
Gaza-Palestine Chronicle. Di Noor Alyacoubi. “Grazie a Dio quegli sfollati nel sud non sono tornati subito dopo il cessate il fuoco”.
Questa frase ironica è diventata un ritornello comune nel nord di Gaza. All’inizio, potrebbe sembrare sorprendente. Dopotutto, il ritorno degli sfollati dovrebbe essere un momento di gioia, un momento atteso a lungo per riunirsi con i propri cari dopo mesi di separazione e difficoltà. È stata anche una questione molto critica che ha ostacolato il percorso dei negoziati tra la Resistenza palestinese e Israele per mesi. Ma se si approfondisce, il sentimento riflette una dura realtà: la breve finestra tra il cessate il fuoco e il ritorno degli sfollati è appena sufficiente per riacquisire stabilità in una regione già devastata.
Inizia la lotta per un riparo.
Quando la guerra è finita, è iniziata una nuova lotta: la disperata ricerca di un riparo.
“Viviamo nelle loro case”, ha detto Osama Hamed, padre di quattro figli, con la voce carica di tristezza. “Abbiamo a malapena il tempo di fare le valigie e capire dove andare prima che i proprietari originali tornino a reclamare ciò che è legittimamente loro”.
Dall’assalto al campo di Jabalia, Osama e la sua famiglia sono rimasti nella casa di parenti ad Al-Jalaa, nella parte ovest della città di Gaza.
“Continuavo a pregare che la mia casa fosse ancora in piedi”, ha detto Osama. “Anche se era stata parzialmente distrutta, volevo solo che rimanesse in piedi per tornarci”.
Il 19 gennaio, addirittura due ore prima dell’inizio del cessate il fuoco, Osama si è precipitato a controllare la sua casa a Jabalia. Quello che ha trovato lo ha distrutto: l’edificio era ridotto in macerie.
La casa non era solo di Osama; era la casa della famiglia costruita dal suo defunto padre. Osama e i suoi quattro fratelli avevano ciascuno un appartamento là, un simbolo del duro lavoro del loro padre. Ora, quell’eredità non c’è più. I fratelli e le loro famiglie affrontano un futuro incerto, ognuno in difficoltà per trovare un riparo.
“Vedendo le rovine, mi sono sentito paralizzato”, ha detto Osama a The Palestine Chronicle. “Le domande mi hanno sopraffatto: dove andremo? Cosa faremo? Non ho neanche avuto la possibilità di piangere”.
“La casa era il nostro rifugio, e ora non c’è più”, si è lamentato.
Si prevede che la famiglia che ospita Osama tornerà presto a casa sua, lasciandolo senza altra scelta che trovare un altro riparo.
“Ho persino pensato di montare una tenda sulle macerie”, ha ammesso Osama. “Ma la zona è inabitabile, una zona devastata senza infrastrutture, senza acqua e con poche strade rimaste intatte”.
La distruzione nel campo profughi di Jabalia è impressionante. Le case sono state cancellate, le strade spianate, le condotte idriche distrutte e le infrastrutture di base spazzate via. Muoversi nella zona è una sfida, per non parlare di cercare di ricostruire.
Le altre opzioni di Osama sono scomparse altrettanto rapidamente. L’appartamento vuoto di suo cugino era già occupato e anche la casa dei suoi suoceri nel nord di Gaza è stata distrutta.
“Sto ancora cercando un posto dove stare”, ha detto Osama.
Rifugio perso, sostentamento perso.
A peggiorare le cose per Osama c’è la perdita dei suoi mezzi di sostentamento.
“Sono un sarto, ma tutte le mie macchine sono ora sepolte sotto le macerie”, ha detto.
Prima della guerra, la crisi elettrica di Gaza ha costretto Osama ad acquistare pannelli solari per 8.000 dollari.
“Ora non ho niente”, ci ha detto. “Ho bisogno di una nuova macchina da cucire e di un altro impianto solare, ma sono entrambi quasi impossibili da trovare”.
Anche il fratello di Osama, Salem, ha perso il mezzo di sostentamento. Il suo supermercato, situato nello stesso edificio, è stato distrutto. Mentre un parente ha offerto a Salem un appartamento temporaneo e non arredato, lui affronta l’incertezza sulla riapertura della sua attività.
“Niente è stabile”, ha detto Salem. “I prodotti vanno e vengono, i prezzi fluttuano in modo folle. Ho paura di acquistare scorte e perdere di nuovo tutto”.
Una lotta contro il tempo.
Mentre si avvicina domenica, il giorno in cui si prevede che gli sfollati tornino a Gaza, famiglie come quella di Osama stanno facendo una corsa contro il tempo per assicurarsi un riparo.
Per Jawad, un residente di Jabalia e neo-papà, il cessate il fuoco non ha portato alcun sollievo. La sua casa, sebbene ancora in piedi, è stata gravemente danneggiata.
“I muri sono andati, i mobili sono distrutti”, ha detto Jawad. “Ma le colonne sono intatte, quindi non ho altra scelta che renderla vivibile”.
Da quando è iniziato il cessate il fuoco, Jawad e suo fratello hanno lavorato senza sosta per rimuovere le macerie e coprire la struttura con tettoie improvvisate.
“Il nostro quartiere è inabitabile”, ha ammesso Jawad. “Ma dove altro possiamo andare? Non posso permettermi di affittare e qui non c’è terreno per accamparsi”.
A differenza del sud di Gaza, dove i terreni agricoli possono ospitare campi improvvisati, la città di Gaza e il nord di Gaza sono densamente popolate, con poco spazio a disposizione.
Nella sola Gaza, 450.000 persone sono ora senza casa, e si affannano per trovare anche il più misero riparo.
Il cessate il fuoco può aver posto fine alle bombe, ma per molti a Gaza la lotta per la sopravvivenza è solo all’inizio.
– Noor Alyacoubi è una scrittrice di Gaza. Ha studiato lingua e letteratura inglese all’università di al-Azhar nella città di Gaza. Fa parte del collettivo di scrittori di Gaza We Are Not Numbers. Ha contribuito con questo articolo a The Palestine Chronicle.
Traduzione per InfoPal di Edy Meroli