Rassegna stampa del 17 febbraio.

Rassegna stampa del 17 febbraio.

A cura di Chiara Purgato.

http://www.cdt.ch/

17 feb 2010 09:38  TEL AVIV – «Identità rubata»: con questo titolo a tutta pagina il quotidiano Maariv riferisce che diversi cittadini israeliani hanno scoperto martedì di essere ricercati dall'Interpol. Ciò perché i loro nomi figuravano fra i documenti di viaggio (irlandesi, britannici, francesi e tedeschi) di undici persone che secondo la polizia di Dubai hanno preso parte il 19 gennaio alla uccisione di Muhammad al-Mabhouh, un capo militare di Hamas.

Si tratta complessivamente di 5-7 israeliani (a seconda della trascrizione dei loro nomi), tutti nati in Paesi stranieri e con doppia cittadinanza. Il quotidiano Haaretz suppone che dietro l'utilizzazione indebita delle loro identità ci sia il Mossad, il servizio di spionaggio israeliano. In un commento, un analista militare sollecita il capo del Mossad Meir Dagan a farsi adesso da parte e «a riprendere in mano la tavolozza da pittore».

Maariv, da parte sua, stima che con la uccisione di al-Mabhouh – che secondo Israele fungeva da tramite fra Iran e Gaza per la fornitura di armi e finanziamenti – si è trasformata «da un successo tattico in un fiasco strategico».

ats-ansa

 

http://www.medarabnews.com/

17/02/2010
Original Version: 
Israel’s Stink Bomb

Lo scandalo sessuale e  le accuse di corruzione contro alti esponenti dell’ANP, che in questi giorni stanno mettendo in serio imbarazzo il presidente palestinese Mahmoud Abbas, hanno a che fare con una manovra pilotata da Israele? – si chiede il giornalista israeliano Uri Avnery

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Questa settimana il governo israeliano ha giocato un tiro mancino a Mahmoud Abbas. Da mesi ormai, Abbas ha fatto arrabbiare il premier Netanyahu. Ha rifiutato di avviare “negoziati di pace” mentre gli insediamenti in Cisgiordania e nella parte orientale di Gerusalemme continuano ad  espandersi. Tutti sanno che i negoziati proposti sono privi di significato e non condurranno da nessuna parte. Netanyahu ne ha bisogno per stornare le pressioni degli Stati Uniti. Barack Obama ne ha bisogno per sfoggiare qualche risultato, per quanto piccolo possa essere. Ma Abbas sa che il suo consenso aiuterebbe Hamas a presentarlo come un collaborazionista.

Ora Netanyahu ha deciso di dare una lezione ad Abbas. Per tre giorni, giorno dopo giorno e programma dopo programma, Channel 10 (la seconda rete televisiva più importante di Israele) ha trasmesso scioccanti “rivelazioni” riguardo a scandali sessuali e finanziari che coinvolgono i vertici dell’Autorità Nazionale Palestinese. Una persona che è stata presentata come “un alto comandante” del Servizio di Sicurezza palestinese, col grado di generale, è apparso sulla televisione israeliana accusando i leader dell’ANP e il movimento di Fatah di aver rubato centinaia di milioni di dollari e di aver commesso disgustosi reati sessuali. Le “rivelazioni” possono mettere in pericolo la stessa esistenza dell’Autorità Palestinese e di Fatah.

Materiale del genere non sarebbe stato trasmesso se l’Agenzia di Sicurezza di Israele (nota come Shin Bet) si fosse opposta. Il felice autore dello scoop è stato Tzvi Yehezekeli, “corrispondente per gli Affari arabi” di Channel 10. Io ho seguito le trasmissioni di Yehezkeli per anni, ed è stato difficile per me ricordare una sola parola da parte sua che non mettesse in ridicolo i musulmani in generale, o gli arabi in particolare. In questo egli non ha niente di straordinario rispetto ai nostri media. La maggior parte “dei corrispondenti per gli Affari arabi” sono ex allievi dell’Intelligence dell’Esercito, e sono parte della grande industria della propaganda contro gli arabi. Molti di loro godono della generosa assistenza di certe istituzioni finanziate da miliardari americani, la cui sola funzione è di avvelenare le sorgenti della pace e della comprensione.

Chi è l’ “informatore”? Fahmi Shabaneh, ex capo del servizio di sicurezza palestinese di Hebron, è stato presentato da Yehezkeli come un eroe pronto a morire per la causa della dirittura morale. Perché questo patriota palestinese vorrebbe apparire su tutti i media israeliani? Perché non ha presentato la sua “merce” a un giornale o ad una rete araba? L’obiezione che nessuno le avrebbe pubblicate non regge. Hamas avrebbe rifiutato? Questo materiale favorisce, di certo, l’occupazione israeliana.

Comunque, la qualità della rivelazione non dipende dai personaggi di Tzvi Yehezkeli e Fahmi Shabaneh. Informazioni incriminanti spesso provengono da fonti non proprio cristalline. Devono essere giudicate nel merito. Finora ho visto 5 trasmissioni su questo caso. Erano piene di accuse, ma senza prove. Shabaneh ha parlato di faldoni pieni di prove. Ha impugnato dossier e incartamenti. Ma non ha presentato nessun documento in maniera tale da consentire il loro esame. “Prova” significa, per esempio, la presentazione di un documento bancario in modo che sia possibile leggerlo come si deve, studiarlo nei dettagli e trarre le debite conclusioni. I documenti che sono apparsi sullo schermo per una frazione di secondo non hanno consentito niente di simile.

Ancora più sospetto è il videoclip che è stato girato, o almeno così si è detto, nell’appartamento di una donna palestinese che è servita come esca per Rafiq Al-Husseini, il capo di gabinetto di Abbas. Al-Husseini appartiene ad una delle famiglie più rispettabili di Gerusalemme. Secondo Shabaneh, Husseini e il suo segretario sono andati casa della donna, che aveva fatto domanda per un posto di lavoro nello staff di Abbas. Husseini le ha richiesto una prestazione sessuale, e lei ha aiutato Shabaneh a mettere a punto una trappola per lui. Quando la telecamera mostra Husseini in compagnia del segretario e della donna in cerca di lavoro, lui le dice che “Arafat era un ladro, Abbas è un ladro, sono tutti dei ladri”.

È plausibile che il numero due del gabinetto del presidente palestinese abbia parlato in questo modo a una sconosciuta, una semplice donna in cerca di lavoro e in presenza di un testimone? Oso dire di avere fiuto per certe “rivelazioni”. A questo punto, dopo aver visto le trasmissioni, la mia impressione è che la faccenda sia sospetta.

Senza dubbio, c’è molta corruzione ai vertici dell’Autorità Palestinese. Era già cominciata ai tempi di Yasser Arafat. Lui di per sé era onesto. I beni materiali e la bella vita non gli interessavano. Su questo era come David Ben-Gurion e Menachem Begin, solo in circostanze infinitamente più difficili. Mentre le persone attorno a lui si costruivano case signorili, lui non aveva una casa di sua proprietà.

Una volta, a Tunisi, si vantò con me di vivere a bordo degli aerei. Questo lo aiutava ad evitare attentati contro la sua vita (per decenni, la sua vita è stata in pericolo mortale in qualsiasi momento) e a risparmiare tempo. Il suo conto bancario “privato” serviva ad assicurargli il controllo personale del denaro, una larga parte del quale era speso per scopi clandestini, come l’acquisto di armi, il rifornimento di  armi ai palestinesi nei campi profughi libanesi e la loro difesa contro le criminali Falangi Libanesi votate al loro annientamento, il mantenimento delle missioni in tutto il mondo che dirigevano lo scontro nell’arena diplomatica, ecc.

Ma Arafat non combatté la corruzione dei suoi collaboratori. Penso che la considerasse come uno strumento di controllo sulle persone e sulle fazioni. Arafat pensava che le attività corrotte della sua gente lo avrebbero aiutato a controllarla, ma è un dato di fatto che la corruzione aiutò lo Shin Bet a comprare personalità palestinesi e a ricattarle, a corrompere le leadership e a indebolire la loro lotta per la liberazione.

La corruzione palestinese è abbastanza sciatta: dubbie transazioni congiunte con uomini d’affari israeliani, molti di loro ex governatori militari; provvigioni intascate, la vincita di dubbi appalti. Essa è trascurabile se paragonata, ad esempio, alla nostra onnicomprensiva corruzione legale. I nostri primi ministri lasciano la politica per un breve periodo e guadagnano decine di milioni utilizzando conoscenze e informazioni ottenute mentre erano in carica. Generali in pensione vendono armi e pagano tangenti in tutto il mondo. Venti oligarchi controllano praticamente l’intera economia israeliana, con il sostegno di ministri e alti funzionari da loro controllati. Per non parlare degli Stati Uniti, dove le lobby comprano senatori e membri del Congresso in modo abbastanza esplicito attraverso i finanziamenti delle campagne elettorali.

Torniamo al virtuoso Fahmi Shabaneh. Alcuni mesi fa la polizia israeliana lo aveva arrestato. Egli risiede nella parte orientale di Gerusalemme e ha una carta d’identità israeliana. Era stato accusato di essere al servizio dell’Autorità Nazionale Palestinese – un’accusa piuttosto assurda, visto che centinaia di abitanti di Gerusalemme Est lavorano per l’ANP. Dunque perché Shabaneh è stato arrestato? Per dargli credibilità nei circoli palestinesi e allontanare i sospetti da lui, alla vigilia della sua trasformazione in un eroe nemico della corruzione? Egli era stato rilasciato su cauzione (cosa abbastanza inconsueta in situazioni simili) e il suo processo era rimasto in sospeso.

Adesso Shabaneh è un “buon arabo”, l’eroe dei media israeliani, che sono parte integrante della macchina ben oliata della propaganda. In tutto questo sordido affare, ci resta una domanda essenziale: qual è lo scopo? Dopotutto, chiunque decida di infangare la figura di Abbas sa che sta regalando potere ad Hamas, un movimento considerato dall’opinione pubblica palestinese incontaminato dalla corruzione. Mentre infligge un colpo mortale ad Abbas, col quale apparentemente vuole condurre i negoziati, Netanyahu sta facendo uno straordinario regalo ad Hamas, che invece non vuole negoziare. Bizzarro? Forse no.

Uri Avnery  è un giornalista e pacifista israeliano; è stato eletto tre volte alla Knesset, il parlamento israeliano; è fondatore del movimento ‘Gush Shalom’

 

Cisgiordania – “Una ricetta per la guerra civile”

Il regime repressivo instaurato in Cisgiordania dalle forze di sicurezza dell’ANP,  addestrate e finanziate dagli USA e dall’Europa – un regime che spesso prevede irruzioni, carcere duro e torture – è una ricetta per la guerra civile – scrive il corrispondente canadese Jon Elmer

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Betlemme – Abu Abdullah non è mai stato condannato per nessun crimine, ma negli ultimi due anni è stato arrestato così tante volte da aver perso il conto. È stato arrestato al lavoro, al mercato, per strada e, più di una volta, durante violente incursioni compiute da uomini col volto coperto che hanno fatto irruzione in casa sua e lo hanno catturato davanti alla sua famiglia. Nel cuore del campo profughi di Deheishe, nei sobborghi di Betlemme, Abu Abdullah descrive nei dettagli le violenze fisiche che ha subito in carcere, le numerose infreddature, le notti insonni trascorse in celle sporche e striminzite, i periodi prolungati che ha passato legato in posizioni di logorante tensione muscolare, e le lunghe ore di aggressivi interrogatori. “Gli interrogatori cominciano sempre allo stesso modo”, spiega Abu Abdullah. “Chiedono di sapere chi ho votato alle ultime elezioni”.

Abu Abdullah non è il solo. Da quando il governo provvisorio del primo ministro palestinese Salam Fayyad ha preso il potere a Ramallah nel giugno 2007, storie come quelle di Abu Abdullah sono diventate la routine in Cisgiordania. Gli arresti sono parte di un piano più ampio messo in atto dalle forze di sicurezza palestinesi – finanziate e addestrate da ‘patroni’ europei e americani – per schiacciare l’opposizione e consolidare la presa sul potere in Cisgiordania da parte del governo guidato da Fatah.

 

Uno sforzo internazionale

 

Il governo del presidente palestinese Mahmoud Abbas è sostenuto da migliaia di membri delle forze di sicurezza e di polizia da poco addestrati, il cui obiettivo dichiarato è l’eliminazione dei gruppi islamisti che possono rappresentare una minaccia per il potere del governo – ovvero Hamas e i suoi sostenitori. 

Sotto gli auspici del Tenente Generale Keith Dayton, coordinatore della sicurezza americana, queste forze di sicurezza ricevono una formazione pratica da personale militare canadese, britannico e turco in un centro di addestramento nel deserto, in Giordania.

Il programma è stato accuratamente coordinato con ufficiali di sicurezza israeliani. A partire dal 2007, il Centro internazionale di addestramento della polizia in Giordania ha formato e schierato 5 battaglioni della Forza di sicurezza nazionale Palestinese in Cisgiordania. Entro la fine del mandato di Dayton, nel 2011, il progetto da 261 milioni di dollari vedrà 10 nuovi battaglioni di sicurezza, uno per ciascuno dei 9 governatorati della Cisgiordania, più un’unità di riserva.

Il loro scopo è chiaro. Parlando davanti a una sottocommissione delle Camera dei Rappresentanti, nel 2007, Dayton definì il progetto come “davvero importante per portare avanti i nostri interessi nazionali, fornire sicurezza ai palestinesi e preservare e proteggere gli interessi dello stato di Israele”.

Altri sono stati persino più espliciti a proposito della funzione di queste forze di sicurezza. Quando Nahum Barnea, un esperto corrispondente israeliano specializzato in questioni legate alla difesa, nel 2008 ha assistito ad un incontro di coordinamento di massimo livello tra comandanti palestinesi e israeliani, ha detto di essere rimasto sbalordito da quanto aveva sentito. 

“Hamas è il nemico, e abbiamo deciso di muovergli una guerra totale”, ha detto Majid Faraj, l’allora capo dell’intelligence militare palestinese ai comandanti israeliani, secondo quanto riferito da Barnea. “Ci stiamo occupando di ogni istituzione di Hamas in conformità con le vostre istruzioni”.

 

Dopo la presa del potere da parte di Hamas a Gaza

 

Quando Dayton arrivò negli ultimi giorni del 2005, la sua missione di era quella di creare una forza di sicurezza palestinese apparentemente incaricata di opporsi alla resistenza palestinese. Il progetto ebbe inizio a Gaza. Sean McCormack, al tempo un portavoce del Dipartimento di Stato americano, spiegò il ruolo di Dayton come “il vero lavoro tecnico, di formazione e di equipaggiamento, nel contribuire a costituire le forze di sicurezza”.

Ma a poche settimane dal suo arrivo, le cose cominciarono ad andare in pezzi. La decisiva vittoria di Hamas alle elezioni del 2006 inaugurò un paralizzante embargo internazione contro i palestinesi a Gaza. Poco dopo, le forze di sicurezza di Hamas e Fatah iniziarono a combattere per le strade, e ciò culminò con la presa del potere da parte di Hamas nella Striscia, nel giugno del 2007.

Gli obiettivi iniziali di Dayton erano andati in fumo,  e mentre Fayyad diventava primo ministro di un governo “provvisorio” a Ramallah, veniva formulata una nuova strategia di sicurezza.

Mentre un sinistro status quo si instaurava a Gaza, la nuova missione di Dayton divenne chiara. Il compito del coordinatore della sicurezza era ora quello “di prevenire una presa del potere di Hamas in Cisgiordania”, secondo Michael Eisenstadt, ex collaboratore di Dayton.

Un attacco coordinato all’apparato civile di Hamas fu lanciato immediatamente dopo la presa del potere da parte di quest’ultimo a Gaza nel giugno 2007. Il Generale di divisione Gadi Dhamni, a capo del comando centrale dell’esercito israeliano, diresse un’iniziativa volta a colpire la base dell’appoggio di Hamas in Cisgiordania. Il piano, soprannominato Strategia Dawa, comportava l’esatta identificazione dell’esteso apparato di assistenza sociale di Hamas, il pilastro della sua popolarità tra molti palestinesi.

Omar Abdel Razeq, ex ministro delle finanze nel breve governo Hamas, spiega gli effetti di questa iniziativa. “Quando parliamo delle infrastrutture parliamo delle società, delle cooperative e delle istituzioni che erano preposte all’aiuto dei poveri”, dice. “Loro hanno fatto fuori le infrastrutture di Hamas”.  Il Generale di Brigata Michael Herzog, capo di stato maggiore di Ehud Barak, il ministro della Difesa israeliano, ha riassunto il punto di vista degli israeliani sul progetto. “Dayton sta facendo un ottimo lavoro”, ha detto. Siamo molto contenti di quello che sta svolgendo”.

 

Le accuse di tortura

 

La strategia Dawa ha visto più di 1.000 palestinesi imprigionati dalle forze dell’Autorità Palestinese (ANP). Gli arresti – sebbene concentrati su Hamas e sui suoi sospetti alleati – hanno toccato un ampio strato della società palestinese, e tutte le fazioni politiche. Hanno preso di mira assistenti sociali, studenti, insegnanti e giornalisti. Ci sono state regolari irruzioni nelle moschee, nei campus universitari e negli enti benefici, e ripetute accuse di torture, a carico degli ufficiali delle forze di sicurezza finanziate dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Tali accuse includono diversi decessi avvenuti  in prigione.

Nel mese di ottobre, Abbas ha emanato un decreto contro le forme di tortura più violente usate dalle sue forze di sicurezza e ha sostituito il suo ministro dell’interno, il Generale Abdel Razak-al-Yahya, partner di vecchia data di Israele e degli Stati Uniti, con Said Abu Ali. Sebbene si sia registrato un miglioramento a partire dall’emanazione del decreto, gli attivisti dei diritti umani hanno sostenuto che i cambiamenti non sono sufficienti.  “Non è ancora previsto nessun processo, ancora non è stata fornita alcuna giustificazione legale per molti degli arresti, e i civili sono ancora trascinati in giudizio davanti alle corti militari”, dice Salah Moussa, un avvocato della Commissione Indipendente per i Diritti Umani (Independent Commission for Human Rights, ICHR, istituzione creata nel 1993 tramite un decreto dell’allora presidente palestinese Yasser Arafat (N.d.T.) ).

Il Generale di divisione Adnan Damiri, portavoce delle forze di sicurezza palestinesi, ha riconosciuto che sono stati commessi atti illeciti ma li ha classificati come atti individuali, e non dettati dalla politica.
“A volte ci sono stati ufficiali e soldati che hanno commesso errori in questo senso, compresa la tortura”, ha detto Damiri. “Ma adesso li stiamo punendo”. Damiri ha citato 42 casi di tortura negli ultimi 3 mesi che hanno comportato varie forme di sanzioni, compresa la perdita del grado. Sei soldati sono stati mandati in congedo a causa delle loro azioni. Ma nelle strade, il clima è peggiorato da quando i servizi di sicurezza spalleggiati dall’estero hanno stretto la loro morsa in Cisgiordania.

Naje Odeh,  leader di una comunità di sinistra nel campo di Deheishe, che  gestisce un centro per la gioventù, ha descritto l’apparato di sicurezza come legato ai regimi della Giordania e dell’Egitto, alleati degli Stati Uniti. Odeh dice che le forze di sicurezza che compiono i raid sanno che ciò che stanno facendo è sbagliato. “Perché hanno il volto coperto? “, domanda retoricamente. “Perché noi conosciamo queste persone. Conosciamo le loro famiglie. Essi si vergognano di quello che stanno facendo”.

Alcuni temono che il comportamento delle forze di sicurezza addestrate dagli Stati Uniti e dall’UE faranno scoccare la scintilla di uno scontro potenzialmente mortale. “Se loro attaccano le tue moschee, le tue scuole, le tue società, tu puoi essere paziente, ma per quanto?”, domanda un leader islamico in Cisgiordania.

Abdel Razeq, ex ministro delle finanze di Hamas, è più esplicito nelle sue previsioni, e dice: “Se le forze di sicurezza insistono a difendere gli israeliani, questa è una ricetta per la guerra civile”.

 

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BREVI DA ISRAELE.NET Una delegazione dell'Unione Europea alla Knesset

17/02/2010 Una delegazione dell'Unione Europea in visita martedì alla Knesset per colloqui con il suo presidente Reuven Rivlin e con altri parlamentari. Il capo della delegazione europea, Bastien Belder, ha detto che “requisito per la pace nella regione è riconoscere il carattere ebraico dello stato di Israele e la sua legittimità”, per poi concludere che “qualunque tentativo di delegittimare lo stato ebraico è irricevibile per l'Unione Europea”.
17/02/2010 Soldati delle Forze di Difesa israeliane hanno scoperto in tempo, martedì mattina, una carica esplosiva di grande potenza nei pressi di Kissufim, a sud della striscia di Gaza. L'ordigno è stato disinnescato.
17/02/2010 Per il terzo anno consecutivo, l'aeroporto internazionale israeliano Ben Gurion risulta al primo posto nella classifica dei migliori aeroporti del Medio Oriente prodotta da ACI, l'organizzazione internazionale degli aeroporti. 

 

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17 Febbraio 2010 – Esteri

DOPPIO STANDARD

I veri nemici dei palestinesi

di David A. Harris

Lo so che non dovrei più sorprendermi, ma ancora non ci riesco. In una recente edizione del New York Times, accanto ad un articolo a tutta pagina intitolato “Israele respinge le critiche per l’attacco agli edifici dell’Onu”, due pagine dopo vi era un trafiletto. Non era in tutto più lungo di otto righe, il quarto di cinque notizie sotto la voce “Brevi dal Mondo”. Ecco le prime due frasi: “Un gruppo per i diritti umani ha criticato la Giordania lunedì scorso per aver revocato la cittadinanza a quasi 3.000 giordani di origine palestinese nel corso degli ultimi anni. Preoccupata dal crescente numero dei palestinesi, i quali costituiscono ormai quasi la metà della popolazione, la Giordania ha cominciato nel 2004 a revocare la cittadinanza ai palestinesi che non hanno il permesso israeliano di risiedere nella Cisgiordania“. A parte la scarsa copertura giornalistica di quella che è, dopo tutto, una notizia importante – migliaia di persone che perdono la loro cittadinanza in un Paese che cerca di volgere in suo favore il suo delicato equilibrio demografico – c’è, chiaramente, un altro problema. E a parte il gruppo che ha dato l’allarme per questa politica vecchia di anni, dove sono le grida di protesta? Quando Israele è accusato, anche ingiustamente, di qualsiasi misfatto ai danni dei palestinesi, il chiasso è immediato e assordante. Ma quando capita che gli amici arabi infliggano danni reali ai palestinesi, vi è a stento un sussulto. Da quando la storia è saltata fuori, oltre una settimana fa, ho cercato invano editoriali, interventi, commenti, lettere aperte e lettere al direttore sulla questione della politica della cittadinanza. Non ne ho trovata una. Ho controllato i comunicati delle fonti che di solito professano di tenere al destino dei palestinesi – l’Assemblea Generale dell’Onu, il Consiglio dei Diritti umani dell’Onu, il Relatore Speciale dell’Onu sui Territori palestinesi, la Lega Araba, l’Organizzazione della Conferenza Islamica e il Movimento Non Allineato, fra gli altri – e non ho trovato niente. Ho guardato agli individui e ai gruppi di solito loquaci, per i quali il problema palestinese costituisce l’alfa e l’omega delle questioni inerenti ai diritti umani – il primo e l’ultimo esempio di rifugiati mai prodotto da un conflitto – e ho visto solo una lavagna bianca. Silenzio dal sindaco di Malmo. Silenzio dall’Unione Studentesca della Scuola Londinese di Economia. Silenzio dall’Unione dei sindacati britannici che vogliono boicottare Israele. Bene, ci siamo spiegati. In altre parole, quando Israele intraprende un’azione per difendersi, le forze pro-palestinesi in tutto il mondo sono pronte all’avviso a mobilitarsi in un istante con sedute di emergenza, indignazione ipocrita, risoluzioni infuocate, proteste adirate, boicottaggi, campagne di lettere alla stampa e inserzioni fuori misura. Eppure, queste stesse forze sono assenti ingiustificati se Israele non è coinvolto. Semplicemente, non vogliono essere infastidite. All’improvviso, la loro ”angoscia“ riguardo alla causa palestinese, evapora in un attimo. E, chiaramente, questo non è il primo di tali esempi.

Eccone altri due. Nel 1990, Saddam Hussein ordinò all’esercito iracheno di occupare il Kuwait, affermando che fosse una provincia dell’Iraq. Dopo che le truppe irachene furono cacciate, gli ufficiali del Kuwait ordinarono l’espulsione di circa 400mila palestinesi che avevano vissuto nel Paese, in alcuni casi per decenni. I palestinesi furono accusati di aver servito come quinta colonna per l’Iraq. E furono espulsi. Pensateci un attimo. Una comunità intera fu identificata come sovversiva e cacciata via in massa. Un passo abbastanza pesante da parte di un governo che non offre nessun ricorso giudiziale, nessun diritto di appello, e nessuna compassione per le vite spezzate. Dove erano le forze pro-palestinesi quella volta? Di nuovo, ”missing in action“. In quel caso non potevano convogliare il loro biasimo direttamente su Israele – sebbene indirettamente biasimino tutto quello che accade ai palestinesi imputandolo sempre alla mera esistenza di Israele – così il destino di centinaia di migliaia di palestinesi kuwaitiani espulsi non provocò loro notti insonni. O che dire della situazione dei palestinesi che vivono in Libano? Secondo l’Unrwa, ci sono più di 400mila profughi palestinesi registrati dall’agenzia Onu. La maggior parte vive da decenni nel paese. In linea con la politica dell’Unrwa, non vi è alcun mandato per reinsediare questi palestinesi o le loro generazioni future. Piuttosto, sono tenuti intenzionalmente come ”rifugiati“, diversamente da qualsiasi altra popolazione al mondo. Il governo libanese ha adottato decisioni e delibere che, nel corso degli anni, sono state efficacemente pensate per i palestinesi residenti nel paese. In Libano, gli ”stranieri“, intendendo con tale termine i palestinesi, non possono esercitare in oltre 70 professioni diverse, incluso quelle mediche, legali, contabili, odontotecniche. Inoltre, i rifugiati palestinesi in Libano non possono acquistare tutt’oggi alcuna proprietà, e quelli che hanno comprato della terra prima del 2001 non possono passarla ai loro figli. Solo i cittadini libanesi hanno diritto a formare organizzazioni non governative. I rifugiati palestinesi devono farlo attraverso altri, siccome non è loro concessa l’opportunità di acquisire la nazionalità libanese. Rimedi piuttosto draconiani. Eppure, ancora una volta, dov’è la morale oltraggiata di quelli che esprimono preoccupazione per il benessere del popolo palestinese? Perché questo significativo silenzio? Già, lo avevo dimenticato. Non è Israele che pone restrizioni rigide allo svolgimento delle attività professionali dei palestinesi, all’acquisto di terra, o alla formazione di associazioni civiche, e quindi tutto ciò non passa come una causa degna di essere perseguita. Se questo non è un caso di ipocrisia rampante e di evidente doppio standard, che cos’è?

* Direttore American Jewish Committee (www.ajc.com)

Traduzione italiana di Carmine Monaco

 

 

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Israele: il documento dell'UE non genera sviluppi sullo status di Gerusalemme

L'8 dicembre scorso l'Unione Europea è intervenuta nella disputa su Gerusalemme, approvando una risoluzione secondo la quale occorre risolvere, attraverso negoziati, lo status della città, quale come futura capitale di due Stati. Tuttavia il testo finale della dichiarazione si discosta dalla bozza originale preparata dalla Presidenza svedese dell'UE, la quale prevedeva una soluzione a due Stati con lo Stato di Palestina contiguo, indipendente, democratico e autosufficiente comprendente la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e con Gerusalemme Est capitale. Pur riconoscendo illegittime le politiche israeliane nei Territori Occupati, l’UE ancora non ha una politica ben definita nei confronti della questione palestinese, oltre che nell'atteggiamento da tenere nei confronti di Hamas.

Mariachiara Cazzola

La versione iniziale e le conclusioni del consiglio UE

L’iniziativa rappresentata dalla proposta dell’ex Presidenza di turno dell’Unione Europea svedese, avrebbe dovuto portare al riconoscimento da parte dell’UE di Gerusalemme Est quale capitale del futuro Stato Palestinese. Nella versione originale del testo, si legge: “l’Unione Europea richiede una ripresa urgente dei negoziati che porteranno, entro un lasso di tempo concordato, a una soluzione a due Stati con uno Stato di Palestina contiguo, indipendente, democratico e autosufficiente, che comprenda Cisgiordania e Gaza e con Gerusalemme Est come sua capitale, che viva fianco a fianco con lo Stato di Israele in pace e sicurezza”. I 27 Ministri hanno infine adottato, invece, una formula di compromesso, chiedendo che Gerusalemme Est sia contemporaneamente capitale di due Stati, ma dal testo della dichiarazione è stato rimosso ogni riferimento all'inclusione di Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza nel futuro Stato di Palestina. L’UE ha deliberato che l’assetto definitivo di Gerusalemme dovrà essere raggiunto attraverso negoziati tra israeliani e palestinesi: con ciò si evince che all’interno del Consiglio hanno avuto la meglio le posizioni di quei Paesi, tra cui l'Italia, che guardano con preoccupazione ad un'interferenza europea sugli esiti del negoziato, perché secondo quanto sostenuto dal ministro degli Esteri italiano Frattini: “Decidere qui a Bruxelles quale debba essere lo status di Gerusalemme Est frustrerebbe lo scopo stesso dei negoziati”. 

Nel resto del documento non sono stati fatti cambiamenti meritevoli di attenzione tra la bozza iniziale redatta dalla presidenza svedese e quella ufficialmente adottata dal Consiglio. È tuttavia importante mettere in evidenza come l’UE, seppur ancora orientata per una soluzione che ponga al centro il negoziato bilaterale, abbia fatto piccoli passi verso una più decisa presa di pozione. Il Consiglio afferma infatti che l’UE non riconoscerà nessun cambiamento riguardo ai confini del 1967, a meno che non siano concordati dalle parti; cosa più importante, i 27 ribadiscono il loro impegno nel supportare ulteriormente gli sforzi e i progressi verso uno Stato palestinese che, al momento opportuno, saranno pronti a riconoscere. Una maggior delucidazione della politica europea riguardo al processo di pace in Medio Oriente si è avuta il 15 dicembre scorso da Catherine Ashton, da poco alla guida della Politica Estera e di Sicurezza Comune al Parlamento Europeo. Nello specifico la rappresentante per la politica estera e di difesa ha ribadito che Gerusalemme è territorio occupato come il resto della West Bank, che l’UE si oppone alla politica di colonizzazione, di espulsione e di distruzione di case palestinesi nonché all’edificazione della “barriera di separazione”.

Motivazioni ed esiti della dichiarazione europea

Certamente i Palestinesi sono rimasti delusi perché, essendo trapelata la bozza originale del documento, le loro aspettative erano di gran lunga più grandi. Tuttavia, come afferma il Primo Ministro dell'ANP, Salam Fayyad, la risoluzione rappresenta una tappa importatane poiché, oltre a dichiarare illegittima la posizione di Israele, chiede di fermare gli insediamenti nei Territori Palestinesi occupati e rifiuta le pratiche israeliane a Gerusalemme. Sull’altra sponda, prima dell’approvazione definitiva del documento europeo, la Knesset aveva già accolto in via preliminare (68 voti contro 22) un emendamento che impone di sottoporre a referendum popolare qualunque accordo di pace che preveda la cessione del controllo israeliano su Gerusalemme Est o sulle alture del Golan.

Quanto all’UE i motivi che hanno portato a questa dichiarazione risiedono nella effettiva preoccupazione per lo stallo del processo di pace in Medio Oriente e dall'urgenza di riprendere i negoziati. Tuttavia molto probabilmente il motivo principale dimora nella sospensione temporanea, di 10 mesi, dei nuovi insediamenti nei Territori occupati decisa dal parlamento di Tel Aviv il 25 novembre scorso (dopo aver autorizzato appena dieci giorni prima la costruzione di 900 nuove costruzioni nell'insediamento ebraico di Ghilo, quartiere di Gerusalemme Est). Secondo il premier israeliano Netanyahu, questa mossa avrebbe dovuto spingere i palestinesi a tornare al tavolo dei negoziati: in realtà non ha avuto l'effetto sperato anzi, al contrario, ha contribuito ad aumentare la frustrazione palestinese dato che sono state escluse dalla moratoria proprio quelle aree di Gerusalemme che i palestinesi rivendicano come loro futura capitale. Detto ciò la dichiarazione europea, per lo meno quella originale, era finalizzata a rassicurare i palestinesi e a spingerli verso una ripresa dei negoziati, evitando un eccessivo irrigidimento del Premier israeliano, il quale finora ha sempre rifiutato qualsiasi concessione su Gerusalemme Est.

L'UE condanna gli insediamenti israeliani

Secondo il diritto internazionale e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite, le regioni della Cisgiordania, Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza, sono classificate come territorio occupato. Detto ciò è opportuno inquadrare più adeguatamente la posizione europea riguardo agli insediamenti in tali zone: l’UE sanziona le politiche israeliane sia nel settore arabo della città che nel resto della Cisgiordania, a partire dalle demolizioni di case arabe alle espulsioni di intere famiglie palestinesi. Inoltre nell’articolo 2 dell’Accordo di Associazione con lo Stato d’Israele è stabilito che quest’ultimo deve rispettare i diritti umani come condizione preliminare per la cooperazione economica con gli Stati membri dell’UE. Nonostante ciò, gli Stati UE non hanno ancora intrapreso misure congiunte volte a contrastare l’importazione di merci prodotte negli insediamenti illegali israeliani. In più, continuano i piani di edificazione: il 17 novembre 2009, la commissione del Ministero israeliano degli Interni ha approvato la costruzione di 900 nuove unità abitative nel quartiere di “Ghilo” (insediamento a sud di Gerusalemme Est). Inoltre il 4 gennaio scorso, il comitato di organizzazione del Comune israeliano di Gerusalemme ha concordato la prima fase di un nuovo quartiere di insediamento nei pressi di una scuola ebraica nella zona del Monte degli Ulivi. 

La prima fase prevede la costruzione di 4 edifici comprendenti 24 unità abitative. Questo progetto mira a creare una contiguità tra l’insediamento del Monte Scopus e quello del Monte degli Ulivi e ha come scopo finale l’accerchiamento completo della città vecchia con insediamenti israeliani. Nel frattempo proseguono anche demolizioni di edifici palestinesi: nella mattina di martedì 17 novembre le forze israeliane hanno abbattuto un appartamento a Nord di Gerusalemme di 108 metri quadrati in cui vivevano 11 persone e sempre nella stessa mattina hanno demolito un'altra casa in cui ne abitavano 30; ancora, il 18 novembre il comune israeliano di Gerusalemme ha emesso un ordine di demolizione contro un condominio di 25 appartamenti nella zona occupata di Gerusalemme est: circa 275 persone, compresi 180 bambini, vivevano in queste case e appartamenti. Secondo le indagini condotte dal Palestinian Centre of Human Rights, dall'inizio del 2009 Israele ha rilasciato circa 2.300 ordini di demolizione nell’intera Cisgiordania. In tutto a Gerusalemme Est, nel periodo di gennaio-settembre 2009, i progetti edili hanno registrato un aumento del 25% rispetto all'anno precedente, in coerenza con la nuova tendenza adottata dal governo israeliano che, da una parte, ha aumentato le concessioni nella parte araba della città, mentre dall'altra ha limitato sensibilmente quelle della Cisgiordania (in questa politica rientra infatti l'annuncio di congelare temporaneamente le colonie ebraiche nei Territori palestinesi occupati, ma solo nel resto della Cisgiordania).

L'UE nei confronti di Hamas

Al contrario l’UE non ha una politica ben definita riguardo ad Hamas, in quanto da un lato l’ha dichiarata nel 2003 “organizzazione terroristica” da isolare e combattere attivamente. Tale scelta, insieme all’adozione di misure quali l'isolamento diplomatico, il divieto di ingresso e sanzioni contro ogni organizzazione vicina al movimento queste azioni, però, hanno rafforzato la fazione ostile al dialogo e al compromesso, danneggiando le componenti meno radicali e scoraggiando, infine, l'evoluzione dell'organizzazione in senso moderato. Dall’altro lato, invece, i singoli Stati europei hanno preferito politiche autonome nei confronti di Hamas e talvolta pure concilianti. Prima in ordine di tempo è stata la Francia nel maggio 2008, anche se ha tenuto a precisare che ha avuto solo contatti e non relazioni con Ismail Haniya, ex Primo Ministro dell’ANP dopo le elezioni vinte da Hamas il 25 gennaio 2006, e Mahmud al-Zahar, membro della dirigenza di Hamas nella Striscia di Gaza. Stando alle parole del Ministro degli Esteri francese Kouchner, seppur il movimento non riconosca ancora il diritto all’esistenza di Israele, Hamas sta diventando molto più ragionevole rispetto al passato. Successivamente, nell’agosto scorso (e con maggiore intensità da ottobre in poi), la Germania ha fatto da intermediario assieme all’Egitto, nelle trattative con Hamas riguardo la liberazione del giovane caporale israeliano Gilad Shalit catturato dall’organizzazione durante un’operazione nel giugno 2006. Infine, lo scorso aprile, il leader politico di Hamas Khalid Masha’l ha tenuto un discorso con il Primo Ministro britannico Gordon Brown, in video conferenza, durante una seduta del Parlamento: tale evento è da interpretare come un possibile segno di cambiamento nei confronti di Hamas. 

Tutte queste iniziative prese dagli da attori importanti del’UE testimoniano un generale ammorbidimento della posizione europea nei confronti di Hamas. In effetti, il movimento si è reso protagonista di atti terroristici, ma è anche un movimento popolare che, con il passare del tempo, ha acquistato sempre maggiore legittimità trasformandosi in vero e proprio partito finché, nel 2006, ha vinto le elezioni per l'Autorità Nazionale Palestinese acquistando così un ruolo centrale nella politica palestinese, pur mantenendo ancora delle strutture tipiche dei movimenti di resistenza armata.

Conclusioni

Da sempre israeliani e palestinesi sono in conflitto riguardo lo status della città di Gerusalemme. I primi la considerano propria capitale indivisibile, i secondi vorrebbero fare di Gerusalemme Est la capitale del loro Stato. Inutile poi ribadire l'importanza che riveste tale questione sull’intero processo di pace israelo-palestinese. Dato che fin ad oggi è stato impossibile risolvere definitivamente tali questioni territoriali con i tradizionali meccanismi del diritto internazionale, probabilmente i negoziati rimarranno l’unica strategia per raggiungere un accordo pacifico. È opportuno precisare che, nonostante Israele abbia bloccato la costruzione di nuove colonie, tale provvedimento ha escluso proprio Gerusalemme Est. In questo senso sarebbe stata utile una posizione decisa dell'Unione Europea per risollevare il problema e farsene promotore: è vero che l’UE condanna gli insediamenti e le politiche israeliane nei Territori Occupati ma fin ora non ha preso provvedimenti a riguardo, quale potrebbe essere ad esempio un credibile blocco all’importazione di merci prodotte negli insediamenti illegali israeliani. 

La dichiarazione del Consiglio europeo rappresenta indubbiamente un progresso, fermo restando che la bozza originale sarebbe stata più incisiva nella prospettiva di un futuro accordo sia per lo status di Gerusalemme ma più in generale per il processo di pace mediorientale. L'UE sembra aver perso, in questo senso, un’occasione per dare una spinta decisiva a un quadro di pace ormai paralizzato. Infine, anche se l’UE continua a considerare Hamas un’organizzazione terroristica, non si escludono eventuali cambi di rotta in futuro. Tuttavia tali cambiamenti saranno fortemente osteggiati dagli Stati Uniti, sia per quanto riguarda Hamas (con cui rifiutano di dialogare finché non riconoscerà il diritto all’esistenza dello Stato di Israele), sia riguardo Gerusalemme, per la quale Washington sembra piuttosto appoggiare la soluzione di una città unita e capitale unica di Israele, come ribadito ultimamente anche dal Presidente Obama.

 

 

http://www.israele.net/

17-02-2010

Autorità Palestinese: guerra al terrorismo o lotta di potere?

di Adi Mintz

 

Dopo che mercoledì scorso un ufficiale della polizia palestinese ha ucciso a sangue freddo il sergente maggiore israeliano Ihab Khatib all’incrocio Tapuach, l’“uomo di pace” dell’Autorità Palestinese – il primo ministro Salam Fayyad – ha dichiarato che “questo atto va contro gli interessi palestinesi”, sostenendo che il suo popolo è unito nella protesta popolare “non violenta”. La dichiarazione non comporta neanche una parola di condanna dell’assassinio in quanto assassinio. Al contrario, essa sottolinea la legittimità della lotta limitandosi ad affermare che si preferisce venga condotta con altri mezzi.
Poche ore dopo, tre uomini a volto coperto aprivano il fuoco su un camion in transito nella parte occidentale della regione di Beniamino (Cisgiordania). L’incidente si è risolto senza vittime, ma è Fatah che ne ha rivendicato la responsabilità. Ne avevate avuto notizia? E perché mai avreste dovuto?
Anche il rabbino Meir Avshalom Hai, di Shavei Shomron, è stato assassinato (il 24 dicembre 2009) da qualche veterano delle Brigate Martiri di al-Aqsa, un gruppo terroristico che fa capo alla fazione Fatah guidata da Mahmoud Abbas (Abu Mazen): la stessa organizzazione che ha invocato la distruzione di Israele nell’ultimo congresso di Fatah a Betlemme (agosto 2009).
Non l’ha inventata Abu Mazen, questa tecnica. L’ha ereditata da Yasser Arafat, il leader che fondò il “movimento politico” Fatah e ne istituì i bracci “militari”: Tanzim e Brigate al-Aqsa.
Ma l’Autorità Palestinese vanta anche un esercito “rispettabile”, sottoforma delle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese addestrate dal generale americano Keith Dayton. Lo stato d’Israele, con una ingenuità che rasenta il suicidio, appoggia queste forze, consegna loro armi e si aspetta che esse “combattano il terrorismo”, ignorando il fatto che si tratta sempre della stessa gente, solo che ogni volta ricevono lo stipendio da qualcuno di diverso.
Fatah è la principale organizzazione in tutto l’establishment palestinese di Giudea e Samaria (Cisgiordania); è la maggiore componente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), che è l’organismo che ha firmato i trattati con Israele; e controlla l’Autorità Palestinese. Eppure alcuni ancora si illudono che il suo braccio militare combatta il suo braccio terrorista: come se la mano destra picchiasse la mano sinistra. Probabilmente loro se la ridono.
Tuttavia queste informazioni non sono novità per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il ministro della difesa Ehud Barak e altri alti funzionari. Conoscono bene tutto questo. Ma come si potrebbe istituire altrimenti lo stato palestinese? In un certo modo, hanno già impacchettato in un bel cellophane questo mostro che metterà in pericolo l’esistenza di Israele. Dopotutto questi leader hanno già dichiarato che, senza l’istituzione di uno stato palestinese, lo stato di Israele non potrebbe mantenere la propria maggioranza ebraica. Il problema è che da un cocktail di Tanzim, Brigate al-Aqsa e forze di Dayton non verrà fuori affatto uno stato.
Dopo che Abu Mazen ha partecipato, circa un mese fa, alla cerimonia per intitolare una piazza di Ramallah alla terrorista che assassinò decine di israeliani nell’attentato del 1978 sulla strada litoranea, Netanyahu ha detto al governo che “le parole possono essere pericolose e su questo fronte assistiamo ultimamente a un deterioramento nell’Autorità Palestinese”. E ha spiegato: “Coloro che dichiarano ‘martiri’ gli assassini del rabbino Meir Hai allontanano sempre di più la pace”. Ebbene, l’ha detto, e poi come sempre è tornato ad approvare il trasferimento di fondi ai terroristi.
Si provi a pensare cosa capisce un giovane del campo palestinese di Kalandia o del villaggio di Yaabad, presso Jenin, quando vede il suo leader che presenzia all’inaugurazione di quella piazza a Ramallah. Chi potrebbe sorprendersi se quel giovane, una volta diventato agente della polizia palestinese come Muhammad Khatib, si darà all’uccisione di ebrei? Dopo tutto Muhammad Khatib deve essersi detto: “Diventerò un martire, faranno un monumento in mio onore e (il primo ministro palestinese) Salam Fayyad presenzierà alla cerimonia dell’inaugurazione. E poi, sì, dirà che è meglio tirare pietre agli ebrei anziché ammazzarli a coltellate”.
Viceversa, qualcuno riesce a immaginare il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che presenzia a una cerimonia per inaugurare – che so – un monumento alla memoria di Baruch Goldstein a Hebron?
La cosa più grottesca sono gli elogi che si sono sentiti rendere ultimamente alle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese per la loro cooperazione nella guerra al terrorismo. Ma stanno veramente combattendo le Brigate al-Aqsa, vale a dire il braccio armato di Fatah? Ovviamente no. Semplicemente combattono, a tratti e alla loro tipica maniera banditesca, contro le Brigate Izz al-Din al-Qassam, affiliate a Hamas. Ma questa non è guerra al terrorismo: è solo una sanguinosa lotta di potere, una guerra fra bande rivali che crea l’illusione – solo l’illusione – di una lotta al terrorismo sotto il patrocinio delle forze israeliane.

 

http://www.agenziami.it/subsection/6/36/Esteri/Medio+Oriente/

IL MURO INVISIBILE

Medio Oriente, gli Avatar che portano la Kefya e resistono ad Israele

Singolare iniziativa dei comitati popolari di Bil'In. L'esercito di occupazione carica i palestinesi dalla pelle blue

Protesta in stile Avatar nel villaggio palestinese di Bil'in. La comunità, molto attiva nel rifiutare il muro d'apartheid imposto dallo stato occupante, sta per perdere gran parte del proprio territorio che verrà annesso a Israele. Un' occupazione ulteriore rispetto quella denunciata dalle Nazioni Unite dopo la guerra del 1967. Ogni venerdì, palestinesi del villaggio, pacifisti israeliani e internazionali si radunano per non far cadere l'attenzione sulla sorte del villaggio. La scorsa settimana l'esercito israeliano ha sparato lacrimogeni e bombe assordanti contro gli Avatar palestinesi. Bil'in come Pandora quindi. Gli israeliani come i cattivi colonizzatori che vengono dalla Terra.

Contro il muro in Cisgiordania. Contro il muro che sottrae ulteriore terra rispetto quella occupata nella guerra nel 1967. Contro quel muro che il premier Berlusconi non vede, indaffarato a rivedere appunti, ma che strozza l'economia palestinese fino ad asfissiarla, rendendola dipendente della sola economia israeliana. Ma al di là delle dilanianti politicizzazioni c'è una comunità che ogni santo venerdì urla contro il muro. Coordinati da Stop The Wall portano militanti internazionali dinanzi la barriera a urlare quanto quei nove metri d'altezza di apartheid siano disdicevoli. «La presenza di internazionali serve a garantire l'incolumità anche dei palestinesi – spiegava un appartenente dei comitati nel 2008 – così l'esercito israeliano ha qualche remora in più rispetto lo sparare per uccidere».

Un villaggio circondato da colonie
Ad essere particolarmente attivo nelle proteste è il villaggio di Bi'lin. Circondato da ben cinque colonie (o insediamenti per usare una parola political correctly rispetto la pratica di occupazione israeliana), tre a oriente, verso il cuore della Cisgiordania e due a occidente, verso il mar mediterraneo, la cittadina agraria rischia l'isolamento.  Un isolamento forzato dal muro che annetterebbe di fatto le colonie di Modi'in Ilit e Lapid Menora alla terra già occupata nel 1967, mentre lascerebbe Talmon Dolev, Na'Ale e Nili sulla strada che da Bi'lin porta alla capitale provvisoria amministrativa Ramallah.

La resistenza popolare
Qui dal 2005 i cittadini hanno dato vita ad un comitato popolare. Ogni venerdì, uomini, donne, bambini e internazionali manifestano davanti alla porta del muro che separa i 1.700 abitanti dalla loro terra e dal resto della Palestina. C’è chi s’incatena agli alberi di olivo e chi proietta con gli specchi slogan sui soldati israeliani. Una resistenza pacifica che spesso ha innervosito l'esercito di el Aviv che in diverse occasioni ha occupato il villaggio. Una sera l’esercito di Tel Aviv ha reagito alla resistenza popolare di Bil’in invadendo il villaggio.
L'utopia oggi è la Palestina, una Pandora reale
«È indispensabile non far cadere l'attenzione mediatica sulla sorte del nostro villaggio», spiega Mohammed Khatib, da qui l'ultima trovata: un presidio verso le porte che strozzano l'antico centro palestinese in stile Avatar. La storia di Na'vi, l'eroina di Pandora, come quella di una moltitudine di ragazze palestinesi. Una società incontaminata, tra oliveti e terra, messa a ferro e fuoco dall'avamposto che rappresenta la parte peggiore dell'Occidente. Una bella provocazione che fatichiamo a comprendere.

 

 

 

 

 

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