche ispirazione diretta dai movimenti femministi palestinesi contemporanei che si stanno sviluppando in Palestina e in altre aree geografiche in cui vivono attualmente i palestinesi, citando il lavoro di gruppi come Tal3at, un movimento femminista palestinese che combatte la crescita del femminicidio in Palestina e in tutto il mondo chiedendo ai movimenti politici di informare sulla giustizia sessuale e di genere in modo più consapevole, sostenendo che non può esserci “nessuna patria libera senza donne libere”.
Rendere omaggio ai movimenti femministi palestinesi passati e presenti è una vista importante sull’orientamento politico del Collettivo Femminista Palestinese. In questo modo, un’attenta lettura dell’impegno dimostra una politica che valorizza l’incarnazione delle filosofie culturali e politiche palestinesi nel corso della storia e la connessione della diaspora palestinese negli Stati Uniti alla patria e ai palestinesi nel mondo: “I nostri valori sono incarnati e radicati nella saggezza culturale e nella giustizia per trasformare le nostre comunità”. Come tale l’impegno è una prova per i palestinesi, attraverso le loro dispersioni geografiche, come popolo; dei palestinesi nel presente come profondamente legati alle storie, ai lasciti e alla conoscenza del passato; e delle interconnessioni tra giustizia sociale, di genere, sessuale, economica e politica e la liberazione che si fondono insieme per ottenere la vera liberazione e decolonizzazione della terra e delle persone.
Un’estensione dell’apprezzamento per il pensiero e la pratica femminista africana, indigena e del terzo mondo
Similmente agli ideali offerti dai movimenti femministi africani, indigeni e del terzo mondo, l’impegno ha sancito che abbracciare la Palestina come questione femminista significa riconoscere i sistemi di oppressione interconnessi: “Ci impegniamo a resistere alla violenza di genere e sessuale, al colonialismo sionista, allo sfruttamento capitalista, al degrado della terra e all’oppressione in Palestina, a Turtle Island e ovunque nel mondo”. Una buona parte del contenuto dell’impegno riconosce il netto contrasto tra il femminismo liberale bianco e sionista e quello della solidarietà femminista tra palestinesi e popoli non bianchi in tutto il mondo. Chiarire tali distinzioni non serve per inserire Palestina e Palestinesi negli spazi femministi esistenti che non soddisfano gli impegni etici per la lotta intersezionale. Piuttosto, la problematizzazione, il disconoscimento e la totale negazione del femminismo liberale e sionista è una convalida estremamente necessaria della moralità femminista delle comunità e delle questioni africane, indigene e del Terzo Mondo che continuano a essere trattate come note a piè di pagina sulla condizione del femminismo bianco.
Ma oltre a riconoscere le distinzioni, l’impegno onora le opere fondamentali del pensiero femminista africano, indigeno e del Terzo Mondo da cui i movimenti delle donne palestinesi hanno tratto da tempo lezioni monumentali. Citando autori di queste tradizioni, l’impegno concentra coloro i cui corpi, esperienze, lavoro, intuizioni e narrazioni sono troppo spesso invisibilizzati e/o selettivamente appropriati dal femminismo bianco, liberale, coloniale e sionista strettamente definito. L’impegno è anche un’espressione diretta della politica di solidarietà palestinese con le altre comunità. Considerando le “forme strutturali di violenza sessuale e di genere inerenti a colonizzatori/colonialismo, guerre imperialiste, capitalismo razziale e supremazia bianca globale”, l’impegno concretizza le forme sistemiche di sradicamento, violenza e oppressione che devono essere giustificate nella coltivazione di visioni femministe liberatorie non solo per la Palestina ma per il mondo intero.
Tali sentimenti sono stati confermati nei punti di azione numero cinque e sei che invitavano tutti i firmatari a “disinvestire dal militarismo e investire nella giustizia e nei bisogni della comunità a Turtle Island”; e “Chiedere la fine del sostegno politico, militare ed economico degli Stati Uniti a Israele e a tutte le collaborazioni militari, di sicurezza e di polizia”. Queste richieste riflettono che il Collettivo Femminista Palestinese sta inserendo la coscienza di classe nella loro pratica femminista e non si preoccupano solo di acquisire la solidarietà femminista per la giustizia in Palestina, ma piuttosto considera la liberazione palestinese come vincolata alla smilitarizzazione, decolonizzazione, liberazione economica e acquisizione di giustizia e libertà per tutte le persone oppresse a Turtle Island e nel mondo intero.
Estendendo l’apprezzamento a tali storie e l’impegno a sostenere quelle eredità, l’impegno del Collettivo Femminista Palestinese può essere inteso non come un’induzione del pensiero femminista palestinese negli Stati Uniti, ma come un’estensione di decenni di azione femminista e solidarietà che si fondono in nuove forme organizzate che offrono un rinnovato punto di partenza per comprendere la Palestina come una lotta centralmente femminista.
Un nuovo catalizzatore per immaginazione, creazione e amore. 
Cogliendo l’immaginazione, la creazione, la connessione e l’affermazione della vita, l’impegno presenta il valore di un approccio femminista al pensiero e alla pratica sia anti-coloniale che de-coloniale: stiamo re-immaginando e ricreando un mondo libero da sistemi di sfruttamento di genere, razziale ed economico che mercificano la vita umana e la terra. La nostra è una visione per un futuro radicalmente diverso basato sull’interconnessione che afferma la vita, dando potere alle classi lavoratrici e promuovendo il bene comune, la terra, la vita e il pianeta stesso.
Al centro di tali sentimenti c’è l’amore, che continua ad ancorare un impegno profondamente emotivo e implacabile alla libertà fino a quando non viene raggiunto.
Questi valori riconoscono il trauma e il dolore inflitti alle persone comuni in lotta e cercano di invertire la sua presa attraverso la costruzione di modelli, pratiche e processi alternativi che pongono la vita di fronte a tutto ciò che è destinato a distruggerla. Mentre gran parte dell’impegno è dedicato al rifiuto e alla problematizzazione del pensiero femminista sionista, gli autori dell’impegno lasciano ai lettori un forte impeto a immaginare cos’altro potrebbe esserci. Una lettura attenta dell’impegno rivela perché il femminismo e perché ora, dove l’urgenza del momento è legata a oltre 73 anni di espropriazione, occupazione e oppressione palestinese. Tuttavia, è l’ultimo paragrafo dell’impegno che ci lascia tutti più desiderosi: E adesso? In che modo una visione e un’azione femminista per la Palestina potrebbero presentare nuovi modi di realizzare la liberazione della terra e del popolo palestinese in relazione alla liberazione di tutti i popoli che lottano contro l’oppressione sistemica?
Incarnando la pratica anti-coloniale di abolire tutte le logiche e i sistemi intesi a distruggere la vita e una pratica de-coloniale di creare un mondo altrimenti possibile, l’impegno presenta importanti principi che sono stati a lungo al centro dei femminismi palestinesi, arabi, africani, indigeni e del Terzo Mondo nel corso della storia. Quindi è vitale riconoscere l’impegno non come un punto di arrivo ma come una rinnovata espressione di solidarietà femminista, un catalizzatore che apre i confini e libera l’immaginazione, la creazione e la speranza per le future generazioni di attivisti del movimento.
Firmate l’impegno “La Palestina è una questione femminista”. Per ulteriori informazioni sul Collettivo Femminista Palestinese, visitate la loro pagina Facebook o inviate un’e-mail a palestinianfeminists@gmail.com.
Loubna Qutami è Professoressa Associata presso il Dipartimento di Studi Asiatici Americani dell’Università della California, di Los Angeles, è l’ex direttrice esecutiva del Centro Culturale e Sociale Arabo di San Francisco, una sostenitrice del Movimento Giovanile Palestinese e un attuale membro del Collettivo Femminista Palestinese.
Traduzione di Beniamino Rocchetto