Rassegna stampa del 17 e 18 marzo.

Rassegna stampa del 17 e 18 marzo.

A cura di Chiara Purgato

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EST – Gerusalemme, Amato (Prc): Ue boicotti commerci con Israele

Roma, 17 mar (Velino) – “Quello che sta accadendo a Gerusalemme, la rabbia esplosa fra i giovani palestinesi, duramente repressa dall'esercito israeliano, è il frutto delle politiche oltranziste e delle provocazioni del governo israeliano”. Lo sostiene Fabio Amato, responsabile nazionale esteri del Prc. “Continuare ad espellere palestinesi dalle loro case – prosegue Amato -, costruire ancora nuovi insediamenti, non può che provocare un innalzamento della tensione, che giova a chi, come Netanyau, ha speso tutta la sua carriera politica nel contrastare la legittima aspirazione del popolo palestinese al proprio stato. Colpisce, in queste ore drammatiche, il silenzio dell'Unione Europea. Del silenzio italiano e del suo governo ostaggio e servo di quello israeliano , non ci meravigliamo. Dov'è Blair, fantomatico capo del quartetto? Che dice la Lord inglese a capo dell'inesistente politica estera dell'Ue difornte alle provocazioni del governo di esterma destra israeliano?”.


“L'Unione Europea e i paesi membri – riprende Amato – devono sospendere i trattati di associazione commerciale con Israele, non continuare nella posizione ignava e complice fin qui tenuta. Alla luce della totale inerzia degli stati e della comunità internazionale, noi continueremo a sostenere la campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni verso Israele, come forma di sostegno democratico alla causa di una pace giusta, di denuncia della situazione di apartheid in cui vive il popolo palestinese in Cisgiordania e dell'infame assedio che, nel silenzio di tutti, colpisce la martoriata striscia di Gaza”.

 

 

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La violenza a Gerusalemme è scoppiata dopo un lungo periodo di crescenti tensioni provocate dall’ampliamento degli insediamenti. Per una valutazione della crisi e dello stato d’animo dei palestinesi, il nostro Mohammad Elhamy ha parlato con Mustafa El Barghouti.

Mohammad Elhamy, euronews: “Ora lei si trova a Gerusalemme, dove ha parlato con la popolazione. Pensa che quel che sta accadendo ora possa diventare una terza intifada?”

Mustafa El Barghouti, politico palestinese: “No, l’ intifada è già cominciata, e quel che vedete oggi è un’intifada pacifica, popolare e di lotta, in corso da qualche anno, quando Israele ha cominciato a costruire il muro di separazione razzista.
Quest’intifada si è intensificata fino al punto che vediamo oggi. I palestinesi non possono più sopportare quest’ingiustizia. Da cinque anni ci è proibito accedere a Gerusalemme. Oggi sono venuto qui senza permesso: sono stato costretto a scalare delle colline per ore per arrivare alla città santa. Quella che vedete oggi non è che una reazione popolare e normale, la reazione di un popolo che ha deciso di prendersi la sua libertà e la sua indipendenza”.

Mohmmad Elhamy, euronews: “Negli ultimi giorni sono apparse tensioni nei rapporti fra Stati Uniti e Israele. Pensa sia possibile che Washington cambi politica nei confronti di Israele in futuro?”

Mustafa El Barghouti: “Lo spero, in particolare dopo che il governo Netanyahu e lo stesso Netanyahu hanno insultato il presidente Obama e il vice presidente Biden, e naturalmente Mitchell. Più l’amministrazione Usa parla di nuovi negoziati più Israele annuncia misure di annessione.
Ora il problema è: l’amministrazione Usa avrà la forza di imporre sanzioni a Israele? Soprattutto se consideriamo che gli Stati Uniti stanno sanzionando diversi paesi su questioni meno importanti”.

Mohammad Elhamy, euronews: “L’Alto Rappresentante europeo per gli affari esteri e la politica di sicurezza Catherine Ashton è ora in visita in Medio oriente. Pensa che Ashton possa far fare dei passi avanti ai negoziati?”

Mustafa El Barghouthi: “Assolutamente no, perché non ci sono le basi per i negoziati. Come possiamo negoziare mentre Israele continua a espandere le colonie?
Bisogna imporre sanzioni e la Ashton, rappresentando quell’Unione europea che è il maggiore partner commerciale d’Israele, è nella posizione di dire a Israele che se continua l’occupazione l’Europa prenderà provvedimenti.
Il mondo deve mandare un messaggio chiaro, se vuole vedere davvero la pace nella regione. Israele deve sapere che non può continuare a violare la legge”.

 

 

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MEDIO ORIENTE / Obama contro Netanyahu tifosi liberal a Washington

 

 

 

18 MARZO 2010

Dopo il clamoroso fallimento della visita in Israele del vicepresidente americano Biden, gli analisti internazionali concordano nel giudicare particolarmente grave la crisi presente delle relazioni fra gli Stati Uniti e lo stato ebraico: forse la più grave dal 1967, cioè dalla guerra dei Sei giorni e dall'occupazione israeliana dei territori palestinesi.
Come sempre accade, le dinamiche di politica estera si intrecciano a quelle di politica interna. La gravità della crisi diplomatica risulta accentuata dalle difficoltà domestiche di entrambi i premier, Barack Obama e Benjamin Netanyahu. Obama ha perso alcuni margini di manovra per la maggioranza democratica al Senato e si trova, in generale, sotto il possibile schiaffo delle prossime elezioni legislative di mid-term. Netanyahu fatica a sottrarsi all'ipoteca politica che pure gli ha consentito, l'anno scorso, di riprendere in mano dopo un decennio le redini del governo di Tel Aviv. Fin da quando il suo partito, il Likud, non ha trovato un'intesa elettorale con Tzipi Livni e il centro di Kadima, Netanyahu si è consegnato agli alleati di estrema destra, intrattabili sulla questione delle colonie e ancor più su quella di Gerusalemme est.

Ma proprio da questa situazione di difficoltà potrebbe derivare, paradossalmente, un'opportunità per Obama e dunque, di riflesso, la possibilità di uno sbocco dell'impasse diplomatica mediorientale. Potrebbe derivare cioè la tentazione, per Obama stesso, di trasformare il limite in una risorsa: marcando una soluzione netta di continuità rispetto a quarant'anni di arrendevolezza di ogni governo americano nei confronti di Israele.
La tentazione di rompere gli indugi – a costo di un vero e proprio scontro con Netanyahu – sarebbe il frutto di una somma di fattori concomitanti. Tra questi, la difficile intesa personale (secondo alcuni, un'antipatia quasi epidermica) fra il premier israeliano e il segretario di stato americano, Hillary Clinton. E la crescente impazienza verso Israele da parte del Pentagono: se è vero (come ha argomentato recentemente la rivista Foreign Policy, in un articolo ripreso ieri dal Sole 24 Ore) che gli strateghi di Washington temono sempre più gli effetti destabilizzanti, sull'intero Medio Oriente, di una rinnovata timidezza Usa verso Israele.

La tentazione di rompere gli indugi potrebbe venire ad Obama anche dagli sviluppi del rapporto fra l'amministrazione democratica e la diaspora statunitense. Perché l'autentico fatto nuovo di quest'ultimo paio d'anni è la nascita di un polo politico liberal della diaspora. Un polo che non vuole più costringere gli ebrei americani dentro il ruolo tradizionale di elettori del partito democratico; un polo che intende contare anche nella capitale, a Washington, valendo da contrappeso rispetto al polo conservatore della diaspora. Quest'ultimo risulta perfettamente rappresentato, ormai da decenni, dall'influentissima lobby chiamata Anti-Defamation League. Il nuovo polo liberal si è andato invece organizzando intorno al gruppo di pressione denominato J-Street.

Il nome J-Street allude a una via notoriamente mancante nella griglia topografica di Washington; ma allude anche, evidentemente, alla necessità di portare nella capitale la voce di un mondo ebraico (J-ewish) che non si sente rappresentato dai conservatori della Anti-Defamation League. È appunto il mondo dell'intellighenzia ebraica progressista: il mondo di New York, potremmo dire, che cerca di vincere la sua spocchia intellettualistica e prova a sbarcare, armi e bagagli, nella bassa cucina di Washington. Portandovi un giudizio severo sulla maniera in cui, da quarant'anni, ogni volta che Israele ha alzato la voce gli Stati Uniti hanno obbedito.

Dopo il fallimento della missione mediorientale di Joe Biden, le teste d'uovo di J-Street sono saltate sull'occasione per aumentare la loro pressione sopra l'amministrazione e il Congresso. In particolare, hanno promosso una raccolta di firme in calce a un documento dove si afferma che «soltanto un amico può dire la verità più scomoda», e dove si invita il governo Obama a trasformare l'attuale crisi diplomatica in un'opportunità per lavorare concretamente alla soluzione dei “due stati” in Palestina: lo stato ebraico, che già c'è, e lo stato palestinese, cui finora Israele ha vietato di esistere.

Naturalmente, non basteranno certo le 18mila firme raccolte in pochi giorni da J-Street per modificare una dinamica – quella dell'arrendevolezza americana verso Israele – che si è consolidata nei decenni al punto da sembrare un fossile. Eppure, la crescente mobilitazione dell'intellighenzia ebraica liberal potrebbe esercitare, nel prossimo futuro, un'influenza effettiva sopra Obama e la sua amministrazione: magari attraverso “facilitatori” come il senior advisor del presidente, David Axelrod, altrettanto legato alle proprie origini ebraiche che indignato per l'affronto subìto da Biden durante la visita in Israele.

 

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18/03/2010 – 13:02

Obama “Niente case a Gerusalemme Est”

Il processo di pace è il movente con cui stamaneBarack Obama ha dichiarato “Nessuna crisi” con gli israeliani.

1600 insediamenti da installare per i coloni aGerusalemme est, questo è stato invece dichiarato da Israele. La copertura del progetto di costruzione delle case, mette in disaccordo la stessa Israele con la più grande potenza mondiale, l’America.

Secondo Obama, altri insediamenti da costruire in quella zona, non servirebbero al progetto di pace che era stato stipulato e che bisogna concentrarsi sul rapporto tra palestinesi e israeliani.

I palestinesi vogliono “installare” Gerusalemme Est, come loro capitale, in Cis Giordania e nellaStriscia di Gaza. Gli israeliani invece vorrebbero mantenere Gerusalemme, compresa la parte orientale, come capitale, data la storia ormai lunga mezzo secolo che la vede come capitale di quella zona. Molto facile pensare che la richiesta da parte di Israele di 1600 insediamenti per i coloni, faccia riferimento a questa battaglia con i palestinesi per fare propria Gerusalemme.

Joe Biden, vice presidente americano, è stato mandato da Obama il giorno dopo l’intervista su Fox News Channel avuta con Bret Baier, per calmare le acque e rassicurare Israele. “Gli amici sono in disaccordo a volte” dice il presidente degli Stati Uniti d’America a Baier.

La figura di Joe Biden, intanto, fa visita ad Israele, un messaggio chiaro e forte che segna la convinzione di voler mantenere vividi i rapporti tra i due stati e rispettare l’alleanza che cerca di mantenere la sicurezza in quei territori.

Il disaccordo per gli insediamenti quindi, non preclude la possibilità di continuare l’accordo di pace che vige tra America e Israele, solo delinea un intoppo sul procedimento per raggiungerla.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu sottolinea la voglia di continuare i colloqui con Obama, ma che il disaccordo porta ad una ridefinizione dei concetti base per l’apporto americano sull’obbiettivo finale, la pace.

Secondo Obama infine, la procedura per il piano di inserimento di nuovi alloggi approvata dal ministero dell’Interno, rallenterebbe ulteriormente il raggiungimento dello scopo. Netanyahu conclude di conseguenza che il mancato accordo chiarisce come si debbano ancora definire i termini per la pace tra palestinesi e israeliani.

 

 

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Palestina: ancora scontri in Cisgiordania. E Abbas tace

A più di 24 ore dalla conclusione del “Giorno della rabbia” la tensione resta alta in tutta la Palestina. Alcuni gruppi di giovani e studenti islamici si sono infatti scontrati nuovamente con gli agenti della polizia israeliana in diverse zone della Cisgiordania. Le manifestazioni più violente, secondo quanto riferito dalla tv araba al Jazeera, si sono svolte nel villaggio di Beit Hanun a Hebron, a breve distanza dalla Tomba dei Patriarchi, e nei pressi del valico di Kalandiya, appena fuori la città di Ramallah dove ha sede il governo dell’Anp. Ieri inoltre, dopo ben cinque giorni, è stato finalmente rimosso il blocco imposto dal ministro della Difesa di Tel Aviv Ehud Barak su tutta la Cisgiordania. Un blocco che da giovedì scorso impediva l’accesso della popolazione palestinese al territorio israeliano e viceversa. Rimosso anche il divieto per tutti gli arabi di età inferiore ai 50 anni di accedere alla spianata delle moschee di Gerusalemme, dove invece non sono stati registrarti momenti di tensione.
Nonostante la calma, però, i vertici delle forze dell’ordine della Città Santa hanno ritenuto necessario mantenere in servizio per tutta la giornata i 3000 agenti già schierati martedì per far fronte alle proteste. “Ci attendiamo una giornata tranquilla, ma non vogliamo correre alcun rischio”, aveva spigato nella mattinata di ieri il portavoce della polizia, Miki Rosenfeld.
La questione della giudaizzazione di Gerusalemme resta però ancora aperta e sempre ieri il primo ministro del governo di Gaza, Ismail Haniyeh, ha invitato tutti i leader arabi a prendere posizione. “Non basta limitarsi alle dichiarazioni e alle condanne – ha spiegato il premier di Hamas – ma bisogna pianificare delle azioni per salvare la Città Santa, i luoghi sacri e la terra di Palestina dagli insediamenti israeliani, e sostenere la fermezza degli abitanti sia con progetti a livello della società civile che a livello della politica”. Un messaggio rivolto in primo luogo al presidente dell’Autorità nazionale palestinese Mahmud Abbas, il quale durante tutta la sua legislatura ha condannato ma sempre soltanto a parole le continue provocazioni di Tel Aviv. Anche ieri, infatti, il leader di Fatah ha chiesto, unendosi agli appelli del presidente brasiliano Lula e del capo della diplomazia europea Catherine Ashton in visita a Ramallah, di convincere Israele a congelare gli insediamenti nei territori palestinesi. Il presidente Abbas, dopo aver consegnato al rappresentante europeo una lettera con la quale richiede l’intervento ufficiale dell’Ue sulla vicenda, è poi tornato nuovamente a parlare della possibilità di un’immediata ripresa dei colloqui di pace lasciando intendere che l’Autorità palestinese non ha mai ritirato formalmente il via libera ai “proximity talks” dato nei giorni scorsi all’emissario Usa George Mitchell.
“Noi non poniamo condizioni preliminari – ha detto rispondendo alle accuse che gli vengono mosse a riguardo dal governo di Netanyahu – chiediamo solo l’attuazione degli obblighi già previsti dalla Road Map per partecipare ai negoziati indiretti promossi dall’amministrazione Obama”. Che il leader di Fatah sia ormai completante asservito agli Stati uniti ed a Israele è un dato di fatto, ma ad ogni buon conto per avere un quadro più completo è necessario sottolineare che persino martedì, quando il popolo palestinese tutto è sceso in strada per manifestare la propria rabbia nei confronti dell’entità sionista, lui ha scelto di rimanere in silenzio. Il presidente Abbas ha preferito ancora una volta tacere piuttosto che schierarsi la fianco della sua stessa gente per non rischiare di innervosire gli alleati Tel Aviv o già irritati padroni di Washington. Un drammatico déjà-vu che riporta alla mente il silenzio di Abbas mantenuto per tutta la durata dell’operazione Piombo Fuso sulla Striscia di Gaza, a causa della quale sono morti 1400 palestinesi.

 

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M.O./ Revocato blocco Cisgiordania,situazione calma a Gerusalemme

Consentito libero accesso alla Spianata delle Moschee

Gerusalemme, 17 mar. (Ap) – Israele ha revocato la chiusura della Cisgiordania e ha consentito il libero accesso alla Spianata delle moschee a Gerusalemme.

La polizia dello stato ebraico ha reso noto che migliaia di soldati restano in stato di massima allerta, ma non ha segnalato gravi problemi: oggi sembra essere tornata la calma. Israele aveva bloccato l'accesso al territorio la scorsa settimana.

I provvedimenti seguono di un giorno i pesanti scontri in tutta la città, in concomitanza della giornata della collera. Centinaia di palestinesi a Gerusalemme Est hanno dato fuoco a copertoni e cassonetti della spazzatura, oltre a gettare pietre contro gli agenti in assetto antisommossa. Questi ultimi hanno reagito sparando proiettili di gomma e gas lacrimogeni.

La violenza è scoppiata nel pieno della peggior crisi diplomatica degli ultimi anni tra Stati Uniti e Israele. Washington contesta i progetti dello stato ebraico di costruire 1.600 nuove unità abitative a Gerusalemme est, annunciata proprio durante la visita del vice presidente statunitense Joe Biden.

 

M.O./ Abdullah II: Israele vuole sbarazzarsi di arabi Gerusalemme

Monarca giordano chiede intervento comunità internazionale

postato 23 ore fa da APCOM

Roma, 17 mar. (Apcom) – Israele sta cercando di “sbarazzarsi dei residenti arabi di Gerusalemme, musulmani o cristiani”: lo ha affermato in monarca giordano Abdullah II, invitando la comunità internazionale a intervenire.

In un comunicato diffuso dopo il suo incontro ad Amman con l'alto rappresentante dell'Ue per la politica estera, Catherine Ashton, Abdullah ribadisce che “Gerusalemme costituisce una linea da non superare e il mondo non dovrebbe rimanere in silenzio”.

Come ricorda il quotidiano israeliano Ha'aretz, le dichiarazioni del monarca giordano arrivano ventiquattr'ore dopo la “giornata della rabbia” organizzata dall'organizzazione estremista palestinese di Hamas e che ha causato nella Città Santa gli scontri più violenti da mesi a questa parte tra palstinesi e polizia. Le autorità israeliane hanno revocato oggi il blocco della Cisgiordania autorizzando l'accesso dei fedeli islamici alla Spianata delle Moschee: la polizia dello Stato ebraico rimane tuttavia in stato di massima allerta.

La situazione rimane particolarmente tesa dopo le polemiche scatenate dalla decisione israeliana di autorizzare la costruzione di 1.600 alloggi a Gerusalemme Est: decisione fortemente criticata dalla comunità internazionale, con in testa gli Stati Uniti.

Le attività di costruzione nei quartieri arabi di Gerusalemme non fanno parte della moratoria unilaterale di 10 mesi sull'ampliamento delle colonie in Cisgiordania decisa dal governo israeliano: una sospensione totale delle attività edilizie, che comprenda anche la Città Santa, è però la condizione avanzata dall'Autorità Nazionale Palestinese per la ripresa del dialogo.

 

Libano, saudita fermato: aveva contatti con Israele

– Un cittadino saudita è stato arrestato questa mattina nel sud del Libano con l'accusa di avere contatti con Israele. L'uomo stava parlando con i soldati dello stato ebraico che si trovavano dall'atra parte della barriera che separa i due paesi. La notizia è stata diffusa dal quotidiano Nahar.Il giornale racconta l'uomo saudita il cui nome è Jawad bin Fahd al Issa sarebbe stato notato da una pattuglia della polizia mentre tentava di nascondersi dietro un grande sasso dopo aver discusso con i soldati israeliani oltre confine. Secondo la polizia libanese l'uomo avrebbe anche tentato la fuga e avrebbe distrutto il telefono cellulare in suo possesso. Una volta fermato ha raccontato di essere depresso e di aver tentato di provocare io soldati israeliani nel tentativo di farsi uccidere.Issa sarebbe arrivato in Libano la scorsa settimana dalla Giordania. Nonostante le forze di polizia abbiano identificato l'uomo sono ancora al lavoro per stabilire se sia davvero un cittadino saudita.  

M.O./ Israele valuta stop case in quartieri arabi Gerusalemme Est

Netanyahu valuta proposta per risolvere crisi con gli Usa

postato 37 min fa da APCOM

Roma, 18 mar. (Apcom) – Mentre gli Stati Uniti sono in attesa di una risposta da parte di Israele alla loro richiesta di ritirare il progetto per la costruzione di 1.600 nuove case nel quartiere di Ramat Shlomo, a Gerusalemme Est, il premier israeliano Benjamin Netanyahu sta valutando la possibilità di congelare le costruzioni nei quartieri arabi nella parte orientale della Città santa, e di limitarle invece nei quartieri ebraici situati dietro la Green Line. Lo riporta Ynet, l'edizione online dello Yedioth Ahronoth.

Questa nuova proposta è stata discussa dal “forum dei sette ministri” riuniti ieri sera da Netanyahu per decidere se accettare o meno la richiesta di Washington sullo stop alle costruzioni. Secondo Ynet la proposta sarebbe stata respinta dai ministri di estrema destra, mentre è appoggiata dal presidente Shimon Peres, che oggi ha incontrato l'alto rappresentante per la politica estera dell'Unione Europea Catherine Ashton.

Stati Uniti e Israele stanno tentando di risolvere la grave crisi diplomatica deflagrata la scorsa settimana dopo che il ministero dell'Interno israeliano ha annunciato la costruzione di 1.600 nuove case a Ramat Shlomo, suscitando l'ira dei palestinesi e mettendo in grave imbarazzo il vice presidente americano Joe Biden, che al momento dell'annuncio si trovava in missione nella regione per rilanciare il processo di pace tra israeliani e palestinesi. Ieri sera il presidente americano Barack Obama ha cercato di stemperare il clima, affermando in una intervista a Fox News che non c'è alcuna crisi in corso tra i due paesi alleati, nonostante le polemiche degli ultimi giorni. “Israele è uno dei nostri alleati più stretti”, ha ricordato Obama, osservando che anche “gli amici a volte sono in disaccordo”.

 

 

 

http://ilsecoloxix.ilsole24ore.com/

M.O.: 2 esplosioni a Gaza, per al-Jazeera e' raid Israele

Gaza, 18 mar. – (Adnkronos/Aki) – Due forti esplosioni sono state avvertite poco fa nella Striscia di Gaza. Secondo la tv araba 'al-Jazeera' sarebbero conseguenza di un raid aereo israeliano condotto da un elicottero da guerra contro una postazione delle milizie palestinesi.

 

http://www.corriere.it/

MEDIO ORIENTE, IL PRESIDENTE OBAMA: «NESSUNA CRISI USA-ISRAELE»

Napolitano in Siria: «Preoccupazione
per gli insediamenti a Gerusalemme Est»

Il capo dello Stato invita Israele a restituire il Golan. Gaza, un razzo fa un morto. La Ashton (Ue) in visita

DAMASCO – Il presidente Napolitano è preoccupato per «i nuovi insediamenti a Gerusalemme Est e per le conseguenze che ne possono scaturire». Il capo dello Stato, in visita in Siria, non nasconde i propri timore per la crisi innescata da Israele con l'annuncio di una prossima espansione nell'area contesa con i palestinesi. Dopo il colloquio con il suo omologo Bashar Al Assad, Napolitano ha poi invitato Israele a restituire le alture del Golan alla Siria, come «parte del processo di pace».

DUE POPOLI, DUE STATI – «Sono persuaso che la sola soluzione possibile al conflitto arabo-israeliano sia basato sulla formula due popoli e due Stati – ha spiegato Napolitano – e cioè il diritto dei palestinesi ad avere uno Stato indipendente e vitale e quello di Israele a vedere la propria esistenza riconosciuta e a vivere in sicurezza. Di questo quadro fa parte la restituzione del Golan così come affrontare la gravissima situazione umanitaria a Gaza». Colloqui calorosi quelli con Assad, con la promessa di una politica volta alla stabilizzazione della regione libanese, «nel pieno reciproco rispetto dell'indipendenza di Siria e Libano». Il presidente siriano parla di «punti di vista convergenti» per quanto riguarda il processo di pace e ringrazia «l'Italia per la sua posizione sul Golan». «Vogliamo una pace giusta e globale – prosegue Assad – ma questo è difficile per la mancanza di iniziative e per un governo come quello israeliano che non può essere preso come partner per colpa della sua politica di insediamenti e di violazione dei luoghi sacri».

RAZZO, UN MORTO – Intanto a Gaza sale la tensione. Un razzo Qassam è esploso in territorio israeliano nel kibbutz di Nativ Hasara, vicino al confine, uccidendo un immigrato thailandese. L'uomo, ferito in modo grave, è morto durante il trasporto in ospedale per le lesioni causate dalle schegge. L'attacco è stato rivendicato da Ansar al Sunna, la brigata miliziana salafita avversaria di Hamas (e con posizione ultra fondamentaliste), che ha inviato un sms ad alcuni media. È il terzo razzo lanciato da mercoledì sera sul sud d'Israele, ma è il primo da tempo a provocare vittime.

LA ASHTON A GAZA – Proprio oggi è in visita nella Striscia di Gaza la rappresentante della politica Estera dell'Ue Catherine Ashton: il territorio, controllato da Hamas, è scelto raramente come meta dagli esponenti della comunità internazionale. La Ashton, che ha condannato il lancio del razzo odierno e «ogni forma di violenza», incontrerà rappresentanti dell'Onu impegnati in attività umanitarie a favore della popolazione palestinese; non sono previsti incontri con esponenti di Hamas. Shimon Peres, durante il colloquio con la rappresentante della Ue, ha difeso la politica degli insediamenti: «Per più di 40 anni si è seguito un certo modello: Israele costruisce nei rioni periferici ebraici e non in quelli che sono principalmente arabi – ha detto Peres -. Questa linea è stata seguita da tutti i governi ed è stato accettato da tutti; in effetti anche dai palestinesi».

BAN KI-MOON E MITCHELL – Per la settimana prossima è atteso il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon e domenica prossima tornerà nella regione l'inviato Usa George Mitchell. La sua visita era stata rinviata dopo la crisi nella relazioni tra Israele e Stati Uniti. Negli ultimi giorni Hamas è tornato ad alzare i toni: aderendo alla “giornata della collera” palestinese – promossa due giorni fa in risposta alla ricostruzione di una sinagoga nella città vecchia di Gerusalemme e ai progetti di espansione degli insediamenti ebraici e sfociata in violenti tafferugli tanto a Gerusalemme est quanto in Cisgiordania -, ma anche invocando ripetutamente una terza Intifada.

OBAMA: NESSUNA CRISI – Mercoledì dal presidente Obama è arrivata una rassicurazione a Israele, dopo le tensioni degli ultimi tempi: in un'intervista alla Fox ha detto che i rapporti tra Usa e Israele «non sono in crisi» ma ha sottolineato che l'annuncio da parte di Tel Aviv di nuove abitazioni a Gerusalemme Est «non è di aiuto» al processo di pace, tanto più perché arrivato durante la visita del vicepresidente Joe Biden che mirava a facilitare la ripresa dei colloqui di pace. «Israele è uno dei nostri alleati più stretti – ha detto Obama -, abbiamo col popolo di Israele un rapporto speciale che non può mutare. Ma anche tra amici è possibile non essere d'accordo, a volte».

 

http://www.agi.it/home

M. O.: DOMENICA INVIATO USA GEORGE MITCHELL NELLA REGIONE

 (AGI/AFP) – Washington, 18 mar. – L'inviato degli Stati Uniti per il Medio Oriente, George Mitchell, sara' in viaggio nella regione la prossima domenica. Lo ha riferito una fonte dell'Autorita' nazionale palestinese. La visita di Mitchell era stata rinviata a causa dell'incidente diplomatico politico-diplomatico tra Stati Uniti e Israele dovuto all'annuncio della costruzione di 1.600 alloggi nella parte araba di Gerusalemme.
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http://www.repubblica.it/

M.O.: NYT, CASA BIANCA HA PRONTO PIANO E MAPPE DI PACE

Washington punta all'avvio del negoziato indiretto tra israeliani e palestinesi e, secondo quanto riferisce il New York Times, la Casa Bianca avrebbe nel cassetto un piano, con tanto di mappe territoriali, da sottoporre alle parti quando queste si siederanno al tavolo della pace. Intanto, Hillary Clinton vola a Mosca, dove, tra l'altro, avra' un incontro con il Quartetto per il Medio Oriente .

 

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CONFLITTI, MEDIO ORIENTE: Ma gli uomini di Dayton devono essere fermati

 «Il programma più stupido che il governo statunitense abbia mai avviato» 

«Il programma più stupido che il governo statunitense abbia mai avviato»; così ho definito lo scorso anno i tentativi americani di migliorare la forza militare dell'Autorità palestinese (Ap). È leggermente iperbolica, è vero, ma la descrizione calza bene perché questi tentativi accrescono l'impatto dei nemici degli Usa e del loro alleato israeliano. Innanzitutto, un accenno alle origini del programma, attingendo a un recente studio del Center of Near East Policy Research a firma di David Bedein e Arlene Kushner. Poco tempo la morte di Yasser Arafat nel 2004, il governo americano istituì l'Office of the U.S. Security Coordinator (l'Ufficio del Coordinatore per la sicurezza Usa) per riformare, reclutare, addestrare e fornire di equipaggiamento la milizia dell'Ap (chiamata Forze di sicurezza nazionale o Quwwat al-Amn al-Watani) e renderla responsabile a livello politico. Per quasi tutta la sua esistenza, l'ufficio è stato diretto dal tenente generale Keith Dayton. Dal 2007, i contribuenti americani finanziano l'ufficio per la bellezza di 100 milioni di dollari l'anno. Parecchie agenzie di governo sono coinvolte nel programma, inclusi l'Ufficio per la sicurezza diplomatica del Dipartimento di Stato, i servizi segreti e divisioni dell'esercito. La milizia dell'Ap ha complessivamente circa 30.000 truppe, di cui 4 battaglioni che annoverano 2.100 truppe hanno superato un minuzioso esame per mancanza di legami con la criminalità e il terrorismo e sono stati sottoposti a 1.400 ore di addestramento in una struttura americana in Giordania. Lì essi studiano materie che vanno dalle small-unit tactics, alle indagini sulla scena del crimine, a nozioni di pronto soccorso e alla legislazione per i diritti umani. Col permesso israeliano, queste truppe sono state dispiegate nelle aree di Hebron, Jenin e Nablus. Finora questo esperimento ha funzionato, inducendo a diffusi elogi. Il senatore John Kerry (democratico del Massachusetts) definisce il programma «estremamente incoraggiante» e Thomas Friedman del New York Times ravvisa nelle truppe addestrate dagli Usa un possibile «partner di pace palestinese per Israele» che sta prendendo forma. Tuttavia, guardando al futuro prevedo che queste truppe saranno più probabilmente un partner di guerra per Israele piuttosto che di pace. Vediamo il potenziale ruolo delle truppe in alcuni scenari:

Nessuno Stato palestinese. Dayton definisce con orgoglio le forze addestrate dagli americani “i fondatori di uno Stato palestinese”, uno stato che egli crede possa nascere nel 2011. Cosa accadrà se (come spesso è accaduto in passato) lo Stato palestinese non emergerà nei tempi previsti? Lo stesso Dayton mette in guardia da “grossi rischi”, il che presumibilmente significa che le sue truppe fresche di conio inizierebbero a dirigere la loro potenza di fuoco contro Israele.

Uno Stato palestinese. L'Ap non ha mai esitato nel suo obiettivo di eliminare Israele, come mostra la documentazione raccolta da Palestinian Media Watch. Se l'Ap diventasse uno Stato, di certo perseguirebbe il suo obiettivo storico, solo che ora essa è dotata di nuove truppe addestrate dagli Usa e di un arsenale.

L'Ap sconfigge Hamas. Per lo stesso motivo, nell'improbabile eventualità che l'Ap prevarrà su Hamas, il suo rivale islamista con sede a Gaza, essa incorporerà le truppe di Hamas nella propria milizia e poi ordinerà di attaccare Israele. Le organizzazioni rivali possono essere diverse per punti di vista, metodi e personale, ma condividono l'obiettivo primario di eliminare Israele.

Hamas sconfigge l'Ap. Se l'Ap dovesse soccombere ad Hamas, essa assorbirà almeno alcuni degli “uomini di Dayton” nella sua stessa milizia e li utilizzerà nel tentativo di eliminare lo Stato ebraico.

Hamas e l'AP cooperano. Proprio mentre Dayton immagina di preparare una milizia per combattere Hamas, la leadership dell'Ap partecipa ai colloqui con Hamas patrocinati dall'Egitto riguardo la condivisione dei poteri, sollevando così lo spettro che le forze addestrate dagli Usa e Hamas coordineranno degli attacchi contro Israele.

La legge delle conseguenze involontarie offre una consolazione temporanea. Mentre Washington finanzia le forze dell'Ap e Teheran quelle di Hamas, le forze palestinesi sono maggiormente spaccate a livello ideologico, il che forse indebolisce la loro capacità complessiva di danneggiare Israele. È vero, gli uomini di Dayton al momento si stanno comportando bene. Ma qualunque cosa il futuro porti, questi miliziani finiranno per puntare le loro armi contro Israele. Quando ciò accadrà, Dayton e i geni che idealisticamente edificano le forze del nemico dello Stato ebraico probabilmente faranno spallucce e diranno: «Nessuno avrebbe potuto prevedere questa conseguenza». Non è così. Alcuni di noi la prevedono e stanno mettendo in guardia contro questa eventualità. Ancora meglio, qualcuno di noi capisce che il processo di Oslo del 1993 non ha posto fine all'impulso della leadership palestinese di eliminare Israele. La missione di Dayton va fermata prima che rechi nuovi e maggiori danni.

 

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“Apartheid Week”, una settimana di protesta per la Palestina


Si è chiusa domenica scorsa la settimana mondiale contro l’apartheid israelo-palestinese, un appuntamento importante per la protesta internazionale che ha coinvolto decine di città in tutto il mondo tra il primo e il 14 marzo.

Dal 2005, quando un pugno di attivisti del Collettivo studenti arabi dell’Università di Toronto decise di avviare la manifestazione, l’International Apartheid Week (Iaw) è cresciuta fino a diventare uno degli eventi più rilevanti nel calendario della solidarietà verso la popolazione palestinese.

Solo l'anno scorso sono state più di quaranta le città che hanno risposto all’appuntamento, con un picco di partecipazione legato all’offensiva di Israele contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza.

Nel 2010 l’Iaw ha raggiunto la quota record di oltre cinquanta adesioni. New York, Roma, Melbourne, Glasgow e Beirut sono solo alcune delle città che hanno partecipato all’iniziativa con incontri e manifestazioni per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione israelo-palestinese. 

La spina dorsale della protesta è sicuramente lacampagna Bds (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che ha l’obiettivo di coinvolgere la società civile nell’azione di boicottaggio delle merci prodotte in Israele. 

La settimana a Beirut

In Libano, dove vivono circa 400mila rifugiati palestinesi, l’Università americana di Beirut (Aub) è stata il centro nevralgico della prima Apartheid Week mai organizzata in un Paese arabo, al di fuori dei Territori Palestinesi.

L’Aub ha organizzato dibattiti, proiezioni di film, laboratori artistici e visite ai campi profughi, nella speranza di educare “gli studenti allo spirito della resistenza all’apartheid”. 

Secondo il fotografo statunitense di stanza a Beirut, Mattew Cassel, “il silenzio della comunità internazionale rispetto alle numerose violazioni del diritto internazionale perpetrate da Israele, rende ancora più necessario che quelli di noi che hanno a cuore la pace e la giustizia continuino a far sentire la propria voce”. 

Partecipando a uno degli incontri dell’università, lo scorso 3 marzo, Cassel ha affermato che l’uso della parola apartheid “collega ciò che sta accadendo in Palestina ai decenni di lotta in Sud Africa, e mostra come la stessa tattica (il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni di circolazione) utilizzata contro il regime oppressivo e razzista in Sudafrica sia ora impiegata per combattere un sistema analogo in Palestina”. 

L’Apartheid Week in Italia

L’Italia ha aderito alla manifestazione internazionale con ben tre atenei universitari (Pisa, Bologna e Roma), un primato nel panorama europeo.

A Pisa sono intervenuti accademici come Danilo Zolo dell’Università di Firenze, Giorgio Forti dell’Università di Milano – promotore della “Rete Ebrei contro l’Occupazione”- e il fisico fiorentino Angelo Baracca. 

A Bologna hanno partecipato numerosi docenti universitari, tra cui gli storici Sandro Mezzadra e Diana Carminati dell’Università di Torino, oltre ad Alfredo Tradardi (Responsabile dell’International Solidarity Movement Italia) e l’ex vicepresidente del Parlamento europeo Luisa Morgantini.

A Roma, e nelle altre città del Paese, Naji Owda, attivista del centro culturale al-Feneiq, situato nel campo profughi di Dheisheh, a sud di Betlemme, è stato protagonista di numerosi incontri di approfondimento. 

Secondo l’attivista palestinese, convinto sostenitore della campagna di boicottaggio, “Quando compri un prodotto israeliano aiuti il governo di Tel Aviv, lo sostieni e diventi parzialmente responsabile di ciò che accade”.

Per Owda “è fondamentale informare i giovani delle università sulla campagna BDS e sulla sua importanza, perché ognuno di noi nel proprio piccolo può fare una scelta di campo e decidere se essere complice dell’apartheid o combatterlo con le armi che ha a disposizione”.

 

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Dopo l'Israel Apartheid Week

Denunciamo il nuovo razzismo di chi paragona Gaza ad Auschwitz

Si è conclusa la sesta settimana mondiale “Israel Apartheid Week”, volta a denunciare il regime di apartheid che Israele imporrebbe in modo analogo a quanto accadde in Sudafrica. L’intellettuale olandese Ian Buruma, che certamente non è un sionista, ha definito questo paragone «intellettualmente pigro, moralmente discutibile, e persino menzognero». Nella settimana un deputato arabo-israeliano ha viaggiato negli USA e in Canada per spiegare che Israele è uno stato di apartheid. Ma se è così, perché esiste un deputato arabo che rappresenta al Parlamento israeliano i cittadini arabi israeliani? E come mai costoro possono avere deputati, persino un ministro, una stampa autonoma, non hanno vincoli a frequentare le spiagge e i ristoranti? Perché questo era l’apartheid sudafricano.

Come mai quel deputato può entrare liberamente nei territori controllati dall’Autorità Palestinese, può avere incontri con i dirigenti di Hamas e Hezbollah, andare e venire tra Israele, Siria e Libano, magari per tenervi propositi anti-israeliani?  E non si dica che le barriere tra i territori di Israele e quelli palestinesi configurino qualcosa di analogo ai bantustan. In primo luogo, perché le barriere hanno una funzione di sicurezza e non di segregazione razziale e sono destinate a sparire appena conseguito un accordo di pace. In secondo luogo perché non si è mai sentito di bantustan sudafricani gestiti in autonomia, persino con una polizia armata.

Nella diffusione di questo indecente paragone porta una grande responsabilità il vescovo sudafricano Desmond Tutu che, diversi anni fa, si scagliò su The Guardian contro il potere della “lobby ebraica”, aggiungendo che «anche il governo dell’apartheid era forte, ma non esiste più. Anche Hitler, Mussolini, Stalin, Pinochet, Milosevic e Idi Amin erano forti, ma alla fine hanno morso la polvere».  La giornalista inglese Melanie Phillips, nell’accusarlo di sfacciataggine, espresse stupore di fronte al fatto che un vescovo cristiano ripetesse «la menzogna del “potere ebraico” confrontato per giunta con quello di Hitler, Stalin e altri tiranni», aggiungendo che era indecente tacere delle persecuzioni dei cristiani da parte degli islamisti nel mondo, e denunciare soltanto gli israeliani che sono sulla linea del fronte di questo terrore.

Queste parole sono oggi più attuali che mai. Dall’accozzaglia indegna che si riunisce annualmente per fare professione di antisionismo – in realtà di odio antiebraico – non c’è nulla da attendersi. Sono i veri razzisti. Blaterano di Gaza come Auschwitz ma non dicono una parola delle vittime israeliane del terrorismo, non una parola dei bambini di Sderot. Se salta per aria una sinagoga o un ebreo viene torturato a morte da una banda islamista a Parigi, voltano la testa dall’altra parte. Parlano di discriminazione ma non dicono che un omosessuale palestinese, se vuole sopravvivere, deve rifugiarsi in Israele. Parlano di apartheid ma tacciono su quel che sta accadendo in Giordania e che il New York Times ha denunciato, e cioè che cittadini identificati come “palestinesi”, pur se aventi la cittadinanza giordana prima che Israele esistesse, ne vengono privati per inventare un diritto al ritorno in Israele.

Condannano il razzismo ma non dicono una parola dei cartelli posti all’ingresso dei locali di Petra: “Vietato l’ingresso ai cani e agli israeliani”. Qualche antisionista nostrano ha commentato: «Che hanno fatto di male i cani?». Da questa accozzaglia pseudointellettuale non ci si può attendere che questo. Ma dagli altri? Criticare Israele si può? Certamente. Ma demonizzare Israele come il concentrato di tutti i mali della terra è un’infamia razzista che nessuna persona onesta deve tollerare.
 

 

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MED: PROGRAMMA UE, PRIORITA' STOP VIOLENZA CONTRO DONNE

(ANSAmed) – BRUXELLES – Fermare la violenza sulle donne: questa la priorita' da affrontare in tutti i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo, secondo quanto emerso dall'analisi condotta dal programma Euromed Gender Equality (Egep), che ha fatto il punto sulla condizione femminile dell'area in una tavola rotonda organizzata a Bruxelles. Il 'Programme to enhance quality between men and women in the Euromed Region', finanziato dall'Unione europea nell'ambito della politica di vicinato, coinvolge nove Paesi partner (Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, Territori palestinesi, Siria e Tunisia). ''Ci sono gia' strategie nazionali – spiega Judith Neisse, team leader dell'Egep – come nel caso del Marocco, dove inchieste ci sono gia' state, oppure paesi dove sono in corso, come in Tunisia. Alcuni paesi hanno norme sulle molestie sessuali nel codice penale, ad esempio Israele e Marocco. Nello specifico, il programma Egep aiutera' a condurre un'inchiesta nazionale in Giordania e in Libano, perche' sono i due Paesi che ancora non l'hanno condotta''. Ci sono Stati che hanno inserito la violenza contro le donne nel codice penale e non nel diritto privato: ''ad esempio – continua Neisse – Giordania e Marocco: questo e' gia' un passo nella direzione della criminalizzazione della violenza, indipendentemente da chi la commette. Il solo diritto di famiglia infatti spesso non permette l'incriminazione dei mariti che commettono violenza: si dice che si tratta di dispute familiari, tensioni, si verifica una certa banalizzazione del fenomeno''. Altro tema chiave per i Paesi del Mediterraneo e' il ruolo della donna nel processo decisionale, nel pubblico e privato. ''Si parla della presenza delle donne – spiega la responsabile Egep – nel mondo economico o politico, ma anche del ruolo in famiglia. In alcuni Paesi la donna ha ancora uno status minoritario, perche' la legislazione, il diritto privato e diritto di famiglia, e' ancora basata sulla religione. In alcuni casi l'approccio e' arcaico, specie per il matrimonio oppure il divorzio. Anche nel caso di Israele, per via dell'attaccamento alla legge dei tempi di Mose' ''. Riuscire a rendere laico il diritto di famiglia e' uno degli obiettivi da raggiungere per le donne della regione del Mediterraneo. Secondo Neisse, un caso dove sarebbe assolutamente necessario e' quello del Libano ''con il suo multiconfessionalismo, dove ciascuna comunita' religiosa ha le sue regole, dai cristiani ortodossi ai musulmani sciiti e sunniti, con discriminazioni diverse da una comunita' all'altra. Una soluzione sarebbe quella di avere un unico codice della famiglia, basato su considerazioni non religiose''. Alcuni Paesi poi ''hanno cominciato a lavorare sulla migliore interpretazione della legge islamica – afferma Neisse – rispetto alle convenzioni internazionali, come Marocco e Algeria''. Mentre a vantare uno status della donna e un codice di famiglia molto avanzato e' la Tunisia. L'idea di Egep e' quello di creare sottogruppi di Paesi partner dell'Ue a livello regionale per lavorare sulla formazione a livello subregionale. ''Dopo la raccolta dati e delle priorita' – conclude la team leader del Programma Egep – per l'ultima fase abbiamo una serie di seminari regionali per lavorare con tutti gli attori coinvolti. Identificheremo una serie di priorita' di gruppi di paesi, sulla base delle quali faremo formazione, fra la seconda meta' del 2010 e la prima meta' del 2011''.

 

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 La condizione della Palestina spiegata dai profughi di Ein el Hilwe

L'incontro con i rappresentanti dell'associazione Nashet, provenienti dal campo profughi di Ein el Hilwe ha messo in evidenza le condizioni  in cui vivono i palestinesi ai quali è tra l'altro vietato esercitare almeno settanta mestieri qualificati ed è impedito acquisire proprietà, restando costretti a vivere relegati in 2000 km quadrati del campo, dentro un muro che lo circonda interamente, costruito tre anni fa dal governo libanese 

L'incontro con i rappresentanti dell'associazione Nashet, provenienti dal campo profughi di Ein el Hilwe ha messo in evidenza le condizioni  in cui vivono i palestinesi ai quali è tra l'altro vietato esercitare almeno settanta mestieri qualificati ed è impedito acquisire proprietà, restando costretti a vivere relegati in 2000 km quadrati del campo, dentro un muro che lo circonda interamente, costruito tre anni fa dal governo libanese; difficili condizioni a cui l'amministrazione dei campi non riesce a far fronte con servizi adeguati, per la scarsità degli aiuti internazionali e l'aumento della popolazione.

 

E' stato ricordato come durante l'invasione israeliana dell'82, spinta fino a Beiruth e che vide perpetrare gli orrendi massacri di Sabra e Chatila, Ein el Hilwe oppose una strenua resistenza malgrado i bombardamenti al fosforo già allora usati dall'esercito sionista; identico coraggio e fierezza mossero tanti suoi giovani a combattere con la resistenza irachena durante l'invasione americana del 2003.I nostri interlocutori considerano responsabili del problema storico ed attuale dei profughi, oltre alle politiche di pulizia etnica e genocidio di Israele, la complicità della comunità  internazionale e le politiche imposte dai vari governi libanesi succedutesi negli anni passati. 

 

L'organizzazione Sumud promuove a livello nazionale il tour di Nashet; è nata due anni fa come associazione di volontariato e resistenza, per sensibilizzare alla causa palestinese  ed alla solidarietà rispetto ai popoli che resistono, imparando dalle loro lotte, senza pretendere di insegnare nulla.

Nashet invece è l'associazione libano-palestinese formatasi nel 2006 che opera nei campi profughi per diffondere un messaggio contro l'oppressione israeliana, per il diritto del popolo palestinese di riavere la propria terra, per creare un dialogo sempre più fecondo fra palestinesi e libanesi.

 

Vengono portati avanti progetti di vario tipo: politici, sociali, culturali e sanitari; degna  di nota la campagna di alfabetizzazione sanitaria tesa a formare 200 operatori qualificati; un altro progetto rilevante è quello contro l'abbandono scolastico che denuncia un tasso molto elevato, progetto teso a stimolare le capacità artistiche ed artigianali dei giovani.

Nel centro sociale realizzato grazie anche alla cooperazione di Sumud oltre a svolgere corsi di giornalismo e d'incentivazione delle capacità letterarie dei ragazzi, è in fase di realizzazione un centro studi con archivio e biblioteca. C'è inoltre la promozione di associazioni femminili (che coinvolgono principalmente ragazze tra i 9 ed i 15 anni) per favorire l'autodeterminazione delle donne. 

 

A seguire le testimonianze di Mohamad e Wissam sono venuti altri interventi tra i quali ricordiamo quello dello storico Antonio Moscatoil quale ha evidenziato come in un momento di crisi economica ed occupazionale  in Italia ci siano però finanziamenti  sperperati per far soggiornare le truppe in Libano o in altri scenari di guerra, che siano mascherate da soccorsi umanitari o da interpositori (come in Libano). E stato anche notato come le crisi diplomatiche e gli attacchi all'Iran possono esporre i soldati italiani a doppie rappresaglie sia in Libano (dove sono di fatto “sotto tutela” di Hezbololah) che in Afghanistan dove operano principalmente in zone di influenza sciita.

 

Moreno Pasquinelli del Campo Antimperialista ha descritto le contraddizioni che la presenza dei profughi porta anche nelle società e nei paesi di accoglienza, dove ragioni di sovranità e di equilibrio tra le componenti etniche e confessionali che spesso si spartiscono il potere, come nel caso libanese, possono essere pesantemente alterate da una presenza abbastanza omogenea e numericamente consistente come quella palestinese; in tal senso va appoggiata la proposta Hezbollah di superare le attuali divisioni e le quote prestabilite di rappresentanza, in prospettiva di uno status di cittadini a pieno titolo per i palestinesi, applicando il metodo democratico “una testa un voto”.

 

Il dibattito si è concluso con l'invito di Sumud a partecipare alla prossima brigata di lavoro prevista per il prossimo luglio sempre ad Ein el Hilweper continuare l'opera iniziata; nel contempo è stata annunciata l'apertura di un'altra campagna in India per organizzare una conferenza presso le aree tribali naxalite, dove sta montando la rivolta maoista.

Quanti fossero intenzionati a seguire le attività dell'associazione o a partecipare alla missione di luglio possono rivolgersi a info@sumud.org

 

 

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