MEMO. Di Ramzy Baroud. L’accordo di riconciliazione sottoscritto al Cairo il 12 ottobre scorso dai due partiti palestinesi avversari, Hamas e Fatah, non è stato un accordo di unità nazionale – o almeno, non lo è ancora. Perché si possa concretizzare questa unità, l’accordo dovrebbe rendere prioritari gli interessi del popolo palestinese, prima dei problemi tra le due fazioni.
La crisi delle leadership palestinesi non è cosa nuova. Accompagna Fatah e Hamas ormai da decenni.
Fin dalla distruzione della Palestina e dalla creazione di Israele nel 1948 – ed ancora prima – i Palestinesi si sono ritrovati a dipendere dai giochi di potere internazionali e nazionali, senza nessuna possibilità di poterli controllare o anche solo influenzare.
Il maggior successo di Yasser Arafat, il defunto e rappresentativo leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), è stato la sua capacità di adottare una identità politica palestinese indipendente ed un movimento nazionale che, sebbene col supporto dei paesi arabi, non era proprietà di nessun paese arabo in particolare.
Gli Accordi di Oslo, però, hanno rappresentato la fine per quel movimento. Gli storici potrebbero discutere sul fatto se Arafat, l’OLP ed il suo maggior partito politico, Fatah, avessero avuto altre possibilità oltre a quella di impegnarsi nel cosiddetto “processo di pace”. Tuttavia, ripensandoci, possiamo affermare senza alcun dubbio che Oslo è stato solo un rapido annullamento di tutti i risultati politici fino ad allora ottenuti dai Palestinesi, o almeno dalla guerra del 1967.
Nonostante la clamorosa sconfitta dei paesi arabi da parte di Israele e dei suoi potenti alleati occidentali in quella guerra, era nata la speranza di un nuovo inizio. Israele reclamava Gerusalemme Est, la Cisgiordania e Gaza, ma aveva anche involontariamente riunificato i Palestinesi in un’unica nazione, nonostante fossero oppressi e subissero l’occupazione.
Per di più, le profonde ferite subite dai paesi arabi dovute a quella guerra disastrosa, avevano dato l’opportunità ad Arafat e a Fatah di utilizzare nuovi margini di manovra che si erano aperti come risultato della ritirata degli arabi.
L’OLP, che era originariamente comandata dal defunto presidente egiziano Jamal Abdul Nasser, divenne una organizzazione esclusivamente palestinese. Fatah, che era stato costituito alcuni anni prima della guerra, fu il partito incaricato.
Quando Israele occupò il Libano nel 1982, aveva come scopo l’annientamento del movimento nazionale palestinese, soprattutto da quando Arafat aveva dato il via a nuovi canali di dialogo, non soltanto con i paesi arabi e musulmani, ma anche a livello internazionale. Tra le varie istituzioni a livello globale, le Nazioni Unite iniziarono a riconoscere la Palestina non soltanto come un gruppo di sfortunati rifugiati che necessitavano di aiuto, ma come un serio movimento nazionale che meritava di essere ascoltato e rispettato.
All’epoca, Israele era impegnato ossessivamente nell’impedire ad Arafat di trasformare l’OLP in un nuovo governo. Ed in effetti, in breve tempo Israele raggiunse il suo obiettivo principale: Arafat fu condotto in Tunisia con la leadership del suo partito, ed il resto dei combattenti dell’OLP vennero sparpagliati in tutto il Medio Oriente, cadendo ancora una volta ostaggio dei capricci e delle priorità degli arabi.
Tra il 1982 e la firma degli Accordi di Oslo del 1993, Arafat aveva lottato per ottenere una maggiore rilevanza politica. L’esilio dell’OLP divenne particolarmente evidente quando i Palestinesi lanciarono la loro Prima Intifada (la rivolta del 1987). Una intera nuova generazione di leader palestinesi cominciò ad emergere; venne forgiata una nuova identità, iniziata nelle carceri israeliane e nutrita nelle strade di Gaza e di Nablus. Più grandi furono i sacrifici e l’aumento del numero di morti palestinesi, e più si sviluppò e si innalzò il senso di identità collettiva.
Il tentativo da parte dell’OLP di dirottare l’Intifada fu una delle ragioni principali per cui la rivolta alla fine si indebolì. I colloqui di Madrid del 1991 furono i primi nei quali dei veri rappresentanti del popolo palestinese dei Territori Occupati utilizzarono un luogo internazionale per parlare a nome dei Palestinesi rimasti a casa.
Questo impegno ebbe però vita breve. Alla fine Arafat e Mahmoud Abbas (l’attuale leader dell’Autorità Palestinese) negoziarono un accordo alternativo in segreto ad Oslo. L’accordo metteva ampiamente da parte il ruolo delle Nazioni Unite e permetteva agli Stati Uniti di rivendicare appieno la sua posizione, auto-proclamandosi “onesto intermediario” in un “processo di pace” sponsorizzato dagli USA stessi.
In seguito, mentre Arafat e la sua fazione tunisina vennero autorizzati nuovamente a governare i Palestinesi sotto occupazione con un mandato limitato fornito dal governo militare israeliano, la società palestinese cadde in uno dei suoi dilemmi più dolorosi.
Con l’OLP, che rappresentava i Palestinesi, messa da parte per far posto all’Autorità Palestinese – che rappresentava solamente gli interessi di una piccola parte all’interno di Fatah, in una regione autonoma limitata – i Palestinesi si divisero in vari gruppi.
Infatti, il 1994, l’anno che vide la creazione ufficiale dell’ANP, fu l’anno nel quale nacque l’attuale conflitto palestinese. L’ANP, pressata da Israele e dagli USA, cominciò a reprimere quei Palestinesi che si opponevano ad Oslo e che legittimamente rifiutavano il “processo di pace”.
Il giro di vite colpì molti Palestinesi che avevano posizioni nella leadership durante la Prima Intifada. Il tranello israeliano aveva lavorato alla perfezione: la leadership palestinese in esilio fu fatta rientrare per reprimere quella della Intifada, mentre Israele rimaneva in disparte ad osservare questo triste spettacolo.
Hamas, esso stesso una novità scaturita dalla Prima Intifada, si dovette confrontare direttamente con Arafat e la sua autorità. Per anni, Hamas ebbe il ruolo di leader dell’opposizione che rifiutava la normalizzazione con l’occupazione israeliana. Ciò portò Hamas a guadagnare molta popolarità tra i Palestinesi, soprattutto non appena divenne chiaro che Oslo era stato uno stratagemma e che il “processo di pace” si stava avviando verso un punto morto.
Quando Arafat morì, dopo aver trascorso molti anni sotto assedio militare israeliano a Ramallah, Abbas assunse il potere. Considerando che Abbas era stata la mente ideatrice dietro agli Accordi di Oslo, e vista la mancanza di carisma e di capacità da leader di quest’uomo, Hamas fece il primo passo verso una manovra politica che si è poi rivelata costosa: partecipò alle elezioni legislative della ANP nel 2006. E, cosa ancor peggiore, le vinse.
Risultando come primo partito politico in una elezione, che era di per se stesso il risultato di un processo politico che Hamas aveva respinto con veemenza per anni, Hamas divenne vittima del suo stesso successo.
Come previsto, Israele si mosse immediatamente per punire i Palestinesi. A seguito delle sollecitazioni e delle pressioni degli USA, l’Europa li seguì subito dopo. Il governo di Hamas venne boicottato, Gaza subì costanti bombardamenti israeliani e le riserve palestinesi cominciarono a prosciugarsi.
Ne seguì una breve guerra civile tra Hamas e Fatah nell’estate del 2007 che causò centinaia di morti e la divisione politica ed amministrativa di Gaza dalla Cisgiordania.
Ufficialmente avevano quindi ora due governi, ma nessuno stato. Si trattava di una vera e propria beffa che un progetto di liberazione nazionale promettente avesse abbandonato il discorso della liberazione per dedicarsi a risolvere problemi di faziosità, mentre milioni di Palestinesi soffrivano a causa dell’assedio e dell’occupazione militare, e mentre altri milioni soffrivano l’angoscia e l’umiliazione dello shattat – l’esilio all’estero dei rifugiati.
Negli ultimi 10 anni molti tentativi sono stati compiuti volti alla riconciliazione, fallendo però, tra i due gruppi. Sono falliti principalmente perché, ancora una volta, le leadership palestinesi hanno delegato il loro processo decisionale ai poteri regionali ed internazionali. L’età dorata dell’OLP è stata rimpiazzata dagli anni bui delle divisioni faziose.
Tuttavia, il recente accordo di riconciliazione del Cairo non è il risultato di un nuovo impegno per un progetto nazionale palestinese. Sia Hamas che Fatah non hanno più altre possibilità. Il loro populismo regionale è stato un fallimento ed il loro programma politico non impressiona più i Palestinesi che si sentono ora orfani ed abbandonati.
Perché la unità di Hamas e Fatah diventi una reale unità nazionale, le priorità devono completamente cambiare, mentre gli interessi del popolo palestinese – di tutti ed in ogni luogo – dovrebbero, ancora una volta, divenire fondamentali, al di sopra degli interessi di una o più fazioni, in cerca soltanto di legittimità limitata, falsa sovranità ed aiuti americani.
Traduzione di Aisha Tiziana Bravi