Primavera Araba: la Giordania, il pezzo mancante del puzzle

Di Amelia Smith

Memo. Le manifestazioni al centro di ‘Amman sono un episodio ristretto, non proprio della portata di piazza Tahrir, al Cairo. Infatti, a parte i venerdì, è difficile trovare altre situazioni. In cosa potrebbero assomigliare agli egiziani? Bisognerebbe rispondere a tre quesiti: anzitutto in Giordania i manifestanti chiedono la fine dela corruzione, riforme economiche libere ed eque. Solo ora si inizia a sussurrare qualcosa sul Re.
Venerdì, 1.500 manifestanti hanno chiesto al governo di “indagare sulla corruzione”, il popolo vuole una legge elettorale democratica e nessun funzionario proposto dalla Casa Reale

A maggio, l’associazione tessile Fathi Jaghbir si era opposta a un rincaro dell’elettricità, entrate che, con tutta probabilità, avrebbero finanziato lussuose feste della Regina Rania nel deserto di Wadi Rum.

In qualche modo, la coppia reale ha risposto ad alcune di queste domande poste dai manifestanti. Le feste della regina Rania non ci sono più e il Re ‘Abdallah II ha apporvato una controversa legislazione ora sottoposta all’emendamento di governo e parlamento.

Ma attualmente il Re non scarta il voto unico a livello regionale, non ha nemmeno aumentato il numero di seggi del 50% così come richiesto, ma lo ha fatto per un 12% su 140 seggi e per un 18% su 150 seggi.

Sembra che il Re sia convinto che il popolo accetterà la sua versione di riforma, molto accomodante e senza dare un granché.

Seduta davanti a una serie di negozietti che vendono collanine fatte con ossa di cammelli a Petra, mi sistemo per chattare con Basim, che vive in un villaggio vicino. “Il re è un brav’uomo”, mi dice nonostante, di fronte ad altri riferimenti come Mubarak, al-Asad o Gheddafi, le aspettative non possano andare molto lontano.

E’ la forma che i Paesi della Primavera Araba stanno prendendo a fare paura. Con la Siria a nord, la guerra civile ne è un esempio. A sud, l’Egitto ha mandato via la dittatura, ma l’esercito ha sciolto il parlamento. In Libia, le milizie restano lì e rappresentano instabilità, lasciando il futuro nella regione immerso nell’incertezza.

Meno positivo è Basim riguardo a Israele. Lui racconta che giorni fa, guide turistiche israeliane hanno portato numerosi turisti, avvisati di non portare con sé denaro. La sua è simile alla visione che hanno i giordani dell’accordo con Israele 1994 – quando fu inclusa anche un’intersa turistica – e cioè che quell’accordo non andasse proprio a favore del popolo giordano.

Certamente, questioni nazionali avranno la precedenza in qualunque dibattito sulle riforma, ma la Palestina è intrecciata nella società. Anche la condanna alla colonizzazione israeliana ha fatto parte delle proteste. A maggio, la notizia del premierato di Fayez Tawaneh (un personaggio coinvolto  nell’accordo con Israele) fece pensare all’oltraggio. Bandiere Usa e israeliane furono bruciate agli slogan di “morte a Israele” e ora, anche una piccola parte di uomini d’affari stanno rescindendo relazioni commerciali con gli israeliani.

Il Re sta tentando di risolvere la discussione prendendo parte ai colloqui sulle preoccupazioni regionali. A gennaio ha incontrato Barack Obama per parlare di processo di pace israelo-palestinese, a maggio il ministro degli Esteri egiziano Kamel ‘Amr e, nell’incontro forse più significativo, giorni fa ha incontrato il capo dell’ufficio politico di Hamas, Khaled Mesha’al. Dopo 13 giorni di ostilità, mentre Mohammed Mursi accedeva al potere, l’Egitto riaffermava il suo ruolo guida nella regione, assumendo posizioni molto filo-palestinesi. Può sembrare logico che la Giordania lo seguirà.

Cosa significano questi incontri per il futuro della Palestina? Vuol essere forse il messaggio che attori e negoziati continueranno in sua assenza? Mesha’al ha tenuto a precisare che “la Giordania non sarà la patria alternativa alla Palestina”.

Sulla lealtà che pubblicamente manifesta il Re ‘Abdallah per l’unità araba e sulla risoluzione della problema possiamo essere sicuri. La carità dopo tutto comincia da casa. Nonostante il census del 2004, il governo non rilascerà dati ufficiali sui cittadini giordani di discendenza palestinese. Le stime parlano di una media che va dal 35 al 60%.

Sebbene siano titolari di passaporto, in Giordania c’è discriminazione verso i palestinesi. Ad esempio sono precluse loro le posizioni che spettano all’elite beduina e molti sono stati privati della cittadinanza giordana.
Alcuni studi hanno dimostrato che, nella migliore delle ipotesi, i palestinesi sostituirebbero i giordani, se fosse data loro questa possibilità. Nella peggiore, invece, essi sfrutterebbero il campo giordano per incendiare la tensione con Israele. Re Hussein firmò l’accordo con Israele nel 1994 e lo fece in parte per sollevare critiche ai palestinesi i quali, a suo parere, stavano provando a fare del suo regno una patria alternativa. Allora chi sono coloro che la Giordania sta cercando di accontentare? Senza dubbio, il paese ha un ruolo rilevante nella diplomazia. Qui non c’è petrolio, il Paese dipende per la fornitura d’acqua da Israele e ne riceve altre quantità dall’America, oltre agli aiuti finanziari provenienti dall’Arabia Saudita e il gas naturale a prezzi ridotti dall’Egitto. Secondo l’opinione di alcuni, in  Giordania non esploderà una Primavera Araba per non rischiare di perdere nessuno di questi benefici.

Altri, invece, lo pensano, o per lo meno sono pronti a chiedere che determinate scelte politiche poggino su specifici interessi. Formare un parlamento eletto e un sistema elettorale democratico non porterà a uno scontro bellico aperto o a uno sconvogimento della composizione demografica, ma darà ai giordani maggiore parità di diritti. Ora il Re ha la possibilità di rispondere ai manifestanti con riforme vere.