Rassegna stampa ‘cultura e attualità’.

Rassegna stampa “Cultura e attualità”.

A cura di Chiara Purgato.

http://www.scrittinediti.it/blog/

A VOLTE CAPITA DI DORMIRE…Reportage dalla Palestina

di A. Z.
per Operazione Colomba

A VOLTE CAPITA DI DORMIRE…
…se l’occupazione non ti toglie anche il sonno nelle South Hebron Hills.

A volte capita di dormire, più spesso di rimanere svegli a lasciarsi tormentare dai rumori della notte, cani che abbaiano, asini che ragliano, mentre i pensieri e le immagini assorbite durante il giorno cominciano ad affollarsi, il sonno si allontana e nonostante la stanchezza diventa impossibile dormire.
At Tuwani, il villaggio palestinese in cui vivo da 5 mesi, se ne sta ostinatamente aggrappato a una delle tante colline delle South Hebron Hills, la zona più a sud della Cisgiordania, proprio a pochi chilometri di distanza dalla Green Line, invisibile linea di confine fra Israele e un quanto mai improbabile, almeno per il momento, futuro stato palestinese. Dopo che il villaggio venne evacuato per la prima volta dai militari israeliani nel 1999 con l’intenzione di ricavarci una base militare, gli abitanti di At Tuwani (oggi circa 300 persone), guidati da Hafez Hereini, attivista e leader carismatico del villaggio, si sono organizzati e hanno iniziato una lotta nonviolenta per resistere (e sopravvivere) all’occupazione militare israeliana e ai continui soprusi da parte dei coloni del vicinissimo insediamento di Ma’on (nato agli inizi degli anni 80) e dell’avamposto di Havat Ma’on (nato intorno agli anni 90 e illegale tanto per la legge internazionale quanto per quella israeliana).
Marce e manifestazioni pacifiche, training sulla nonviolenza rivolti a uomini, donne e bambini, presenza fissa di internazionali che condividono quotidianamente la vita del villaggio (365 giorni all’anno dal 2004), delegazioni da tutto il mondo in visita, contatti costanti con i media nazionali e internazionali, hanno fatto di At Tuwani, nel corso degli anni, la roccaforte della Resistenza nonviolenta palestinese nelle South Hebron Hills e il punto di riferimento per tutti i villaggi della zona, nonché per le associazioni e le organizzazioni nazionali ed internazionali che si occupano dei diritti umani e delle problematiche legate al conflitto.

Parte della popolazione delle South Hebron Hills vive in quest’area da molte generazioni, parte è stata costretta a trasferirsi qui, come profuga, in seguito alla nascita dello stato di Israele, nel 1948. Le persone che vivono in quest’area sono dedite soprattutto alla pastorizia e in parte all’agricoltura: molti abitano in grotte o in tende e hanno uno stile di vita sobrio ed essenziale, legato esclusivamente all’accesso alla terra (la propria) e, ovviamente, alla possibilità di lavorarla o anche solo di “calpestarla” per pascolarvi le greggi.
Impresa da poco, questa, probabilmente in qualsiasi altra parte del mondo, ma di certo non qui. Non qui in area C, dove dal 1993, secondo quanto stabilito dagli accordi di Oslo, tutte le terre sono sottoposte al controllo militare e amministrativo israeliano, dunque ai “capricci” dell’esercito e agli ordini che esso esegue per assecondare la politica di occupazione del governo israeliano.
Non qui ad At Tuwani, dove dagli anni 80 la terra è stata, e continua ad essere, contesa, occupata, rubata e violata dai coloni dell’insediamento di Ma’on che, nonostante si faccia un gran blaterare di “congelamento degli insediamenti”, continuano ad espandere indisturbati le loro case sulla collina di fronte al villaggio, come avvoltoi in attesa che la preda si arrenda al suo destino.
Non si riesce a prendere sonno nelle South Hebron Hills quando restano appiccicate agli occhi le sagome dei coloni di Havat Ma’on che si aggirano per le colline, armati e mascherati (un po’ per intimidire, un po’ per nascondersi alle telecamere degli internazionali), pronti ad aggredire e a terrorizzare i bambini palestinesi che si muovono fra le colline, a piedi o a dorso di mulo, magari semplicemente per andare a scuola. Non gente qualunque, questi signori dalle camice scozzesi e i cernecchi lunghi fino alle spalle a incorniciarne le barbe, ma fanatici nazionalisti e ultra religiosi spinti da una fortissima motivazione ideologica a riappropriarsi dell’antica terra d’Israele e a ripopolarla. Disposti con ogni mezzo a inseguire il loro sogno, questi coloni rappresentano un problema serio anche per lo stato di Israele (alcuni di loro fanno capo ad una organizzazione terroristica israeliana che nel 2002 ha tentato di far esplodere una scuola palestinese di Gerusalemme), ma allo stesso tempo proprio per la cecità e l’aggressività con cui perseguono i loro obiettivi di espansione tornano utili alla sua politica di occupazione: specialmente se in Cisgiordania, in area C, lontani da Tel Aviv e da Gerusalemme, in altre parole lontani dai riflettori dell’opinione pubblica nazionale e dei media internazionali. Tanto più che Israele non ha rinunciato affatto a fare dell’area una base militare e, fregandosene dei numerosi villaggi palestinesi che la popolano, o forse a maggior ragione proprio per questo, continua ad autorizzare esercitazioni militari di elicotteri da guerra e di soldati che, di notte, in tenuta mimetica, le facce pitturate di nero e armati fino ai denti, si aggirano fra le colline delle South Hebron Hills terrorizzando la popolazione locale.
Come volontaria di Operazione Colomba -il corpo nonviolento di pace che si occupa di monitorare l’area, denunciare le violazioni dei diritti umani e magari abbassare il livello della violenza- non nascondo che ad assistere quotidianamente alla “messa in scena della guerra” fra villaggi di pastori e greggi di pecore belanti, a lungo andare ne viene fuori una sensazione di assurdità tale che, se non fosse per il fatto che tutto questo accade davvero, è realtà e non finzione, ogni giornata sfocerebbe nella più grottesca delle commedie.
Ma purtroppo non è così, il teatro dell’assurdo messo in scena dai coloni e dai soldati israeliani rovina ogni giorno la vita di centinaia di persone, adulti e bambini, che a causa delle continue violenze fisiche, e soprattutto psicologiche, a cui sono sottoposte, vedono drasticamente peggiorare le proprie condizioni di vita (peraltro già difficili considerati il territorio, la scarsità d’acqua e le difficoltà di movimento a cui l’occupazione li costringe).

Nelle South Hebron Hills aggressioni, attacchi, violenze e sopraffazioni da parte dell’esercito e dei coloni israeliani si sono sempre registrate nel corso degli anni, ma dal gennaio di quest’anno qualcosa è cambiato e la situazione sta decisamente peggiorando. Fino agli ultimi mesi del 2009 i militari si limitavano per lo più a scacciare e a intimidire i pastori raggiungendoli con le loro jeep e osservandoli andarsene dalla cima delle colline; quelli addetti alla scorta militare dei bambini palestinesi (diretti alla scuola di At Tuwani dai villaggi di Tuba e di Maghayr Al Abeed e costretti a passare attraverso l’insediamento e l’avamposto per raggiungere il villaggio) certo spesso arrivavano in ritardo, non sempre camminavano al fianco dei bambini (come stabilito per legge dal Parlamento israeliano) ma ad ogni modo, più o meno bene, portavano a termine il loro compito e gli attacchi dei coloni, almeno quelli gravi, per quanto “sufficienti”, si verificavano in maniera saltuaria o comunque non costante.
Ma da gennaio 2010 qualcosa è cambiato e tutta la situazione è velocemente precipitata in una escalation di aggressioni a danno dei palestinesi. Il livello della violenza si è alzato e non passa più un giorno in cui non si verifichino attacchi da parte dei militari o dei coloni israeliani. La politica di occupazione si è come inasprita e ha accelerato il suo passo, grazie anche all’appoggio che, in questo momento, i militari stanno palesemente offrendo ai coloni di Ma’on nell’assecondare e nel supportare la loro “politica del terrore” e l’espansione dell’insediamento. Nuove case stanno spuntando un po’ ovunque, specialmente nel bosco di Havat Ma’on, in posizioni sempre più esterne al cuore dell’avamposto e vicine al villaggio. Come diretta conseguenza gli attacchi dei coloni si sono moltiplicati, non solo a danno delle persone che frequentano le colline attorno all’insediamento per pascolarvi le greggi o per passare da una valle all’altra, ma anche a danno degli abitanti del villaggio stesso: piogge di pietre si sono abbattute su alcune case di At-Tuwani, spesso di notte, ma a volte anche di giorno, con il consenso complice dei soldati che per “risolvere” la situazione di tensione hanno lanciato gas lacrimogeni e bombe sonore contro la popolazione palestinese, accorsa sul posto per vedere cosa stesse accadendo. Inoltre, in più di una occasione, una decina di coloni sono entrati nel villaggio “scortati” dai militari, cosa mai accaduta prima; in un caso, addirittura, adducendo come scusa il furto di alcune pecore che, con la più assoluta noncuranza della proprietà privata, essi sono entrati direttamente a cercare nelle case dei palestinesi.
Anche i soldati dal canto loro hanno moltiplicato le aggressioni fisiche e gli abusi di potere nei confronti della popolazione: pastori inseguiti, trattenuti e sempre più di frequente arrestati, per un paio di giorni o poco più, senza che gli vengano mosse accuse precise e senza che venga data loro la possibilità di parlare con i propri avvocati o anche solo con i propri famigliari per informarli sul luogo di detenzione, sono ormai quasi all’ordine del giorno. Atti intimidatori e prepotenze che mirano a sfinire psicologicamente la popolazione palestinese e a indurla ad abbandonare l’area, senza che peraltro, in questo periodo, vengano fatte distinzioni fra adulti e minori. Come la mattina del 6 marzo, quando tre bambini di 13 anni, dopo essere stati trattenuti dai soldati per una ventina di minuti in ginocchio, sono stati caricati su una jeep e portati via per mezz’ora, perché sorpresi a raccogliere delle erbe di campo in una valle “troppo vicina” all’insediamento di Ma’on. Si tratta fra l’altro degli stessi soldati israeliani che, al mattino presto e all’uscita da scuola, avrebbero il compito di scortare i bambini palestinesi (di Tuba e di Maghar Al Abeed) attraverso l’insediamento, ma che spesso non si presentano o arrivano in ritardo di ore, esponendo così i bambini agli attacchi dei coloni. E soldati che, anche quando arrivano, in ogni caso, scortano i bambini solo per una parte del tragitto stabilito per legge dal Parlamento israeliano, senza camminare al loro fianco e addirittura in diversi casi forzandoli a correre a suon di clacson e intimidendoli con l’altoparlante. Infine, come se non bastassero i pensieri e le immagini accumulati durante il giorno a creare uno stato di allerta permanente, nell’anno nuovo, a turbare il sonno, e soprattutto i sogni di At-Tuwani si sono verificati anche diversi raid notturni dei militari. Uomini a bordo di alcune jeep, in assetto di guerra e coi fucili puntati, in almeno tre occasioni, hanno svegliato tutto il villaggio e solo per consegnare a qualcuno una convocazione alla centrale di polizia, un ordine di demolizione o qualche altro cavillo burocratico. All’una di notte. In assetto di guerra e in un villaggio dove alle nove di sera si va dormire, perché qui in area C anche avere l’elettricità è proibito ai palestinesi e la luce c’è solo grazie a un generatore a benzina, che funziona per un paio d’ore la sera.

Di certo l’aumento della tensione che stiamo riscontrando nelle South Hebron Hills non è un fenomeno isolato ed estraneo al resto degli eventi che stanno succedendo da gennaio nel paese e che vanno ricondotti alla logica della politica di occupazione e di oppressione che lo stato di Israele porta avanti indisturbato, senza peraltro che gli appelli e le denunce della comunità internazionale (almeno di quella parte che ancora, quando passa davanti al muro, alto quasi 9 metri, che separa e opprime la popolazione della Cisgiordania, non abbassa gli occhi e finge di non vedere), incidano minimamente in quelle che Israele considera questioni di sicurezza interna. Già a novembre dell’anno passato erano scoppiati i primi disordini a Gerusalemme, quando alcune scuole rabbiniche avevano esortato i coloni a riprendersi la spianata delle moschee (luogo in cui sarebbero prima sorti e poi stati distrutti i due templi cari alla tradizione e alla religione ebraica). Immediata, ovviamente, la reazione di centinaia di palestinesi che, per diversi giorni, si sono asserragliati dentro la moschea di Al-Aqsa (secondo luogo sacro all’islam dopo la Mecca) per proteggerla dagli israeliani. A queste prime provocazioni, che comunque hanno creato disordini per più di un mese, con check point volanti all’ingresso della Città Vecchia che impedivano l’accesso ai palestinesi maschi, e con i coloni israeliani che ogni tanto cercavano di “dare l’assalto” alla spianata delle moschee, ha poi fatto seguito, a febbraio, la geniale idea del presidente israeliano Benjamin Netanyahu di annoverare fra i patrimoni artistici e storici israeliani due dei siti religiosi più cari all’islam: la tomba di Rachele a Betlemme e la Moschea Al-Ibrahimi a Hebron, terzo luogo sacro all’islam (dopo la Mecca e la moschea di Al-Aqsa) e già sotto occupazione da quando, nel 1994, Baruch Goldstein -un estremista religioso israeliano- entrò nella moschea armato di M-16 e uccise 29 palestinesi durante la preghiera del pomeriggio. Conseguenza assurda di questo tragico episodio fu la divisione della moschea in due parti e la trasformazione di una metà dell’edificio in sinagoga, con due ingressi separati e un check point militare israeliano fisso a controllarne le entrate, fra l’altro a Hebron, in area A, ossia in una zona che, sempre secondo gli accordi di Oslo del 1993, dovrebbe essere sotto totale controllo amministrativo e militare dell’autorità nazionale palestinese e, dunque, preclusa agli israeliani. Ma le contraddizioni, o la molteplicità delle possibili interpretazioni, fanno parte di questa terra travagliata e così, mentre qualcuno sdrammatizza sostenendo che si tratta solo di una valorizzazione storica e artistica di alcuni luoghi cari a entrambe le religioni, il sospetto e la paura -più che fondate- che si tratti dell’ennesimo trucco di Israele per continuare ad occupare la terra e l’identità del popolo palestinese si fanno largo fra la gente, scaldano gli animi, stanchi di questo continuo stillicidio, e spingono l’esponente di spicco di Hamas, a Gaza, a chiamare alla terza intifada il popolo palestinese, mentre la comunità internazionale resta a guardare, ovviamente “scandalizzata”.

Il villaggio di At Tuwani fortunatamente si trova in una posizione geografica che, assieme al resto dell’area, lo pone al di fuori dei centri nevralgici della politica palestinese e dei giochi di potere in cui spesso si decidono e organizzano le forme più estreme di resistenza all’occupazione, ma non così lontano tuttavia dal resto della Cisgiordania per non essere al corrente di cosa accada nel paese e non assorbirne gli umori, e i malumori, che lo attraversano. Sapere che Israele sta stringendo la sua morsa, dopo il disastro di Gaza, oltre che sulla Striscia, anche su tutti i luoghi di maggiore importanza per il popolo palestinese da un punto di vista religioso e identitario (fra cui anche Gerusalemme Est) significa fiaccare la capacità di sopportazione di un intero popolo, significa umiliarne l’identità e la dignità, significa annientarne le speranze e i sogni.
Non solo, significa anche che quando ad At-Tuwani, o in qualsiasi altra parte della Cisgiordania si subisce una violenza da parte dei coloni o dell’esercito, questa “pesa doppio”, fa ancora più male, e il senso di oppressione e di ingiustizia che ne emergono possono arrivare ad oscurare il buon senso e la tenacia delle persone e, soprattutto, la profonda consapevolezza che i palestinesi di quest’area hanno che, qui, un cedimento alla violenza, al farsi giustizia da sé, magari anche solo ricambiando il torto con il lancio di una pietra, può significare fornire a Israele su un piatto d’argento il pretesto per spazzare via tutto. La resistenza nonviolenta è stata una scelta ben precisa che il villaggio di At-Tuwani ha fatto molto tempo fa, prima che arrivassero gli ajaaneb (gli internazionali) a supportarla con la loro presenza, nella convinzione che questa fosse l’unica vera forza da contrapporre alla violenza e agli abusi dell’occupazione israeliana e l’unica, soprattutto, in grado di fare in modo che il diritto dei palestinesi di continuare a vivere nell’area fosse rivendicato e supportato attraverso la legalità, attraverso la giustizia, in un angolo di mondo dove di sicuro la giustizia non è uguale per tutti. Questo è stato possibile perché la speranza non ha mai abbandonato la gente delle South Hebron Hills e gli anni di lotte e di successi ottenuti hanno dimostrato che la loro strategia, nonostante le sofferenze, è stata quella vincente (in un contesto dove la posta in gioco è la sopravvivenza e l’esistenza stessa delle comunità palestinesi). In questi mesi cupi la gente di At-Tuwani non ha smesso di credere nella resistenza nonviolenta, nonostante questa venga messa ogni giorno veramente a dura prova dagli eventi e la pressione da sopportare sia enorme. Noi volontari di Operazione Colomba, in questa situazione di allerta e di emergenza mai vissute prima, restiamo vicini alle persone, apprendiamo dai palestinesi -che sotto occupazione ci sono nati- il coraggio e la forza della nonviolenza, l’ottimismo e la speranza che non si lasciano logorare dagli eventi e, insieme, l’energia per continuare a resistere.
Di notte, alla luce intensa della luna piena, At-Tuwani sembra un presepe. Non si muove nulla, i colori delle case si confondono con quelli della terra, le curve morbide delle colline rasserenano lo sguardo e, a volte, capita anche di tornare a dormire.

 

 

http://www.sassuolo2000.it/

Venerdì a Formigine conferenza sugli operatori di pace

Si intitola “Operatori di Pace in zona di conflitto” la conferenza che si terrà presso il castello di Formigine venerdì 9 aprile alle 21. L’iniziativa, promossa dall’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII e dal Comune di Formigine, in collaborazione con l’Associazione Vagamondi, presenterà “Operazione Colomba”, un Corpo Nonviolento di Pace che, dall’inizio degli anni Novanta dopo un’esperienza nei campi profughi della ex Jugoslavia, ha operato in numerosi contesti d’emergenza.

Sierra Leone (1997), Kossovo e Albania (dal 1998), Timor Est (1999), Chiapas (1998-2002), Cecenia (2000-2001), Repubblica Democratica del Congo (2001), Striscia di Gaza (dal 2002), Nord Uganda (dal 2005).

Parteciperanno alla conferenza, condotta dall’Assessore alle Politiche culturali e giovanili Mario Agati, le volontarie Georgia Dini e Nicoletta Manzini e Benedetto Piacentini (fratello della Piccola Famiglia dell’Annunziata). Focus degli interventi sarà la presenza di Operazione Colomba in Cisgiordania nel villaggio palestinese di At-Tuwani, a sud di Hebron. Il lavoro dei volontari in questo contesto si concentra sulla condivisione e sul sostegno alle famiglie palestinesi in difficoltà, sulla riduzione della violenza tramite l’accompagnamento delle persone e l’interposizione nonviolenta, sul monitoraggio della situazione dal punto di vista del rispetto dei diritti umani. In Israele, Operazione Colomba è presente a Gerusalemme Ovest, dove i volontari collaborano con diverse associazioni israeliane per i diritti umani e con gruppi pacifisti.

L’Operazione Colomba è un modello significativo ed efficace di corpo civile di pace, un esercito disarmato che interviene nei conflitti armati e sociali acuti.

Palestina – Striscia di Gaza (2002 – 2003): Nel maggio 2002 abbiamo cominciato una presenza stabile nel sud della striscia di Gaza, nei pressi di Kan Younis, in un territorio di scontro aperto tra esercito israeliano, che in quella zona difendeva i coloni insediatisi in territorio palestinese ed irregolari palestinesi. A fianco della popolazione civile abbiamo tentato, con una presenza di monitoraggio internazionale, di attenuare il clima di forte violenza, denunciare gli attacchi contro i civili e sostenere le famiglie più povere a causa del conflitto.

 

 

http://www.peacelink.it/palestina/index.html

ALTERNATIVE INFORMATION CENTER

L'AIC presenta il quarto seminario internazionale “Ponti, non muri!”

Dal 9 al 15 maggio una settimana di incontri, tour, workshop e approfondimenti sulla complessa realtà israelo-palestinese

In un mondo sempre più globalizzato, spesso si privilegia la quantità delle informazioni piuttosto che la qualità. Entriamo in contatto con culture senza conoscere la loro storia e neppure gli elementi in comune con esse. Compiamo generalizzazioni su “est” ed “ovest”, dimenticando che abbiamo moltissime tradizioni, esperienze e valori da condividere. Parlare di conflitto culturale o di “scontro di civiltà” è un modo eccessivamente semplicistico di definire le differenze, non prendendo in considerazione fatti storici, esperienze e il desiderio comune d'interazione. La reciproca comprensione è la base su cui le relazioni devono essere costruite, perché tutti i “lati” condividono valori come il rispetto, la tolleranza e la pace. Gli stereotipi non dovrebbero dunque impedire alle persone di avvicinarsi a un “altro” mondo, né limitare un dialogo costruttivo intorno ai valori, agli ideali e al nostro futuro comune su questo pianeta.
L'idea di organizzare questi seminari internazionali sul campo sotto lo slogan “Costruire ponti invece di muri” è nata da queste ferme convinzioni. Il programma del seminario ha dimostrato la sua importanza politica, sociale e concreta attraverso l'azione dei partecipanti, che insieme lo descrivono come un'esperienza molto ricca.
Noi dell'Alternative Information Center compiremo tutti gli sforzi per continuare a sviluppare l'esperienza del seminario. In questo contesto le idee, le suggestioni e l'incoraggiamento dei partecipanti e il loro impegno giocano un ruolo essenziale. Uniamo i nostri sforci sociali, culturali, umanitari e politici come persone da molte nazioni per porre fine ai muri di separazione, all'aggressione, alla discriminazione e al razzismo. Costruiamo ponti di giustizia, pace, uguaglianza e rispetto.

L'ORGANIZZAZIONE OSPITANTE: L'AIC
L'Alternative Information Center (AIC) è un'associazione internazionale, progressista, impegnata, che riunisce palestinesi e israeliani. Lavora nel campo della diffusione d'informazione, dell'advocacy politica, dell'attivismo dal basso e dell'analisi critica del conflitto israelo-palestinese. L'AIC si sfroza di promuovere una piena uguaglianza individuale e collettiva a livello sociale, economico, politico e di genere. La libertà e la democrazia, così come il rifiuto della filosofia e della pratica di separazione, sono i fini che l'AIC persegue. 

OBIETTIVI
L'obiettivo di questo seminario sul campo è di fornire ai partecipanti gli elementi fondamentali nella compresione approfondita del contesto e della società palestinese e israeliana, rendendoli quindi in grado di promuovere in modo più forte una pace giusta nella regione.
Sperimentare direttamente gli effetti del conflitto, così come la vita e le condizioni politiche nei Territori palestinesi occupati, fornirà un'esperienza unica sul campo, opposta a una comprensione basata sui media, sulla propaganda e sulle voci. Questo è un passo necessario nel processo di comprensione dei fattori che hanno condotto all'attuale situazione. Una conoscenza completa è un punto di partenza necessario per costruire ponti. 

La voce palestinese è spesso ignorata o accusata di estremismo. Come organizzazione israelo-palestinese fondata nel 1984, l'AIC si propone di creare spazi in cui il popolo palestinese stesso spieghi la sua lotta e dia testimonianza della loro vita sotto occupazione. 

Nel corso del seminario svolgeremo incontri e workshops con esperti e associazioni israeliane che condividono gli stessi valori dell'AIC e sono impegnate profondamente nella promozione di una pace giusta e di una giustizia sociale per gli israeliani così come per i palestinesi. Il collegamento con individui, associazioni, partiti politici, operatori dell'informazione e dei media è fondamentale per costruire gruppi di pressione capaci di incoraggiare governi e gruppi economici ad agire responsabilmente, senza ignorare le conseguenze delle loro azioni e non-azioni.

STRUMENTI

Gli strumenti che saranno usati per raggiungere gli scopi appena descritti includono:

tour attraverso la West Bank, Gerusalemme, Jaffa ed Hebron per vedere da vicino le condizioni di vita dei palestinesi sotto occupazione

incontri con gruppi sociali e politici israeliani progressisti

conferenze di esperti palestinesi e israeliani su tematiche comprendenti l'economia, i diritti umani, la politica, i problemi sociali, il diritto internazionale, la storia e le problematiche di genere

incontri con politici, istituzioni sociali e associazioni di base

eventi culturali (concerti, incontro con famiglie palestinesi, ecc.)

discussioni aperte

momenti di riflessione

partecipazione a dimostrazioni nonviolente guidate da israeliani e palestines

PROGRAMMA

Le principali linee-guida adottate nel seminario di 7 giorni seguono un percorso logico: fornire elementi per una comprensione più profonda e riflessiva, avere esperienze dirette, sviluppare un approccio critico e dare indicazioni per un'effettiva azione di advocacy.

Il primo passo consiste nel presentare un quadro generale della Palestina e di Israele con elementi storici e politici.

Presenteremo la visione dell'AIC, le politiche e le attività sul campo e anche una prospettiva globale maggiormente ampia in relazione al comportamento dei paesi occidentali e arabi verso il conflitto.

La prima esperienza sul campo sarà la visita al Muro dell'apartheid e ai campi profughi nell'area di Betlemme.

Il gruppo seguirà una manifestazione a sostegno della resistenza nonviolenta.

Nel corso della visita ad Hebron dove violazioni dei diritti umani avvengono ogni giorno, i partecipanti incontreranno un'associazione che si occupa del monitoraggio delle colonie di Hebron

nel corso dei nostri eventi settimanali all'AICafé, i partecipanti incontreranno i movimenti della resistenza nonviolenta

è prevista una visita a Gerusalemme per vedere la realtà delle colonie israeliane, sia all'interno sia intorno alla Città vecchia

un tour a Jaffa sottolineerà la continua espropriazione della popolazione palestinese e includerà incontri con attivisti palestinesi e israeliani

a Ramallah esploreremo il tema della detenzione e dei prigionieri politici con un'associazione di avvocati e attivisti specializzati e avremo un incontro con alcuni membri del Parlamento palestinese e politici

insieme approfondiremo le dimensioni economiche dell'occupazione israeliana, insieme alle problematiche delle donne e di genere all'interno delle società palestinesi e israeliane

una lezione sulla società israeliana offrirà gli elementi per comprendere le dinamiche più complesse; i partecipanti incontreranno inoltre donne e uomini israeliani che hanno rifiutato di prestare servizio nell'esercito israeliano

attivisti palestinesi presenteranno le loro attività e i partecipanti sperimenteranno la tradizionale ospitalità di una famiglia palestinese a Beit Sahour.

Il programma si svolgerà in maggio. Sono possibili alcuni cambiamenti, ma la struttura e i temi presentati saranno mantenuti.
Per ulteriori informazioni, immagini delle passate edizioni e dei partecipanti: www.alternativenews.org.

Facebook Group: Bridges Instead of Walls! 
Google Group: politicalcamp
Termine ultimo per la registrazione: 25 aprile 2010
Numero minimo di partecipanti: 10

REGISTRAZIONE E ULTERIORI INFORMAZIONI 
Otto semplici passi verso il seminario 
Programma del seminario 
Domanda di ammissione

Per ulteriori informazioni:
Alternative Information Center
Betlemme +972 2 277 5444  aic.camps at gmail.com 
Il costo del seminario è di 320 euro (100 euro di caparra e 220 euro da consegnare all'arrivo). Il costo comprende tutti i pasti, l'alloggio, i trasporti, i workshop, le visite e le lezioni. Il costo non include il trasporto aereo e l'assicurazione sanitaria nel periodo del seminario.

L'AIC non si assume alcuna responsabilità per infortuni o danni che i partecipanti possono causare a se stessi, ad altri o a proprietà nel corso del seminario.


Tutte le lezioni si svolgeranno in inglese.

 

 

http://ravennanotizie.it/main/index.php?id_pag=3

Ilan Pappé ospite d'eccezione a Ravenna per parlare del conflitto israelo-palestinese

Ilan Pappé, professore  di Storia all'Università di Exeter (Regno Unito), fondatore della corrente dei nuovi storici, autore di numerosi volumi, noto per essere sostenitore di una radicale rivisitazione della storia ufficiale israeliana che gli è valsa l'espulsione dall'Università di Haifa, giovedì 8 aprile sarà a Ravenna, ospite d'eccezione all'incontro Palestina-Israele. Rileggere il passato per capire il presente, in programma alle 15 nell'aula Magna dell'ex Istituto Verdi di via Pasolini 23. 

Lo storico israeliano porterà al centro della giornata di lavori proprio la sua analisi sulle responsabilità israeliane nel dramma dell'esodo palestinese maturata alla luce di un lucido lavoro di reinterpretazione del materiale contenuto negli archivi storici israeliani. Con Pappé dialogheranno altri esperti e studiosi come il professor Riccardo Bocco, antropologo e politologo dell'Università di Ginevra, e il giornalista del Corriere della Sera Lorenzo Cremonesi. Condurrà il dibattito Ruba Salih, antropologa Senior Lecturer all'Università di Exeter e docente all'Università di Bologna.

“Si tratta di una straordinaria opportunità di rileggere il passato per capire il presente – sottolinea Ruba Salih, coordinatrice scientifica dell'iniziativa -. Il conflitto israelo-palestinese continua a essere centrale per il raggiungimento di una pace stabile e globale nella regione mediorientale. I nodi principali ruotano attorno allo status di Gerusalemme, alla questione dei cinque milioni di profughi palestinesi e al loro diritto al ritorno, alla continua politica israeliana di espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, causa delle tensioni tra Usa e Israele nelle ultime settimane. Su tali questioni, al centro dell'incontro 'Palestina-Iasraele', israeliani e palestinesi mostrano visioni apparentemente inconciliabili. Il raggiungimento di una trattativa comune sul conflitto appare fondamentale quindi per una sua futura risoluzione”.

L'iniziativa è promossa dal corso di laurea magistrale in Cooperazione internazionale, tutela dei diritti umani e dei beni etno-culturali nel Mediterraneo e in Eurasia Università di Bologna, sede di Ravenna, e dal Dipartimento di Politica, Istituzioni, Storia, in collaborazione con Fondazione Flaminia e con il patrocinio di Comune di Ravenna.

 

 

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