“Questa non è una rivoluzione”

“Questa non è una rivoluzione”

L’oscurità discende sul mondo arabo. Desolazione, morte e distruzione assistono a una battaglia per una vita migliore. Gli outsider sono in competizione per l’influenza e per saldare i loro debiti. Le dimostrazioni pacifiche con cui tutto questo è iniziato, i nobili valori che le hanno ispirate, diventano lontani ricordi. Le elezioni sono occasioni gioiose dove le visioni politiche diventano un ripensamento. L’unico programma consistente è quello religioso ed è mosso dal passato. Si è scatenata una lotta per il potere, senza regole precise, valori o una fine. Non terminerà con il cambio di regime né con la sua sopravvivenza. La storia non va avanti. Scivola lateralmente.

I giochi di potere accadono all’interno di altri giochi di potere; battaglie contro i regimi autocratici, scontro confessionale fra sunniti e sciiti, lotta per il potere regionale, una guerra fredda nuova di zecca. Le nazioni si dividono e le minoranze si risvegliano, perché percepiscono una possibilità di uscire dalle restrizioni confinanti degli stati. La fotografia è sfuocata. Questi non sono nient’altro che effimeri frammenti di un paesaggio che si sta formando, con accenni disorganizzati per raggiungere una meta finale. È probabile che i cambiamenti che ora sembrano essere fondamentali diventino soltanto degli aneddoti di un percorso più esteso.

Attori nuovi o nuovissimi avanzano: la “strada” non definita, l’invito a  mobilitarsi, tanto quanto veloce l’invito a disperdersi; giovani dimostranti, attivisti fondamentali durante la rivolta, carcassa al suo risveglio. Ieri i Fratelli Musulmani erano respinti dall’Occidente, perché visti come pericolosi estremisti; oggi sono accolti e celebrati come persone di buon senso, pragmatici efficienti. I più tradizionalisti salafiti, una volta allergici a qualsiasi forma di politica, sono ora orgogliosi di competere alle elezioni. Ci sono misteriosi gruppi armati e milizie di dubbia fedeltà, benefattori sconosciuti così come gang, criminali, banditi e sequestratori.

Le alleanze sono sottosopra, mancano di logica, sono insolite e instabili. I regimi teocratici sostengono i laici; i tiranni promuovono la democrazia; gli Stati Uniti si alleano con gli islamici; gli islamici sostengono l’intervento militare occidentale. I nazionalisti arabi prendono le parti dei regimi che hanno a lungo osteggiato; i liberali prendono le parti degli islamici con i quali si sono poi  scontrati. L’Arabia Saudita sostiene i laici contro i Fratelli Musulmani e i salafiti contro i  laici. Gli Stati Uniti sono alleati con l’Iraq, che è alleato con l’Iran, che a sua volta sostiene il regime siriano, che gli Stati Uniti sperano di aiutare a rovesciare. Gli Stati Uniti sono anche alleati con il Qatar, che sovvenziona Hamas, e con l’Arabia Saudita, che finanzia i salafiti, che ispirano i jihadisti, che a loro volta uccidono gli americani ogni volta che possono.

In tempo record, la Turchia è passata da non avere nessun problema con i suoi vicini ad avere solo problemi. Ha allontanato l’Iran, fatto infuriare l’Iraq e ha avuto discussioni con Israele. È virtualmente in guerra con la Siria. Iracheni e curdi sono ora alleati di Ankara, anche se quest’ultima dichiara guerra contro i curdi di casa propria e anche se la sua politica in Iraq e Siria incoraggia  tendenze secessioniste all’interno della stessa Turchia.

Per anni, l’Iran si è opposto ai regimi arabi del Medioriente, coltivando legami con gli islamisti con i quali sentiva di poter avere una causa comune sulla questione religiosa. Non appena preso il potere, gli islamisti hanno cercato di rassicurare i loro precedenti nemici sauditi e occidentali e si sono distanziati da Teheran, nonostante il corteggiamento dell’Iran. Il regime iraniano si sente obbligato a diversificare le sue alleanze, aiutare i non islamisti che si sentono abbandonati dal nuovo ordine e spaventati dalla nascente partnership fra Islamisti e Stati Uniti. L’Iran ha già avuto esperienze di questo tipo: per gli ultimi tre decenni, si è alleato con la Siria laica anche se Damasco reprimeva i propri nemici islamisti.

Quando gli obiettivi convergono, le motivazioni differiscono. Gli Stati Uniti hanno cooperato con le monarchie e gli sceiccati del Golfo Arabo ieri per deporre Gheddafi e oggi per opporsi ad Assad. Dicono di trovarsi dalla parte giusta della storia. Tuttavia, quei regimi non rispettano a casa propria i diritti che perseguono devotamente all’estero. Il loro scopo non è né la democrazia né la costituzione di società aperte. Sono coinvolti in una lotta per il dominio regionale. Che cosa possono cercare, se non ricchezze, i sostenitori di una sedicente insurrezione democratica in nazioni i cui sistemi di governo sono un anatema al progetto democratico che loro apparentemente promuovono?

Il nuovo sistema di alleanze si basa su troppe false ipotesi e si maschera di incongruenze troppo profonde. Non è sano, perché non può essere reale. C’è qualcosa di sbagliato, qualcosa di innaturale. Non può finire bene.

Una guerra fra i mass i media, iniziata in Egitto, ha raggiunto il suo zenit in Siria. Ogni fazione mostra solo la sua parte, amplifica i numeri, non considera il resto. Nel Bahrein, è vero l’opposto. Non importa quanti oppositori del regime saltino fuori, pochi vi fanno caso. Non destano attenzione. Non molto tempo fa, filmati dalla Libia hanno glorificato combattenti eterogenei con bandane colorate e discorsi trionfanti. Le vere battaglie, sanguinose e spesso dal cielo, si sono scatenate da un’altra parte. Le vittime erano invisibili.

La folla si è riunita in piazza Tahrir. La videocamera fa uno zoom sui dimostranti. Cosa sappiamo dei milioni di egiziani invisibili che sono rimasti a casa? Hanno gioito per la deposizione di Mubarak o si sono lamentati in silenzio della sua fuga? Cosa provano gli egiziani di fronte all’attuale disordine, malcontento, collasso economico e incertezza politica? Nelle ultime elezioni, il 50% non ha votato. Tra quelli che l’hanno fatto, la metà ha votato per un rappresentate del vecchio ordine. Chi si prenderà cura di quelli che sono stati sul lato opposto del lato giusto della storia?

Molti siriani non combattono né per difendere il regime né per sostenere l’opposizione. Sono in balia di uno scontro crudele, i loro desideri passano inosservati, le loro voci inascoltate, i loro destini dimenticati. La videocamera diventa parte integrale del disordine, un mezzo di mobilitazione, propagande e incitamento. Lo squilibrio militare favorisce i vecchi regimi, situazione riequilibrata dei mass media, che al contrario favoriscono le nuove forze. Il precedente regime in Libia aveva la retorica bizzarra di Gheddafi; il regime siriano di Assad fa affidamento su mezzi di comunicazione screditati e gestiti dallo stato. È quasi una competizione. Nella battaglia per guadagnare la simpatia del pubblico, nell’era del riciclo delle informazioni, i vecchi ordini non hanno mai avuto alcuna possibilità.

In Tunisia, Egitto, Yemen, Libia, Siria e Bahrein, non è mai emersa una figura di levatura con la capacità di intraprendere una nuova strada. C’è una scarsa leadership. Dove c’è una leadership, questa tende a essere di un comitato. Dove ci sono comitati, questi ultimi emergono misteriosamente per assumere un’autorità che nessuno ha loro concesso. Sempre più spesso, la legittimazione è conferita dall’estero: l’Occidente fornisce rispettabilità e visibilità; gli Stati del Golfo Arabo forniscono risorse e supporto, le organizzazioni internazionali offrono validità e aiuto.

Quelli che sono in carica spesso sono carenti della forza che deriva da un chiaro e fedele elettorato nazionale; hanno bisogno dell’appoggio estero e perciò devono essere cauti, aggiustare le loro posizioni per farsi accettare dagli outsider. I leader rivoluzionari del passato non erano guidati da queste considerazioni. Per fortuna o sfortuna, erano testardamente indipendentisti e orgogliosi di respingere l’interferenza straniera.

Esattamente come i governanti che hanno aiutato a deporre, gli islamici placano l’Occidente. Come coloro che hanno rimpiazzato, che avevano usato gli islamici come spaventapasseri per mantenere l’Occidente dalla loro parte, i Fratelli Musulmani agitano lo spettro di ciò che potrebbe accadere dopo, se si dovesse fallire ora: i salafiti, che, da parte loro, allo stesso modo dei Fratelli Musulmani di un tempo, sono divisi tra la fedeltà alle tradizioni e il gusto del potere.

È come nel gioco delle sedie. In Egitto, i salafiti recitano la parte che avevano una volta i Fratelli Musulmani, i Fratelli Musulmani recitano la parte che una volta aveva il regime di Mubarak. In Palestina, il Jihad islamico è la nuova Hamas, nel frattempo sparano razzi che mettono in imbarazzo i governanti di Gaza; Hamas, la nuova Fatah che afferma di essere un movimento di resistenza e intanto diventa intransigente verso chi osa resistere; Fatah, una versione delle vecchie autocrazie arabe, in passato colpite proprio d loro. Quanto è lontano il giorno in cui i salafiti si presenteranno al mondo come alternativa migliore ai jihadisti?

I politici egiziani si trovano schiacciati fra la corrente trionfante dei Fratelli Musulmani, i più integralisti salafiti, gli ansiosi non islamici e quelli che rimangono del vecchio ordine. Se i Fratelli vittoriosi cercano di raggiungere un accordo con il resto, il futuro politico è offuscato. La velocità e l’eleganza con le quali il nuovo presidente, Mohamed Morsi, ha ritirato o spinto ai margini i vecchi leader militari e la calma con cui questo audace movimento è stato salutato suggerisce che la fiducia negli islamici è cresciuta, che sono inclini a muoversi più velocemente.

La Tunisia è una miscela di storie. La transizione è avvenuta in gran parte in modo pacifico; la festa di an-Nahda, partito  vincitore alle elezione dello scorso ottobre, offre la faccia di un islam pragmatico e moderato. Ma i suoi tentativi di consolidare il potere sono fonte di nervosismo. La diffidenza fra i laici e gli islamisti sta crescendo; le proteste socioeconomiche a volte diventano violente. I salafiti si nascondono nell’ombra e assalgono i simboli della società moderna, la libertà di parola e la parità tra i sessi.

In Yemen, il precedente presidente non ha più potere, ma non è fuori di scena. Si prepara una guerra al nord, un’altra a sud. I jihadisiti riscaldano i muscoli. I giovani ribelli che avevano sognato un cambiamento completo possono solo stare a guardare in che modo fazioni differenti della stessa vecchia élite si risistemano. I sauditi, gli iraniani, i politici del Qatar sponsorizzano le proprie fazioni. Piccoli scontri potrebbero inasprirsi in conflitti maggiori. Nel frattempo, i droni americani eliminano gli agenti di al-Qaeda e chiunque si trovi nelle vicinanze.

Giorno dopo giorno, la guerra civile in Siria assume una sfumatura più brutta e più settaria. La nazione è diventata un’arena per una guerra regionale per procura. L’opposizione è un poliedrico assortimento fra Fratelli Musulmani, salafiti, dimostranti pacifici, militanti armati, curdi, disertori, elementi tribali e combattenti stranieri. C’è poco su cui sia il regime che l’opposizione non rifletteranno nella loro disperazione al trionfo. Lo stato, la società e una cultura antica collassano. Il conflitto inghiotte la regione.

La battaglia in Siria è anche una battaglia per l’Iraq. Gli stati arabi sunniti non hanno accettato la perdita di Baghdad, diventata degli sciiti e, ai loro occhi, degli iraniani Savafidi. Un controllo sunnita in Siria riaccenderà le vicende dei loro colleghi in Iraq. I sunniti militanti in Iraq sono incoraggiati e al-Qaeda rivitalizzato. Un guerra per la riconquista dell’Iraq vedrebbe la partecipazione dei suoi vicini. La regione si preoccupa della Siria. È ossessionata dall’Iraq.

Gli islamisti nella regione aspettano il risultato in Siria. Non desiderano prendersi più di quello che possono permettersi. Se la pazienza è il primo dei principi degli islamici, il secondo è la consolidazione dei profitti. Se dovesse cadere la Siria, la successiva sarebbe la Giordania. La sua particolare demografia – a maggioranza palestinese governata da una minoranza giordana – è stato un vantaggio per il regime: le due comunità muovono grosse lamentele contro i governanti hashemiti, tuttavia hanno ancor più diffidenza l’uno dell’altro. Questo potrebbe cambiare in vista del potere unificato dell’Islam per il quale l’etnicità, in teoria almeno, è una piccola conseguenza.

Entità più deboli possono conformarsi. Nel Libano del nord, gruppi di islamici e salafiti supportano attivamente l’opposizione siriana, con i quali possono avere più cose in comune rispetto a sciiti e cristiani libanesi. Sin dall’inizio un fragile meccanismo, il Libano è bloccato da forze opposte: alcuni guardano con invidia a una nuova Siria dominata da sunniti; forse con il desiderio di aggiungersi. Altri vi guardano con spavento e preoccupazione.

In Bahrein, il tentativo della monarchia sunnita di mantenere il potere e i privilegi con la violenza reprime la maggior parte degli sciiti. L’Arabia Saudita e altri stati del Golfo arrivano in aiuto dell’alleato. L’Occidente, così forte in qualsiasi altro posto, è muto. Quando ci sono state le elezioni in Libano, agli islamisti non è andata bene; i loro oppositori credono di aver finalmente ottenuto una vittoria in una nazione che non ha una tradizione di apertura politica, manca uno stato, ed è sazio di milizie armate che regolarmente sono coinvolte in scontri mortali. Un leadership ottuagenaria in Arabia Saudita lotta con un’imminente transizione, vive nel terrore dell’Iran e del suo popolo, distribuisce con il contagocce denaro per evitare insoddisfazione. Quanto tempo può durare tutto questo?

In certe nazioni, i regimi verranno rovesciati, in altri sopravvivranno. È poco probabile che le forze che sono state sconfitte saranno definitivamente distrutte. Si ricompatteranno e cercheranno di combattere un’altra volta. L’equilibrio del potere non è un taglio preciso. La vittoria non necessariamente rafforza il vincitore.

Coloro che sono al potere occupano la poltrona dello stato, ma tutto ciò potrebbe rivelarsi di limitato valore. Intrinsecamente deboli e con scarsa legittimità, gli stati arabi tendono ad essere visti dai loro cittadini con sospetto, corpi estranei imposti dall’alto su strutture sociali e familiari profondamente radicate, con lunghe e continue tradizioni. Non godono né dell’accettabilità né dell’autorità dei loro equivalenti in qualsiasi altro posto. Quando avvengono delle rivolte, la capacità di funzionare di questi stati si indebolisce in quanto il loro potere coercitivo si erode.

Essere al potere non significa esercitarlo. In Libano, la coalizione del 14 Marzo, filo-occidentale, rinvigorita mentre era all’opposizione, è stata smontata dopo la formazione di un gabinetto nel 2005. Gli Hezbollah non sono mai stati più sulla difesa o mai hanno goduto di minor autorità morale da quando sono diventati la maggior forza dopo il governo. Quelli che sono fuori dal potere devono far fronte a poche coercizioni. Hanno il privilegio di poter denunciare gli errori di chi sta governando, la libertà che arriva dalla mancanza di responsabilità. In un Medioriente permeabile e polarizzato, godono dell’accesso a un supporto esterno facile.

Essere al potere, operare attraverso canali formali ufficiali e statali può gravare quanto può rendere più forti. La ritirata militare della Siria dal Libano nel 2005 non ne ha fermato l’influenza. Domani, un simile modello potrebbe accadere nella stessa Siria. Il collasso del regime potrebbe essere un colpo significativo per l’Iran e per gli Hezbollah, ma chi può chiedersi quanto devastante. Il giorno dopo un conflitto tanto lungo e violento rischia di diventare testimone di caos più che di stabilità, di lotta per il potere piuttosto che di un governo centrale forte. Le forze politiche escluse e sconfitte cercheranno aiuto da qualsiasi forza e solleciteranno sostenitori stranieri senza badare alla loro identità. Sfruttare il disordine è una pratica nella quale l’Iran e Hezbollah sono di gran lunga migliore rispetto ai nemici. Se il regime siriano, che comporta interessi e costrizioni da rispettare, dovesse finire, potrebbero essere in grado di agire con ancora più liberamente.

I Fratelli Musulmani prevalgono ovunque. L’appena eletto presidente egiziano viene dalle loro file. Governano in Tunisia. Controllano Gaza. Hanno vinto in Marocco. Anche in Siria e Giordania potrebbe essere arrivato il loro momento.

I Fratelli Musulmani prevalgono ovunque: quelle sono parole importanti e, non molto tempo fa, impensabili e indicibili. I Fratelli sono sopravvissuti otto anni in clandestinità e nelle trincee, sono stati perseguitati, torturati e uccisi, costretti a mettersi in pericolo e attendere il loro momento. La lotta fra islamisti e arabi nazionalisti è stata lunga, tortuosa e sanguinosa. La fine potrebbe essere vicina?

La Prima Guerra Mondiale e la conseguente ascesa imperiale europea hanno fermato quattro secoli di governo ottomano islamico. Con varie interruzioni, il prossimo secolo sarà quello del nazionalismo arabo. Per troppi, questo è stato un’importazione occidentale autentica, aliena, innaturale, una deviazione che chiede di essere rettificata. Obbligati ad aggiustare la loro visione, gli islamisti riconoscono i confini di una nazione-stato e il regolamento laico. Ma i loro modelli rimangono i leader nazionalisti e i loro successori rovinati.

Lo scorso anno, hanno aiutato a rovesciare i presidenti di Tunisia e Egitto, i chiari successori dei nazionalisti originali. Gli islamici avevano avversari più validi e pericolosi in mente. Hanno colpito Ben Ali e Mubarak, ma il loro obiettivo erano i padri fondatori – Habib Bourguiba e Gamal Abdel Nasser. Riconoscono che hanno corretto la storia. Hanno rivissuto l’era dei musulmans sans frontiéres.

Cosa significa tutto questo? Gli islamici sono riluttanti sia a condividere il potere a tutti i costi sia a sperperare tutti i profitti così pazientemente guadagnati. Devono bilanciare la loro base insofferente, una società nervosa più larga, e una incerta comunità internazionale. La tentazione di attaccare velocemente spinge in una direzione; il desiderio di ricucire gli strappi in un’altra. In generale, preferiranno evitare la coercizione, risvegliare le persone alla loro natura islamica dominante piuttosto di imporsi su di loro. Proveranno a fare tutto: governare, mettere in atto trasformazioni sociali in modo progressivo e essere veri con se stessi senza essere una minaccia per gli altri.

Gli islamisti propongono un patto. In cambio di aiuti economici e supporto politico, non minacceranno quelli che credono siano gli interessi che stanno a cuore all’Occidente: stabilità della regione, Israele, la lotta contro il terrorismo, la circolazione dell’energia. Nessun pericolo per la sicurezza dell’Occidente. Nessuna guerra commerciale. La resa dei conti con Israele può attendere. Il focus sarà sulla formazione lenta e costante della società islamica. Gli Stati Uniti e l’Europa possono dar voce alla propria preoccupazione, anche indignazione a un tale rinnovo interno. Ma lo supereranno. Come hanno superato l’austero fondamentalismo in Arabia Saudita. Un baratto – del tipo, ci prenderemo cura delle vostre esigenze, permetteteci di prenderci cura delle nostre – credono gli islamisti, sarà il trucco. Guardando la storia, chi può rimproverarli?

Mubarak è stato deposto perché era visto come eccessivamente sottomesso all’Occidente, tuttavia gli islamisti che gli sono succeduti potrebbero offrire all’Occidente un trattamento più dolce perché più sostanziale. Pensano di riuscire a cavarsela con quello che lui non è riuscito a fare. Tolto il suo mantello nazionalista, Mubarak aveva poco su cui contare; era un autocrate nudo. I Fratelli Musulmani in confronto hanno un programma molto più ampio – morale, sociale culturale. Gli islamisti sono convinti di poter ancora continuare a seguire le loro convinzioni, anche se non sono totalmente anti-occidentali. Possono moderare, diluire, differire.

Diversamente dai vicini alleati dell’Occidente che hanno sostituito, gli islamici hanno richiesto l’intervento militare della NATO in Libia ieri, in Siria oggi, ovunque possano avere la speranza di subentrare un domani. Si possono usare gli infedeli distanti, che non staranno intorno per molto tempo, per sbarazzarsi degli infedeli locali, che hanno dato loro la caccia per anni. Il rifiuto dell’interferenza estera, una volta il pezzo forte della visione post indipendentista, non è più all’ordine del giorno. È marchiato come controrivoluzionario.

Quello che gli Stati Uniti cercano di ottenere da decenni attraverso l’intromissione e l’imposizione, ora si potrebbe ottenere via tacito consenso: i regimi arabi non sfideranno gli interessi occidentali. Non c’è da stupirsi che molti nella regione sono convinti che gli americani erano complici nel sollevamento islamico, un partner calmo in quello che stava succedendo.

Ovunque, Israele deve far fronte all’ascesa degli islamici, dell’attivismo, del radicalismo. I precedenti alleati se ne sono andati; i nemici di un tempo regnano supremi. Ma gli islamisti hanno obiettivi diversi e più ampi. Sperano di promuovere il loro progetto islamista, il che significa consolidare il loro governo dove possono, trattenendosi dall’allontanare l’Occidente, evitando scontri rischiosi e precoci con Israele. In questo schema, la presenza di uno stato ebraico è e rimarrà intollerabile, ma è probabilmente l’ultimo pezzetto di un puzzle più grande che non verrà mai completato.

La ricerca per stabilire uno stato sovrano palestinese indipendente non è mai stato il fulcro del progetto islamico. Hamas, il capitolo palestinese dei Fratelli Musulmani, nutre progetti più grandi, meno confinati territorialmente ma anche meno immediatamente raggiungibili. Nonostante le perifrasi di Hamas e malgrado la sua evoluzione politica, non ha mai deviato davvero dalla sua visione originale – lo stato ebraico è illegittimo e tutto il territorio della storica Palestina è naturalmente islamico. Se l’attuale equilibrio di potere non è a tuo favore, aspetta e fai quello che puoi per curare la disparità. Il resto è tattica.

La questione palestinese è stata la salvaguardia del movimento nazionale palestinese. Dalla fine degli anni ‘80, obiettivo dichiarato è diventare uno stato sovrano in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme dell’est. Tutte le alternative, anche se temporanee, sono state rifiutate con decisione. Il piano degli islamici può essere più ambizioso e grandioso, ma più flessibile ed elastico. Per loro, non vale la pena combattere per uno stato piccolo e amputato, circondato da Israele, che dalla sua benevolenza,  fondato sul suo riconoscimento e che implica una fine del conflitto.

Possono vivere con un insieme di accordi: un accordo temporaneo, una tregua a lungo termine, o una hudna, una possibile confederazione della Cisgiordania con i giordani, con Gaza che si sposta verso l’Egitto. Il tutto porterà a un’ulteriore processo di islamizzazione della società palestinese. Tutto per permettere a Hamas di ritornare alla sua agenda sociale, culturale, religiosa, la sua vera chiamata. Tutto per permettere a Hamas di mantenere il conflitto con Israele senza dover intraprenderlo. Nessuno viola i dogmi che stanno a cuore a Hamas. Possono lasciare l’obiettivo finale in sospeso. Un giorno, il tempo per la Palestina e per Gerusalemme arriverà. Non ora.

Nell’era degli islamici arabi, è probabile che Israele trovi l’intransigente pretesa di Hamas più malleabile della moderazione ostentata da Fatah. Israele teme il risveglio islamico. Ma la minaccia più imminente potrebbe essere per il movimento nazionale palestinese. Non c’è più energia nel progetto di indipendenza associato con le vecchie politiche e da tempo consumate leadership, si è consumato. Fatah e l’OLP non avranno un posto nel nuovo mondo. La soluzione dei due Stati non è una delle principali preoccupazioni. Potrebbe perire non per la violenza, le colonie, o il ruolo inesperto degli americani. Potrebbe perire per indifferenza.

Un’era islamica che riprenda dove avevano lasciato l’Impero Ottomano e il blocco dell’interludio nazionalista è lontana dall’essere predisposta. I Fratelli sono largamente ascesi  in opposizione perché sono rimasti segreti, hanno dimostrato pazienza, e assicurato obbedienza interna. Hanno costruito influenza attraverso anni di calmo lavoro e lotta. Una volta che gli islamici competono per il potere, molti delle loro attività sono obsolete. Devono muoversi con franchezza perché i politici sono più trasparenti, aggiustarsi velocemente a causa del rapido cambiamento e far fronte alla diversità all’interno delle proprie file perché il sistema sta diventando plurale.

Gli islamici al governo in Tunisia devono prendere una decisione riguardo al posto dell’Islam nella nuova costituzione; se optano per un esito più moderato, faranno infuriare i salafiti, falliranno nel rassicurare i non islamici e confonderanno innumerevoli dei loro. I Fratelli Musulmani d’Egitto devono far fronte ad attacchi dai laici per iniettare troppa religione nella vita pubblica e dai salafiti per iniettarne troppo poca. I membri si sono spaccati per unirsi a espressioni più moderate dell’islamismo e più rigorose. L’enfasi dei Fratelli Musulmani su un economia di mercato libera e sulla classe media non favorisce  la parte più debole della società.

Il nuovo linguaggio islamico, per quanto enfatizzi la libertà, la democrazia, le elezioni e i diritti umani guadagna l’elogio dell’Occidente, ma scetticismo dai critici. Queste potrebbero essere  solo parole, ma le parole possono contare; possono portare avanti una vita propria, obbligano a cambiamenti politici, rendono difficile tirarsi indietro. A questo punto, i Fratelli possono diventare il partito che dicono di essere, e poi cosa rimarrà del loro islamismo? O può rimanere come movimento che è stato, e allora cosa rimarrà del suo pragmatismo? Storicamente un’organizzazione transnazionale strettamente rigida, i Fratelli non parlano più con una sola voce dentro una nazione, ma anche attraverso i confini. Siccome il potere richiama, ogni sezione ha priorità politiche e preoccupazioni diverse, spesso i competizione.

Gli islamisti devono anche affrontare il dilemma della politica estera. I nuovi atteggiamenti dell’Egitto, il suo tentativo per una diplomazia più indipendente, potrebbero metterli in conflitto con l’Occidente. La sua apparente decisione di sospendere le sue posizioni anti-occidentali e anti-Israele rischiano di alienare il suo pubblico. Molti egiziani desiderano più di un Mubarak abbellito con versi coranici.

Gli islamisti hanno prosperato all’opposizione perché potevano incolpare gli altri; potrebbero soffrire al potere perché gli altri li incolperanno. Diluita la loro agenda domestica e straniera e possono ben perdere la loro base, inseguirli e allontanare i non islamici e l’Occidente. Posticipare la lotta contro Israele, e la loro retorica sembrerà disconnessa dalla loro politica; intraprenderla, e la loro politica sembrerà pericolosa ai nuovi alleati dell’Occidente. Se spiegano che la moderazione è tattica, si espongono troppo, stare in silenzio e confonderanno la base. Ci sono così tante contraddizioni che possono simultaneamente vacillare in questo atto per l’equilibrio dell’Olimpo. Il potere dell’Islam politico è scosso principalmente dal non esercitarlo. Il suo recente successo potrebbe segnare la vigilia del suo declino. Quanto era più semplice la vita sull’altro lato.

Tra caos e incertezza, solo gli islamisti  offrono una visione autentica e familiare per il futuro. Potranno fallire o vacillare, ma chi prenderà il posto? Le forze liberali hanno una debole discendenza, un supporto popolare minimo e quasi nessun peso nell’organizzazione. I rimanenti del vecchio regime hanno familiarità con i modi del potere che sembrano prosciugati e esausti. Se l’instabilità si diffonde, se aumenta l’angoscia per l’economia, potrebbero beneficiare di un’ondata di nostalgia.

Tutto ciò porta a un assortimento di nazionalisti, anti imperialisti, vecchi di sinistra e nasseriani. La loro era l’unica ideologia legittima nel mondo arabo, invocata da quelli che hanno combattuto il colonialismo e da quelli che hanno preso il posto dei poteri coloniali. Idee simili sono state invocate anche, involontariamente, ma indubbiamente, dai dimostranti e protestanti degli ultimi mesi passati che parlavano di dignità, indipendenza e giustizia sociale, e così hanno preso in prestito dalla stesso lessico ideologico di quegli stessi che hanno alla fine cacciato.

Questa visione non islamica progressista ha radici, attrazione e persone in prima linea; manca di organizzazione e risorse e ha sofferto per essere stata così a fondo macchiata e corrotta per generazioni che hanno governato nel loro nome. Possono reinventarsi? Se i Fratelli Musulmani minimizzano i sentimenti nazionalisti delle persone, se ignorano la loro aspirazione alla giustizia sociale, se falliscono nel governare in modo efficiente, potrebbe sorgere un’apertura. Una visione del mondo più nazionalista e progressista potrebbe ancora inscenare un ritorno.

Un video fa il giro del mondo. Nasser delizia la folla con la storia del suo incontro con l’allora capo dei Fratelli Musulmani, che gli avevano chiesto di costringere le donne a indossare il velo. Il leader egiziano risponde: tua figlia indossa il velo? No. Se non puoi controllare lei, come puoi pretendere che io controlli dieci milioni di donne egiziane? Ride e la folla ride con lui. Sono i primi anni ‘50, quasi mezzo secolo fa. Oggi si prova nostalgia per un tale sense of humor e bravata. La storia non va avanti.

È stato l’ultimo secolo una aberrante deviazione dalla traiettoria inerente all’Islam del mondo arabo? È la rinascita islamica un effimero e anomalo ritorno a un lungo e antiquato passato?

Qual è la deviazione, qual è la via naturale?

Traduzione per InfoPal a cura di Daniela Sala

Fonte: http://www.nybooks.com/articles/archives/2012/nov/08/not-revolution/?pagination=false