La prima rassegna di cortometraggi sulla Palestina, aperta a Venezia lo scorso 27 settembre, invita il pubblico a conoscere la realtà del popolo palestinese al di là delle rappresentazioni fornite dai media mainistream. 75 opere le pre-selezionate. Prossime tappe in Italia: Bologna, Roma e Napoli.
Di Cristina Micalusi.
Non c’è stato red carpet, né vestiti e paillettes da lustrare, ma c’è stato amore e condivisione al “Nazra Palestine short film festival” la prima rassegna di cortometraggi palestinesi e non solo. Una tre giorni cominciata a Venezia che percorrerà un po’ la Penisola; fino al primo ottobre a Firenze, per poi toccare Bologna, Roma, Napoli ma che viaggerà oltre confine approdando in Palestina per concludersi a Gaza.
Nazra che in arabo significa sguardo ma anche discernimento, osservazione e riflessione, richiama il pubblico proprio a discernere la realtà del popolo palestinese dalle mezze verità dei media mainstream; e a riflettere in serate cariche di emozioni e di tensione. Non è un caso che questo festival sia partito dalla casa del cinema di Venezia, molto importante per la cultura veneziana, poco distante dalla chiusura di quello “del leone d’oro”.
A far parte di questa rassegna non sono solo palestinesi ma chi parla della causa di questo popolo dentro e fuori la Palestina, ci sono lavori che coinvolgono scuole, centri di recitazione e persone comuni che si riconoscono nell’essere umano e che vogliono restare tali.
C’è la volontà di parlare di Palestina di tutti i giorni, rompendo il muro di omertà che la propaganda di Israele ha innalzato: non si deve parlare di palestinesi, solo quando feriscono o uccidono soldati israeliani. Allora questo muro può venire giù mostrando la vita e la voglia di vivere nonostante la cruenta occupazione.
In fondo, come insegna anche Moni Ovadia, ospite speciale del festival, il dio del popolo ebraico esorta a fare del bene, rivendicare la giustizia e combattere al fianco dell’oppresso; e chi altri è più oppresso e perseguitato oggi del popolo palestinese?
Delle 75 opere pre-selezionate, 24 sono i finalisti che torneranno “nella terra più amata”. I temi affrontati sono diversi ma tutti confluiscono a raccontare il vissuto quotidiano dei palestinesi. C’è chi si sofferma sui prigionieri politici, chi sul brutale attacco che subì la Striscia di Gaza nel 2014, in particolare nel quartiere di Shujayya, c’è il tema dei refusnik , dei cittadini/e israeliane che rifiutano la leva obbligatoria, c’è la diaspora e la deportazione con immagini a volte troppo forti da sembrare realtà.
Poi ci sono lavori più leggeri e spensierati che fanno riflettere su chi sono i palestinesi e su cosa vogliono essere, così vengono rappresentati giovani che praticano il parkour o l’hip-hop come qualsiasi ragazzo/a di ogni parte del mondo.
Lo spettatore farà un duplice viaggio: uno attraverso i territori, i colori e i sorrisi di questo popolo e un secondo, più importante, attraverso i temi dell’ingiustizia, dei soprusi ma anche delle speranze che stanno al di là dello sguardo. Ecco allora che la pietra del ragazzo che combatte contro l’occupazione diventa una palla per giocare a calcio su cui disegnare l’occhio che non può fermarsi davanti al muro di separazione e ai check-point.
Ecco allora lo sguardo tramutarsi in riflessione e discernimento, capire anche che questi giovani artisti non sono solo vittime da premiare in quanto tali ma capaci di raccontare la loro realtà. E la riflessione diverrà anche cura attenzione e riguardo rispetto ai soprusi e alla violenza perpetrati al popolo palestinese, perché come sosteneva il nostro Vittorio Arrigoni “…la Palestina può trovarsi dietro l’uscio di casa”.
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