“Questa è la realtà giornaliera nel campo profughi di Jenin”: il racconto di un residente

(AFP).

Jenin – Jerusalem24. La città di Jenin, ed in particolare il suo campo profughi, sono abituati a sopportare difficoltà, traumi e perdite sotto l’occupazione israeliana. Ma anche per i resilienti residenti del campo, il massacro di giovedì (il cui bilancio è salito a 10, domenica, quando il ventenne Omar al-Saadi è deceduto a causa delle ferite riportate durante le quattro ore di invasione militare) è stato particolarmente brutale da assistere.

“Hanno distrutto il club giovanile, attaccato l’ospedale, ucciso persone, ne hanno ferite e arrestate altre”, ha dichiarato a Jerusalem24 Mustafa Sheta, direttore del Teatro della Libertà di Jenin e residente del campo. “Si stanno comportando come matti, prendendo di mira tutti per strada. A loro non importa nulla intorno ad essi”.

Mustafa ha paragonato il massacro di giovedì all’invasione del campo profughi di Jenin del 2002, che aveva lasciato decine di residenti morti sotto le macerie di centinaia di case.

“Loro [l’esercito israeliano] affermano di prendere di mira le persone ‘ricercate’, ma hanno colpito tutti, ogni essere vivente”, afferma. “Hanno invaso la città ed il campo nelle prime ore del giorno, quando i genitori mandano i figli a scuola”.

Mustafa ritiene che le autorità israeliane stiano cercando di inviare un messaggio alla popolazione di Jenin attraverso una politica di punizione collettiva, assediando il campo e sopprimendo ogni tentativo di resistenza.

Trauma collaterale.

Jenin è stata al centro delle incursioni militari israeliane nella Cisgiordania occupata, che hanno iniziato ad aumentare in frequenza ed intensità all’inizio dello scorso anno.

Durante il 2022, l’anno più mortale registrato nella Cisgiordania occupata dalla Seconda Intifada, 59 dei 157 palestinesi uccisi dall’esercito israeliano o provenivano da Jenin o vi sono stati uccisi durante invasioni quasi quotidiane della città e del campo profughi.

Mustafa è stato in grado di evacuare il campo con i suoi figli e la moglie durante l’invasione di giovedì, ma dice che tutti sono preoccupati per se stessi e per le loro famiglie.

“Parliamo continuamente dell’importanza di prenderci cura della nostra salute mentale e di trovare modi per migliorarla, ma continuano a distruggerla”.

Mustafa racconta, ancora una volta, che questo è “solo un altro 2002”: “Sei sotto attacco e non puoi proteggerti. Ogni giorno, ci aspettiamo che possa verificarsi un’invasione da un momento all’altro. Le persone si preparano per qualcosa di grande, ogni giorno, non sappiamo quanto sarà grande”.

Per gli abitanti di Jenin, il campo è molto più del luogo che chiamano casa. È uno spazio geografico-politico, un simbolo del loro diritto a tornare nelle loro città e cittadine.

“È una continuazione della nostra dignità, della nostra identità”, dice Mustafa, “e della nostra storia del perché siamo già qui in Palestina, perché siamo ancora sotto questa brutta occupazione. È un riflesso della nostra storia umana”.

Un fardello tramandato di generazione in generazione.

Quasi tutte le vittime di giovedì, ad eccezione di una donna di 60 anni, erano adolescenti e uomini sotto i 25 anni. Molti di loro erano armati quando sono stati colpiti. È tradizione, qui, che anche i più giovani siano coinvolti nell’affrontare i soldati israeliani quando invadono il campo, anche solo raccogliendo una pietra e lanciandola.

“Alcuni chiedono perché questa generazione sia coinvolta”, riflette Mustafa. “Questa generazione è cresciuta in questo campo e in questo conflitto […], in questa brutta situazione”.

“I bambini assistono all’arresto dei loro parenti e all’uccisione di membri delle loro famiglie. Questa è la scena della vita quotidiana nel campo e in Palestina”.

Mustafa dice che i suoi figli gli chiedono quotidianamente informazioni sulla realtà. “Perché succede, o come è successo […]. A volte non sono in grado di fornire una spiegazione.”

“Il nostro diritto di esistere”.

“Quando il mondo ha sostenuto la resistenza ucraina contro l’occupazione russa”, dice Mustafa, “eravamo felici che ‘finalmente potessero pensare alla terminologia che usano, potessero vedere l’occupazione e la resistenza per quello che sono realmente'”.

Ma il mondo guarda questioni geograficamente diverse con occhi diversi, dice.

Jenin sta ancora aspettando che la sua resistenza venga riconosciuta e applaudita dal mondo.

Mustafa però non si arrende. “Vogliamo che il mondo riconosca il nostro diritto di esistere, essere liberati ed essere indipendenti”.

Puoi ascoltare l’intervista completa su Wake Up Palestine.