Poesia e Palestina.

Poesia e Palestina
di Gianluca Bifolchi
 
Uno dei problemi nel quale prima o poi si imbatterà ogni persona attiva nel movimento di solidarietà al popolo palestinese è il rendersi conto che si tratta di un’attività non troppo impegnativa e stimolante da un punto di vista intellettuale.
 
La condizione di oppressione patita dai Palestinesi è così patente e così facilmente documentabile che, a fronte del suo perdurare ininterrotto, poco a poco ci si convince che non c’è molto altro da fare che organizzarsi in un lavoro umile e quotidiano di informazione e denuncia, condotto nella speranza che la continuità stessa dello sforzo — secondo l’immagine della goccia che penetra anche nella roccia più dura — finisca per rendere impossibile la sostanziale complicità dei paesi occidentali, a partire dagli USA, verso l’incessante azione criminosa di Israele contro gli uomini, le donne e i bambini della Palestina.
 
Proprio la grossolanità ipocrita con cui questa complicità si attua tende a far apparire sospetti interventi di denuncia che si caratterizzino per un eccesso di sottigliezza dialettica, come se le argomentazioni propagandistiche con cui le azioni di Israele vengono giustificate presentassero un grado elevato di raffinatezza filosofica o comunicativa. Il successo di questa propaganda (spesso solo presunto, se si pensa ai tanti sondaggi che mostrano un’immagine non certo brillante di Israele nel mondo) dipende dalla sua alleanza organica con il potere politico, militare, mediatico, e finanziario dell’Occidente, non da una grande elaborazione intellettuale, che non può nulla di fronte alla semplice informazione documentata e verificata di quello che realmente subisce ogni giorno il popolo palestinese alle mani dello stato d’Israele.
 
Il rischio è che, soprattutto in occidente, disquisizioni troppo sottili sulla natura del sionismo o sugli elementi di fondamentalismo insiti nel giudaismo o nell’identità ebraica, o ancora la demistificazione di quanto vi è di orwelliano nel discorso filo-israeliano, diventino un filone letterario, sostitutivo di altre letture quando non di altre evasioni, che faccia dimenticare l’essenza puramente politica (dunque pratica) dell’impegno di solidarietà dovuto ai Palestinesi.
 
Ma vi è anche un rischio di segno opposto. Proprio quanto di umile e quotidiano caratterizza l’impegno sano a favore della Palestina, comporta inevitabilmente effetti di "esaurimento" in quanti sono coinvolti in esso, come sempre accade quando anche le cose più importanti diventano una routine, intesa nel senso degli aspetti ripetitivi, per quanto necessari, di questa attività. E’ un pericolo da tener presente e su cui vale la pena riflettere.
 
Una possibile via d’uscita da questo impasse è considerare il popolo palestinese non solo come l’oggetto di un’oppressione, ma anche come il soggetto di una cultura. Ad esempio una cultura artistica e letteraria. Nonché, naturalmente, l’artefice principale del proprio discorso politico.
 
Anche qui, ovviamente, vi è il rischio dell’evasione o di un’adesione puramente estetizzante alla vita spirituale dei Palestinesi. Ma è un rischio che si può evitare, se ci si accosta con atteggiamento consapevole.
 
Nei giorni passati per ben due volte mi sono imbattuto in una critica, mossa peraltro da soggetti simpatizzanti verso i Palestinesi, al lancio di missili Qassam dalla Striscia di Gaza sulla cittadina israeliana di Sderot. Entrambi giudicavano questa pratica "sbagliata" in base all’eccellente argomento che la Convenzione di Ginevra proibisce l’uso indiscriminato di armi contro le popolazioni civili, e fuori da una logica militare che metta in una relazione razionale mezzi ed obiettivi. La delicatezza della questione apparirà immediatamente evidente a quanti si rendono conto che non è il caso di fornire ad Israele argomenti che lo facciano apparire vittima proprio in virtù di quel diritto internazionale che calpesta quotidianamente con impudenza stupefacente.
 
Ma anche riconoscendo la validità della critica mossa ai militanti palestinesi che effettuano i lanci di razzi Qassam, non riesco a superare il mio disagio verso un linguaggio di formalismo giuridico così esatto nel prescrivere i doveri delle parti in combattimento, e così vago o così inefficace quando si tratta di distinguere tra l’oppresso e l’oppressore, l’aggredito e l’aggressore.
 
In mio aiuto arriva questa poesia di Mahmoud Darwish (che traduco dalla versione in inglese dell’originale in Arabo) che, scritta nel 1964, è quanto mai attuale per esprimere il punto di vista del Palestinese nella Gaza assediata di oggi, al quale pretendiamo di dare lezioni di diplomazia e diritto internazionale. La propongo nel tentativo di ampliare il dibattito sulla Palestina ad altri linguaggi, oltre a quello della doverosa informazione quotidiana. 
 
Carta d’identità
Scrivetelo!
Io sono un Arabo
e il numero della mia carta d’dentità
è cinquantamila
ho otto figli
e il nono arriverà alla fine dell’estate.
Avrai fame?
 
Scrivetelo!
Io sono un Arabo
e lavoro con altre persone in una cava
ho otto figli a cui procuro pane
abiti e libri
estraendoli dalle rocce.
Non voglio la vostra carità.
Non mi umilierò sulla vostra soglia.
Quindi avrai fame?
 
Scrivetelo!
Sono un Arabo
non sono un titolato,
pieno di pazienza in un paese
dove la gente è piena di rabbia.
Le mie radici
precedono la nascita del tempo
e lo schiudersi delle ere
prima dei pini, e degli olivi
e dell’erba.
Mio padre… appartiene alla stirpe dell’aratro
non a una classe privilegiata
e mio nonno… era un contadino
venuto su tra gli umili!
Mi ha insegnato l’orgoglio del sole
prima di insegnarmi a leggere
e la mia casa sembra una garitta
fatta di rami e di canna.
Vi sta bene cosa sono?
Non sono un titolato.
 
Scrivetelo!
Sono un Arabo
a cui avete rubato i frutteti di famiglia
e la terra che ho coltivato
con i miei bambini,
e non ci avete lasciato niente
eccetto queste rocce.
Se le prenderà lo Stato
come è stato detto?
Pertanto!
Scrivetelo in alto
sulla prima pagina
io non odio la gente
e non sono un usurpatore
ma quando sarò affamato
mi ciberò della carne dell’usurpatore.
State attenti…
State attenti…
alla mia fame e alla mia rabbia.
 

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