Priorità modificate: ascesa e declino della teoria araba rivoluzionaria

343026CMa’an. Di Ramzy Baroud. E’ strano come il discorso intellettuale sulla cosiddetta «Primavera araba» sia quasi del tutto cambiato, negli ultimi anni. Dal discorso su libertà, giustizia, democrazia e diritti in generale si è passati a un diverbio politico in diversi campi antagonisti.
Il popolo che si è ribellato in diversi Paesi arabi è ora tenuto ai margini della discussione, ed è usato solo come carne da macello – assassini e vittime – in una guerra che appare senza fine.

Ma perché tutto è andato storto?
C’è stato un periodo, una volta, in cui le cose erano semplici, facili da capire e da spiegare: la gente, a lungo oppressa, si ribellava ai propri oppressori (regimi arabi) e ai benefattori (potenze occidentali).
Incapaci di cambiare le cose in via pacifica – in quanto le società civili arabe o non esistevano o erano strettamente controllate – le masse arabe scesero in strada, ogni nazione con una propria battaglia ma tutte unite su richieste fondamentali.
Anzi, nei primi mesi del 2011 gli arabi si unirono per un breve periodo. Emerse un senso di nazionalità dal sangue e dalla polvere delle rivolte, in cui le masse arabe cercarono, almeno simbolicamente, innanzitutto di definire se stesse in quanto nazioni, e poi in quanto arabe.
Tutto iniziò con «Il popolo vuole rovesciare il regime!» Questo era chiaro. L’odio per il regime autoritario che reprime le libertà e depriva il popolo delle ricchezze e delle risorse naturali del loro Paese era la priorità palese, spesso ridotta al termine di «Irhal», ovvero «Andatevene».
«Irhal» andava oltre alla richiesta di «delegare il potere». Immaginiamo milioni di persone povere ad affollare le piazze delle loro città, chi con i vestiti a pezzi, altri affamati, stanchi, in parte speranzosi e in parte disperati, tutti uniti a cantare all’unisono: «Irhal!», «Andatevene!». E loro, i dittatori, iniziarono ad andarsene, uno dopo l’altro.
Incoraggiati nelle possibilità di ottenere cambiamenti reali, la narrativa delle rivoluzioni arabe si evolse e maturò. I simboli di unità araba – nell’ottenimento di un obiettivo comune – iniziarono a definirsi quando Tunisi, il Cairo e Sana’a innalzarono la stessa bandiera ed espressero più o meno le stesse richieste.
Iniziarono a evidenziarsi anche dei simboli di unità tra cristiani e musulmani, nonostante i tentativi dei regimi di alimentare le divisioni. Ciò si verificò soprattutto in Egitto, ma altre società rifletterono sulla loro unità, sfidando il tribalismo, il regionalismo, il settarismo e tutti gli «ismi» divisori che avevano paralizzato le nazioni arabe per generazioni.

Con il tempo altre narrative uscirono allo scoperto, esprimendo reclami e ingiustizie, dai diritti delle donne, all’accesso all’istruzione, all’equa distribuzione della ricchezza.
L’evoluzione finale della narrativa araba rivoluzionaria si espresse in Egitto, nello slogan: «Khubz, Hurriyah, ‘Adala Igtimayiah» – «Pane, libertà, giustizia sociale».
Attraverso quella fase della «Primavera araba» i dibattiti televisivi, gli articoli di giornale e le discussioni sui social media contribuirono a collegare le narrative imposte dalla collettività araba, che cantava e protestava da abbastanza tempo per imporre la propria agenda su quella di chiunque altro. I media ne presero atto, e la loro narrativa si evolse dal «cambio di regime» a riferimenti alla libertà, alla democrazia, e infine allo sviluppo – diventati tutti termini in voga sui mezzi di informazione nazionali e pan-arabi.

Le cose allora erano abbastanza semplici, anche un po’ semplicistiche. La premessa generale era che, una volta ripulita piazza Tahrir, in Egitto, dai segnali della rivoluzione, ed eliminati gli armamenti e la macchina di guerra dalla Libia (in quanto, grazie alla Nato, una rivolta regionale in Libia si trasformò in una guerra terribile), sarebbe iniziato il conto alla rovescia per uno sviluppo economico e per una democrazia duraturi.
Ma naturalmente la storia non si nutre di buone intenzioni o di pie illusioni. Per rovesciare il circolo vizioso di corruzione, povertà e regole autoritarie durato l’intera storia moderna ci vuole qualcosa di più di un canto o di uno slogan.
Nello scenario di quasi tutti i post-rivoluzione arabi la responsabilità di riportare queste nazioni in carreggiata, dal punto di vista economico e politico, è stata affidata alle medesime élite che precedentemente avevano governato o avevano tratto benefici nel corso del governo dei dittatori apparentemente rovesciati.
E’ stato uno spettacolo strano e interessante vedere il momento rivoluzionario in ogni Paese arabo ribelle giungere a uno stop improvviso o a un completo cambio di direzione. L’Egitto è stato il primo esempio di queste contraddizioni. Non si è trattato di mancanza di fervore o passione durante la rivoluzione, piuttosto si è trattato della supposizione ingenua che le élite al governo avrebbero dato vita spontaneamente a un sistema equo e trasparente di opportunità economiche.
Il debole passaggio che ha definito ogni esperienza rivoluzionaria araba è stato che i vecchi regimi e i loro benefattori avevano bisogno di riprendere l’iniziativa e rovesciare le conquiste, sia pur simboliche, delle masse arabe. E’ significativo che il primo ministro inglese David Cameron fu il primo capo di Stato estero a visitare l’Egitto dopo la rivoluzione del 25 gennaio (solo 10 giorni dopo il rovesciamento di Hosni Mubarak), in quanto assieme a lui arrivarono i rappresentanti dei più importanti fornitori di armamenti e consulenti militari. Egli andò a offrire armamenti ai governanti militari egiziani, ovvero l’ultima cosa di cui l’Egitto avesse bisogno in quel momento.
E’ abbastanza conseguente leggere titoli recenti come «Kerry considera accresciuti i rapporti con l’Egitto nonostante tensioni sui diritti umani», come riportato da Bloomberg sulla visita del Segretario di Stato Usa John Kerry al Cairo il 2 agosto scorso, anch’egli a offrire jet da combattimento e altri armamenti.

La «Primavera araba» non ha ancora ottenuto nessuno dei suoi obiettivi, in quanto né si trova pane a sufficienza né la libertà è vicina o la giustizia sociale raggiunta. Essa ha invece rafforzato le élite, gli eserciti e i regimi arabi, che si sono resi conto ora come mai prima delle loro vulnerabilità.
La paura ora attanaglia molti Paesi arabi che una volta si ritenevano invincibili e che consideravano docile la propria popolazione. Quella consapevolezza si è ora trasformata in un grande conflitto regionale e in un riallineamento politico che hanno trasformato ogni singola rivolta popolare araba in un conflitto regionale o in una guerra che ha travalicato i confini, ispirando i gruppi estremisti e richiamando ulteriori interventi occidentali e guerre.
Il mondo arabo, e il Medio Oriente in generale, non provava un tale sconvolgimento geopolitico dall’inizio del ventesimo secolo, quando i territori ottomani furono divisi tra vecchie potenze coloniali europee, fino alla seconda guerra mondiale. Il risultato di tale sconvolgimento appare tanto devastante quanto gli avvenimenti del secolo scorso, se non di più, per la presenza dell’elemento popolare nei conflitti di oggi.
Ma lo spostamento forse più importante nelle priorità della «Primavera araba» è il rovesciamento della narrativa dalla sua articolazione fondamentale, innocente, unificatrice, rafforzante e popolare, a quella complicata, furba, separatrice, indebolente e elitista, in cui il popolo, alla fine, non conta.
Il linguaggio è uno strumento essenziale se si cerca di comprendere le priorità politiche delle diverse fasi storiche. Il linguaggio operativo in Medio Oriente parla di conflitti tra rivali regionali che utilizzano sette, tribù e religioni per raggiungere obiettivi politici.
In quanto al popolo, esso viene sempre più spinto ai margini, e lo si fa brevemente emergere in occasione di cerimonie di Stato solo per fargli sventolare i manifesti dei governanti – sorridenti, trionfanti e sempre brutali – e bandiere che hanno perso gran parte del loro significato nazionale.

R.B. è un editorialista internazionale, autore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story

Traduzione di Stefano Di Felice