Quello che il Papa non vedrà…

Quello che il Papa non vedrà… 

Da The Indepent del 5 maggio

Donald Macintyre: alle 5 del mattino, palestinesi fermi a un posto di blocco di Betlemme per lavorare a Gerusalemme… e sono i più fortunati!

Sono le 5.45, pochi minuti prima dell’alba, quando la coda all’entrata dello stretto checkpoint recintato di Gilo (provincia di Betlemme) è al massimo del caos. Scoppiano risse: gli umori della gente, in gran parte sveglia dalle 3, cominciano a alterarsi, mentre si scatena una lotta per imbucarsi nel piccolo corridoio di recinzione che conduce alla lunga serie di controlli israeliani delle carte d’identità, dei permessi di lavoro e delle impronte digitali.

Una sorta di ordine viene ristabilito quando Mohammed ‘Abed, 48 anni, in piedi nel mezzo della coda che si snoda lungo gli otto metri di lastre di cemento di cui è fatto il muro di separazione, decide d’insorgere. Pressato dalla folla sgomitante contro un uomo più anziano ormai barcollante e notevolmente pallido, ‘Abed grida con voce autoritaria: “Ci sono persone che entrano senza fare la coda!”

Questa è la prima tappa di un viaggio che condurrà i palestinesi a Gerusalemme – nel giro di un’ora se tutto fila liscio; dopo tre ore, o anche mai, se qualcosa va storto – ; tutto questo sotto la prospettiva di un’altra dura giornata di lavoro in un cantiere israeliano, con una paga estremamente allettante, che varia dai 36€ ai 45€ al giorno.

Anche se, in occasione della sua visita di cinque giorni in programma per la settimana prossima, è previsto che farà il suo ingresso nella Città Santa attraversando il muro allo stesso posto di blocco, questa è una scena che Papa Benedetto XVI non vedrà. All’ora in cui farà il suo arrivo, intorno alle 8, le migliaia di lavoratori saranno già partite da tempo; i venditori di cibo avranno sistemato i carrettini, insieme alle caffettiere, alle pagnotte al sesamo e alle scatolette di tonno, che costituiscono talvolta il pranzo dei pendolari – tutto costa quasi 1 € in meno che in Israele.

Eppure, se arrivasse qualche ora prima e vedesse questi 2.000 e più uomini entrare nell’ovile tra le 5 e le 6.30 del mattino (quando l’esercito non ordina una chiusura di sicurezza), Sua Santità potrebbe imparare molto sulla vita quotidiana in Cisgiordania. Se non altro, la ressa dell’alba a Gilo è una testimonianza della costante debolezza dell’economia palestinese e delle privazioni che, di conseguenza, le persone affrontano per mantenere le proprie famiglie.

”È una lotta –  dice Azed Attallah, 45 anni – , non vedo mai i miei figli. Quando parto dormono, e quando torno a casa dormono ugualmente.” Molti provengono dalla provincia di Betlemme, ma molti altri giungono fin dal sud della Cisgiordania, impilandosi in taxi notturni. Attallah, per esempio, è di Yatta e spende circa 34€ alla settimana per raggiungere il checkpoint e ritornare; altri vengono fin da Ramadin, un villaggio distante 70 km.

Cominciano ad arrivare alle 3 del mattino – alcuni con fogli di cartone su cui dormire alla bell’e meglio – per essere certi di passare i controlli in tempo per lavorare. Se si vuole un permesso, bisogna avere più di 30 anni, essere sposati ed avere almeno un figlio. Una volta oltrepassato il posto di blocco, si attende che arrivi il capo, o più semplicemente si prende l’autobus, o gli autobus, che porteranno a destinazione.

La necessità di non mancare al lavoro spinge invariabilmente diversi di loro a saltare la fila ogni giorno, infilandosi in uno degli altri due “corridoi” paralleli – ce n’è uno per i lavoratori che ritornano e un altro “umanitario” riservato a donne, bambini, anziani e infermi – e, scavalcando il recinto, passando tra la folla, o attraverso lo spazio stretto che si apre sotto il tetto della guardiola. Mentre uno di questi “paracadutisti” atterra al di là della siepe, un altro spiega la sua fretta indicando il proprio cellulare, il quale mostra la chiamata di un capo israeliano che sta domandando dov’è il suo dipendente.

Ad Attallah piacerebbe molto vedere il presidente palestinese Mahmud ‘Abbas o altri leader di al-Fatah unirsi alla coda e vedere in che condizioni si trovano. “Finché ci sarà un muro, non ci sarà nessuna soluzione economica” afferma il pendolare. Ma, al di là di questo, aggiunge: “Io non ho tempo per la politica. Sto solo cercando di vivere.” Mohammed ‘Abed, anche lui di Yatta, gli fa eco: “Non abbiamo alternative. L’unica soluzione è quella di dare lavoro alla Cisgiordania.”

Nonostante tutto, questi uomini sono in realtà fortunati – in senso relativo, naturalmente. Innanzitutto, possono lavorare in Israele, cosa impensabile per qualsiasi abitante di Gaza e per molti altri della Cisgiordania, a meno che non lo facciano illegalmente (e, con la costruzione della barriera, è una scelta che diventa sempre più difficile). La disoccupazione è salita al 19% nei Territori amministrati da Ramallah, e gli stipendi sono anche più bassi che in Israele, variando dai 13 ai 16 euro al giorno.

Al tempo dell’ultima visita pontificia del 2000, circa 140.000 cisgiordani lavoravano a Gerusalemme. Dall’inizio della seconda Intifada, però, solo 26.000 dispongono dei permessi necessari. Timothy Williams dell’agenzia ONU UNRWA per i rifugiati palestinesi – che monitora i posti di blocco come quello di Gilo per il fatto che il 35% degli individui che lo oltrepassano ogni giorno sono rifugiati – sostiene che avere o no l’accesso al territorio israeliano è una delle cause fondamentali delle sofferenze di queste persone: “Se hai [vicino] un posto di blocco ma nessun permesso, o un permesso ma nessun posto di blocco, allora sei costretto nei tuoi spostamenti” spiega.

Ma anche tra coloro che si muovono liberamente serpeggia il risentimento per le lunghe attese affollate al checkpoint Gilo. Stamattina uno di loro, parodizzando il verso del noto poeta Mahmud Darwish “ricordate che sono un arabo”, ha gridato attraverso il recinto: “Ricordate che sono un coglione!” Rawan Khartush 20 anni, di Betlemme, insegna in una scuola elementare cristiano-musulmana a Gerusalemme Ovest. Come donna, le è permesso usufruire del “corridoio umanitario”; ma sulle condizioni degli uomini ha anche lei da dire la sua: “È molto difficile e umiliante. I palestinesi sono dominati dal semaforo verde e rosso: si può stare qua per ore e ore e sentirsi poi dire di tornare indietro.”

Raed Saharna, 33 anni, ha una modesta proposta: “Ci vorrebbero più passaggi, e bisognerebbe aprirli prima.” ‘Abd al-Khadr Abu ‘Ayesh, suo coetaneo, fa la coda giornalmente per lavorare come responsabile del personale a Gerusalemme, e sostiene che i datori di lavoro israeliani sono “normalmente bravi”. Ma su Gilo dichiara: “Ho viaggiato in molti paesi e non ho mai visto niente di simile a questa stazione.” Non la ritiene necessaria per la sicurezza d’Israele? “Guardi, le persone che passano da qui hanno i permessi. Sono stati esaminati dallo Shin Bet [il servizio di sicurezza israeliano, ndr]. Non sono affatto una minaccia per la sicurezza. È umiliante.”

Perfino i cristiani palestinesi nella fila appaiono scettici sull’impatto della visita del Papa della prossima settimana: “Non credo che il Papa farà la differenza – afferma Nicholas Abu Saqer, 44 anni di Beit Sahour – , lui è un’autorità religiosa, non un politico. Gli Israeliani prepareranno della propaganda apposta per lui, proprio come fanno con gli altri visitatori stranieri. Non avrà nessun effetto.”

’Ali Memuni, 50 anni di Hebron, vorrebbe però ugualmente che Sua Santità conoscesse questo poco noto aspetto di Betlemme: “Dovrebbe svegliarsi alle 3 del mattino e venire qui, come facciamo noi.”



 

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