
InfoPal.it. Di Angela Lano.
Dottoressa Albanese, può spiegare ai nostri lettori come si svolge il suo lavoro di Relatrice Speciale (Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967)?
I Relatori Speciali sono esperti indipendenti nominati dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite in relazione a specifiche questioni legate ai diritti umani, che siano tematiche o relative ad un’area geografica precisa, su cui hanno una dimostrata esperienza. Il mio compito principale come Relatrice Speciale è quello di indagare e monitorare le violazioni dei diritti umani nel territorio palestinese occupato da Israele dal 1967. Il mio mandato è stato istituito nel 1993, nel contesto dei negoziati di pace tra Israele e l’OLP, poiché si riconosceva la necessità di un meccanismo esterno e imparziale per investigare le pratiche dello Stato israeliano contro il popolo palestinese in un momento estremamente critico per il futuro di palestinesi e israeliani.
Come Relatrice Speciale, produco due rapporti annuali basati sulle mie inchieste (che dovrebbero seguire a visite regolari sul campo) e sulle interazioni con esponenti governativi e della società civile sia in Israele che nel territorio palestinese occupato. Questi rapporti contengono conclusioni e raccomandazioni volte a promuovere il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale in generale. Una parte cruciale del mio lavoro è analizzare le violazioni sofferte dai Palestinesi sotto l’occupazione israeliana, contestualizzandole storicamente e affrontando questioni strutturali, come il progetto d’insediamento coloniale e di annessione che Israele ha gravemente portato innanzi per 56 anni in nome della sicurezza nazionale. Di questo, si parla troppo poco, soprattutto in Italia.
È importante sottolineare che il mio ruolo come Relatrice Speciale prevede di agire in modo indipendente, ed è per questo che il mandato non è sottoposto alla gerarchia dei funzionari delle Nazioni Unite, ma risponde direttamente al Consiglio Diritti Umani. Non è inoltre prevista retribuzione per questo incarico, ma l’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani fornisce supporto tecnico e logistico e sono in tanti i centri accademici a fornire sostegno alla ricerca.
Mi sento onorata di essere la prima donna a ricoprire questo ruolo e mi impegno a continuare il lavoro di monitoraggio e sensibilizzazione per garantire il rispetto dei diritti umani nel territorio palestinese occupato nell’interesse di tutti, palestinesi e israeliani.
Nel suo rapporto pubblicato a ottobre 2022 si legge che Israele non è collaborativo con il mandato di Relatore speciale. Ci sono cambiamenti rispetto all’anno scorso?
I miei rapporti, come prevede il mandato, dovrebbero essere stilati sulla base di visite nel territorio palestinese occupato, ma dal 2008 Israele impedisce a questo mandato di entrarvi. Ricordiamo come Richard Falk, all’epoca, venne arrestato all’aeroporto Ben Gurion, nonostante Israele fosse stato informato della visita, che si sarebbe svolta solo nel territorio palestinese occupato e non in Israele. Da allora, Israele ha continuato a ostacolare le visite, utilizzando tutto il suo potere per prevenirle.
Dunque, come il mio predecessore, Michael Lynk, anche io ho deciso di stilare rapporti tematici affrontando una serie di temi rilevanti per i diritti umani del popolo palestinese, a partire dal diritto all’autodeterminazione (tema centrale del mio primo rapporto), chiarendone i principi legali e le implicazioni.
Non avendo sinora potuto effettuare visite ufficiali nel territorio palestinese occupato, i miei rapporti (è appena uscito il secondo) conseguono a ricerche da remoto attraverso le quali esamino la letteratura e gli studi esistenti in una determinata area, e consultazioni con gruppi specifici affetti dall’occupazione, esperti tecnici, rappresentanti statali, accademici e organizzazioni non governative palestinesi, israeliane e internazionali. Tra dicembre 2022 e febbraio 2023 ho anche effettuato delle ‘visite virtuali’ guidate da palestinesi e israeliani in luoghi sensibili del territorio palestinese occupato.
Di cosa parla il nuovo rapporto?
Il mio secondo rapporto – e primo scritto per il Consiglio Diritti Umani – è focalizzato sulle pratiche di detenzione arbitraria: dal 1967 Israele ha imprigionato circa un milione di Palestinesi, incluse decine di migliaia di bambini (13.000 solo dal 2000). Il rapporto analizza gli ordini militari in base ai quali vengono arrestati i palestinesi. Tutto il sistema che controlla i palestinesi è di matrice militare: gli ordini vengono scritti da militari, eseguiti da militari, i tribunali sono amministrati da militari, i giudici sono militari. Cinque milioni di Palestinesi sono sotto giurisdizione militare da 56 anni: l’esistenza delle autorità palestinesi in Cisgiordania e Gaza non altera questa realtà di fatto né gli obblighi internazionali che con essa Israele viola. Inoltre il rapporto analizza le ragioni per cui i palestinesi vengono continuamente arrestati, detenuti, interrogati, spesso torturati, con una particolare attenzione ai minorenni e agli oltre mille prigionieri in detenzione amministrativa – che nel caso di Israele corrisponde ad una vera e propria politica di incarcerazione senza accusa né processo, utilizzata come strumento di repressione e controllo. Non è, infatti, la pratica della detenzione amministrativa in sé che è illegale, ma il suo uso arbitrario, sistematico e diffuso e il contesto in cui Israele la applica ai palestinesi, per scoraggiare e punire atti di ordinaria vita civile, tra cui ogni forma di resistenza – peraltro prevista dalle leggi internazionali nel caso di regimi oppressivi, coloniali e illiberali – anche pacifica. Il rapporto analizza anche le altre pratiche e politiche israeliane volte all’annessione di ulteriore territorio palestinese, come le barriere fisiche (muri, checkpoint, colonie, strade segregate), burocratiche (i permessi militari di cui i palestinesi hanno bisogno per costruire una casa, svolgere un’attività commerciale, coltivare la propria terra, scegliere la residenza, una scuola, viaggiare) e la sorveglianza digitale che ormai segue i palestinesi in ogni anfratto di vita pubblica e privata: non c’è angolo del territorio palestinese occupato che non sia controllato da Israele. Storici come Rashid Khalidi e Ilan Pappé hanno definito il Territorio palestinese occupato come una prigione. In particolare, il libro di Pappé, “La prigione più grande del mondo”, è un ottimo complemento per comprendere come Israele abbia intenzionalmente e impunemente violato il diritto internazionale per confinare e progressivamente ‘ingabbiare’ i Palestinesi. Il mio rapporto spiega l’architettura (il)legale che sorregge tale prigione a cielo aperto – un vero e proprio panopticon di foucaultiana memoria – e le sue implicazioni ai sensi del diritto internazionale.
Qual è il tipo di accoglienza che i suoi report hanno nelle istituzioni italiane e internazionali? E nei media mainstream?
Sinora le mie relazioni alle Nazioni Unite hanno ricevuto larga copertura mediatica e risposte istituzionali positive a livello internazionale, assieme a forti critiche e violenti attacchi personali da parte dello Stato di Israele e dei gruppi che lo sostengono.
In Italia, osservo una situazione peculiare riguardante la questione israelo-palestinese. Da un lato noto un rinnovato interesse e un coinvolgimento crescente della società civile e delle istituzioni locali, come testimonia l’aumento di incontri organizzati in diverse città e università italiane, con un numero significativo di partecipanti. Tuttavia, nel dibattito pubblico, spesso manca un approccio analitico e un linguaggio adeguato a trattare la questione. Rilevo una certa arretratezza nell’analisi e una notevole mancanza di informazione sui contenuti, con discussione spesso priva di complessità e contesto. La mancanza di un dibattito politico approfondito rende urgente coinvolgere la gente direttamente in questo scambio, soprattutto i giovani. Per questo un cambiamento all’interno della società civile, soprattutto gli attivisti, è, altresì, necessario. La solidarietà nei confronti del popolo palestinese deve andare oltre il mero approccio caritatevole o di missione politica, ponendo invece l’accento sulla difesa dei diritti umani, che sono stati inevitabilmente violati durante 56 anni di occupazione militare. Inoltre, è fondamentale includere nel discorso i palestinesi di seconda o terza generazione in Italia, ma senza trascurare la prospettiva degli israeliani che si oppongono all’occupazione e all’apartheid, sostenendo la pace e la dignità per tutti.
Per quanto riguarda i media italiani, la situazione risulta preoccupante. Spesso, invece di svolgere il ruolo di informatori obiettivi, i media mainstream contribuiscono all’occultamento dei fatti, limitando un dibattito pluralista e informato. Questo potrebbe essere correlato alle posizioni politiche di editori e direttori, che influenzano le linee editoriali. La scarsa copertura mediatica del mio lavoro da parte dei principali media italiani – in netto contrasto con quanto accade altrove, anche in paesi istituzionalmente vicini al governo di Israele come gli Stati Uniti – potrebbe essere un segnale di un certo asservimento politico dell’informazione.
Va riconosciuto quanto l’accusa di antisemitismo emerge sovente come una tattica per mettere a tacere o delegittimare le critiche a Israele e alle sue politiche. Questo atteggiamento può rendere molte persone riluttanti a esprimere opinioni o a sollevare questioni legate alla situazione dei palestinesi, per paura di essere etichettate come antisemite o di subire conseguenze negative. Questa minaccia continua può influenzare il dibattito pubblico.
Sebbene l’antisemitismo sia ancora presente in molte società, quella italiana inclusa, così come l’islamofobia e il razzismo in genere, è importante distinguere tra legittima critica di natura politica e vero antisemitismo. Il diritto di esprimere critiche costruttive e informate è fondamentale per una società democratica e pluralista. Promuovere un dibattito aperto e onesto è essenziale per affrontare le complessità della questione israelo-palestinese. Per comprendere a fondo tali complessità è necessario prendere coscienza della realtà in cui vivono israeliani e palestinesi e impegnarsi per un cambiamento che porti giustizia per questi ultimi (quelli privi di diritti, al momento) e stabilità per entrambi. Solo così potremo affrontare questa delicata tematica con sensibilità e competenza.
Come descrive l’attuale situazione umanitaria e dei diritti umani nella Palestina occupata?
L’attuale situazione umanitaria e dei diritti umani nella Palestina occupata dal 1967 è estremamente grave e spesso sembra priva di speranza di miglioramento. L’occupazione militare protratta da parte di Israele per circa 60 anni ha comportato la deportazione o lo sfollamento forzato di persone che vi abitano da generazioni, con l’obiettivo di acquisire illegalmente terre e risorse. Per ripristinare i diritti umani violati è indispensabile un’azione politica decisa, ma questa sfida non può essere affrontata senza l’intervento della comunità internazionale. Israele ha commesso numerose violazioni del diritto internazionale, a cominciare dalla cancellazione dei confini stabiliti dall’armistizio del 1949 (Linea Verde) sin dal 1967. Queste azioni rientrano in un progetto di colonizzazione con radici profonde e vanno oltre il governo attualmente al potere. Le condanne verbali da sole non saranno sufficienti per ripristinare la legalità, ma potrebbero addirittura favorire ulteriormente l’espansione delle colonie israeliane illegali e gli espropri di terra ad essa connessi, aumentare le uccisioni sommarie, gli arresti arbitrari, le demolizioni e la violenza che coinvolge entrambe le società, sia israeliana che palestinese. E’ importante riconoscere che la violenza è parte integrante di questo contesto ed è connaturata alle politiche coloniali portate avanti da Israele. Per affrontare questa complessa situazione, è fondamentale un impegno collettivo per porre fine all’occupazione e promuovere una soluzione giusta e pacifica per entrambe le società coinvolte. L’attuale situazione richiede un approccio determinato e di principio, con il coinvolgimento attivo degli stati occidentali. La comunità internazionale ha un ruolo cruciale nel sostenere tale sforzo e garantire il rispetto dei diritti umani nella regione.
Nell’ambito delle caratteristiche storiche e giuridiche inerenti al colonialismo possiamo definire Israele come una potenza coloniale. Quali possono essere i passi legali per lavorare a una de-colonizzazione? Dal punto di vista giuridico internazionale, quali sono i meccanismi per aiutare i nativi palestinesi a veder rispettato il loro diritto all’esistenza e all’auto-determinazione?
L’attuale situazione umanitaria e dei diritti umani nella Palestina occupata è estremamente critica e sembra mancare una prospettiva di miglioramento. Israele sembra intenzionato a perpetuare politiche di apartheid con l’obiettivo di sottrarre terre palestinesi attualmente sotto occupazione militare. Molti paesi del nord del mondo sembrano ignorare o sottovalutare tali condotte e problematiche, probabilmente anche per la difficoltà di certi stati di affrontare in modo critico l’eredità del proprio passato.
Per un cambio di paradigma, gli stati dovrebbero attuare le misure diplomatiche, politiche ed economiche previste dalla Carta delle Nazioni Unite per indurre Israele a rispettare la legalità internazionale. Revisione degli accordi diplomatici, commerciali e sanzioni sono strumenti previsti dalle Nazioni Unite per assicurarsi il rispetto dei principi legali internazionali. E’ inoltre necessario che i responsabili di gravi violazioni del diritto internazionale siano oggetto di inchieste giudiziarie rigorose, sotto l’egida della Corte Penale Internazionale e altri tribunali nazionali competenti per la giurisdizione universale.
È importante ragionare al di là del concetto di “soluzione a due Stati” da raggiungere a mezzo di negoziato bilaterale, e riconoscere che la disuguaglianza tra palestinesi sotto occupazione e israeliani è tale da non permettere tale negoziato nel contesto corrente. La fine dell’occupazione militare e dell’espansione delle colonie israeliane nel territorio palestinese occupato deve essere conditio sine qua non per il negoziato politico tra israeliani e palestinesi. La forma di stato che i Palestinesi desiderano deve essere una decisione autonoma, e spetta a loro definirla. Tuttavia, è essenziale che anche Israele, nel rispetto della sicurezza del proprio territorio riconosciuto dalle Nazioni Unite (non includente Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza) riconosca e rispetti i diritti umani di tutti coloro che vivono nella regione e si impegni concretamente per una coesistenza pacifica e giusta.
Francesca Albanese è Affiliate Scholar presso l’Institute for the Study of International Migration at Georgetown University, nonché Senior Advisor su “Migration and Forced Displacement per il think-tank “Arab Renaissance for Democracy and Development (ARDD)”. Ha pubblicato testi sulla situazione legale in Israele e nello Stato di Palestina, insegna e tiene conferenze sul diritto internazionale e sugli sfollamenti forzati, presso università in Europa e nella regione araba. Albanese ha anche lavorato come esperta di diritti umani per le Nazioni Unite, tra cui l’Ufficio dell’Alto Commissario ONU per i diritti umani e per l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e il lavoro per i rifugiati palestinesi.
Il secondo rapporto della dott.ssa Albanese: qui.