Rassegna stampa del 17 marzo.

Rassegna stampa del 17 marzo.

A cura di Chiara Purgato

http://www.ansa.it/

Gerusalemme: riaperta Spianata Moschee

Riaperti anche i valichi di transito con la Cisgiordania

17 marzo, 10:15

(ANSA) – GERUSALEMME, 17 MAR – Dopo gli scontri di ieri con dimostranti palestinesi, la polizia di Gerusalemme ha riaperto stamani la Spianata delle Moschee. L'ingresso, ha precisato la radio militare, e' garantito sia ai musulmani sia agli ebrei.

Nel contempo la polizia mantiene una forte presenza nelle strade di Gerusalemme est per prevenire possibili disordini. In precedenza si era appreso anche della riapertura dei valichi di transito fra Gerusalemme e la Cisgiordania dopo una chiusura di circa una settimana.

http://www.rinascita.eu/index.php

Palestina: l’urlo di un popolo oppresso

 

     

 

di: Matteo Bernabei

Il governo israeliano ci ha provato in tutti i modi, impedendo per 5 giorni di entrare o uscire dalla Cisgiordania, negando l’accesso agli arabi alla spianata delle moschee, rafforzando i controlli a tutti i checkpoint dei territori occupati e schierando nella sola Gerusalemme est più di 3000 agenti di polizia, eppure il popolo palestinese è riuscito comunque a far sentire la propria voce. Migliaia di persone si sono riversate ieri nelle piazze, da Gaza a Ramallah, nei campi profughi e fin dentro il quartiere vecchio della Città Santa, per manifestare contro l’oppressione e le continue provocazioni di Tel Aviv. Una risposta di massa alla chiamata di Hamas che aveva invitato i “palestinesi a considerare martedì come un giorno di rabbia contro la politica dell’occupazione israeliana contro la moschea di al Aqsa”. “Con il nostro sangue, la nostra anima, noi ci sacrifichiamo per te, Gerusalemme”, è stato il coro che ha fatto da inno alla giornata, cantato da tutti, studenti, donne vecchi e bambini, tra le bandiere palestinesi.
Come era prevedibile, però, le proteste sono sfociate ovunque in violenti scontri con le “forze dell’ordine” israeliane che non hanno esitato a usare fin da subito le maniere forti nei confronti dei manifestanti. La polizia ha utilizzato per disperdere le folle sia i mezzi “classici” come proiettili di gomma e lacrimogeni, sia quelli meno convenzionali come le bombe sonore. Da sottolineare che tutte queste armi sono solo in teoria non letali e le vittime delle manifestazioni del venerdì a Bilin ne sono una prova tangibile. Non è bastato, tuttavia, nemmeno questo a fermare la marcia di protesta del popolo palestinese che ha partecipato compatto alla giornata della rabbia. Il bilancio finale e di un centinaio di feriti, una decina dei quali in modo grave, e “diversi arresti” annunciati dal portavoce delle forze armate israeliane, che però non ha saputo indicare il numero esatto. Ma la polizia israeliana non si è limitata, si fa per dire, ostacolare le marce dei manifestanti.
Molti giornalisti inviati sul posto dalle diverse emittenti locali e degli altri Paesi arabi, infatti, hanno rivelato di essere stati costretti dalla polizia di Tel Aviv in molte occasioni abbandonare i luoghi dello scontro sia a Gerusalemme che a Ramallah. Ancora più forte invece la censura israeliana nei confronti dei reporter che si trovavano nei pressi dei checkpoint, ai quali è stato impedito di riprendere e scattare fotografie e addirittura, in alcuni casi, è stata sequestrata la videocamera. Nonostante tutto però l’obiettivo è stato centrato. Il popolo palestinese ha vinto i vincoli sionisti e ha gridato come un solo uomo il proprio dolore e la propria voglia di libertà. Questa volta la protesta ha trovato spazio persino nei maggiori mezzi di informazione nostrani, che più volte in passato hanno affossato il grido di aiuto della Palestina.
A fare da cornice a questa giornata, che certo rimarrà nella memoria di molti, da una parte e dall’altra, anche l’ombra di una possibile nuova provocazione. Da più parti esperti locali e imam hanno sostenuto l’ipotesi che l’inaugurazione della nuova sinagoga nel quartiere vecchio di Gerusalemme, casus belli che ha portato all’ondata di proteste, non è altro che un primo passo per mettere le mani sulla spianata delle moschee dove potrebbe sorgerne un’altra ancora più grande. La sinagoga appena inaugurata, infatti, è stata ricostruita per la terza volta e secondo alcuni rabbini questo corrisponderebbe a quanto detto in un’antica profezia dove viene collegata la terza inaugurazione con il periodo del “Terzo Tempio”. Periodo che da alcuni gruppi radicali ebraici potrebbe essere usato come scusa per rivendicare il diritto a entrare in possesso della spianata delle moschee, dove secondo la tradizione duemila anni fa sorgeva il tempio biblico. Se questo accadesse davvero al periodo del terzo tempio seguirebbe certamente anche la terza Intifada.

 

http://www.osservatorioiraq.it/index.php

 

Palestina, migliaia di persone in piazza per la “giornata della rabbia”


Osservatorio Iraq, 16 marzo 2010

Migliaia di palestinesi sono scesi in piazza in Cisgiordania e nella striscia di Gaza per protestare contro la politica di colonizzazione portata avanti da Israele a Gerusalemme Est e contro l'inaugurazione della sinagoga di Hurva, all’interno della città vecchia occupata. 

I manifestanti – per lo più studenti – hanno risposto all’appello per una “giornata della rabbia” lanciato dal movimento islamico Hamas contro quella che è stata definita l’ennesima “provocazione” dello Stato ebraico.

A Gerusalemme si sono registrati duri scontri tra polizia israeliana e i manifestanti. Cortei importanti si sono tenuti a Gaza City e in altre località e campi profughi della Striscia, come Jabaliya, Beit Lahiya, Khan Yunes e Rafah. 

Nelle stesse ore il capo dell’ufficio politico di Hamas in Siria ha chiamato i palestinesi a una terza Intifada (rivolta) contro Israele. 

“L'Intifada – ha dichiarato ad al-Jazira – deve ricevere il sostegno di tutta la società palestinese. Ogni palestinese si eve ribellare contro le forze di occupazione”.

Intanto permane il gelo diplomatico fra Israele e Stati Uniti, scatenato dall’annuncio israeliano della costruzione di 1600 nuovi alloggi per i coloni a Gerusalemme Est. 

George Mitchell, inviato di Washington in Medio Oriente, ha rimandato la sua visita ufficiale prevista per questa settimana, in attesa di ricevere un chiarimento da parte del governo di Tel Aviv.

 

http://www.ilsole24ore.com/

Duello all'ombra tra Obama e Israele

 

Il 16 gennaio, due giorni dopo il terribile terremoto che ha portato devastazione e morte ad Haiti, un gruppo di alti esponenti militari del Comando centrale degli Stati Uniti (Centcom), responsabile della sicurezza americana in Medio Oriente, arrivava al Pentagono per riferire al Capo di stato maggiore, ammiraglio Michael Mullen, sulla situazione del conflitto israelo-palestinese. 
Il team era stato espressamente inviato dal comandante del Centcom, generale David Petraeus, per rendere note le sue crescenti preoccupazioni relative al mancato progresso nella risoluzione del conflitto. La relazione in Power Point – 33 diapositive per una durata di 45 minuti – lasciava sbigottito Mullen. 

Dal rapporto emergeva infatti che tra i leader arabi è crescente la sensazione che gli Stati Uniti siano del tutto incapaci di opporsi a Israele, che la componente araba del Centcom ha perso fiducia nelle promesse americane; che l'intransigenza d'Israele nel conflitto israelo-palestinese ha danneggiato e compromesso l'autorevolezza degli Stati Uniti nella regione e che lo stesso George Mitchell (l'emissario statunitense per il Medio Oriente, ndr) era – come ha riferito senza mezzi termini più tardi anche una fonte di alto grado del Pentagono – «troppo vecchio, troppo lento, troppo in ritardo». 

Un fatto inedito 
Il rapporto fatto a Mullen a gennaio non ha precedente alcuno: nessun comandante del Centcom, in passato, si è mai espresso in relazione a quella che, in fondo, è una questione politica. Ecco perché i suoi interlocutori sono stati cauti nel riferirgli che le loro conclusioni si basavano su una visita nella regione effettuata nel dicembre 2009, nel corso della quale – su precise direttive di Petraeus – hanno conferito con leader arabi di alto livello. 

«Ovunque andassero, le notizie erano alquanto umilianti», ha riferito una fonte anonima del Pentagono a conoscenza del rapporto. «Non soltanto l'America è considerata debole, ma oltretutto la sua potenza militare nella regione è messa in dubbio e vista come logora». 

Ma c'è ancora dell'altro: due giorni dopo il briefing a Mullen, Petraeus ha spedito un documento alla Casa Bianca chiedendo che Cisgiordania e Gaza (che insieme a Israele sono di competenza dell'Eucom, European Command) siano annesse alla sua area operativa. La spiegazione addotta da Petraeus non lascia adito a dubbi: con le truppe statunitensi dispiegate in Iraq e in Afghanistan, l'esercito statunitense deve essere considerato dai leader arabi impegnato anche in quella regione così travagliata. 

Su quest'ultimo episodio, una fonte militare di alto grado ha smentito che Petraeus abbia fatto pervenire un documento alla Casa Bianca. Con una e-mail a me indirizzata, è stato precisato che «un team di Centcom ha sì ragguagliato il capo di stato maggiore in relazione alle preoccupazioni che emergono per la questione palestinese, e Centcom ha suggerito alcuni cambiamenti, ma lo ha fatto al capo di stato maggiore e non alla Casa Bianca. Il generale Petraeus non sa con certezza quali parti del rapporto inviato allo stato maggiore possano essere poi arrivate alla Casa Bianca». 

In ogni caso, il rapporto a Mullen e la richiesta di Petraeus hanno avuto sulla Casa Bianca l'effetto di una bomba. Se la richiesta di Petraeus di estendere alla Palestina le competenze del Centcom è stata respinta («era già lettera morta ancora prima di arrivare», conferma un funzionario del Pentagono), l'amministrazione Obama ha deciso di raddoppiare i suoi sforzi nella regione, esercitando pressioni ancora una volta su Israele per la questione degli insediamenti, inviando Mitchell in visita in varie capitali arabe e spedendo Mullen a un incontro meticolosamente programmato con il capo di stato maggiore israeliano, il generale di corpo d'armata Gabi Ashkenazi. 

Mentre la stampa americana congetturava che la visita di Mullen riguardasse l'Iran, di fatto il capo di stato maggiore ha trasmesso un messaggio secco e inequivocabile sul conflitto israelo-palestinese: Israele deve considerare il conflitto con i palestinesi in un «ambito più ampio, a livello regionale», suscettibile quindi di avere un impatto diretto sulla posizione dell'America nella regione. Si credeva che Israele avrebbe sicuramente afferrato il messaggio. 

Invece non è andata così: Israele non lo ha fatto. Di fronte all'annuncio da parte israeliana che il governo di Netanyahu avrebbe costruito 1.600 nuove abitazioni a Gerusalemme Est, il vice presidente Joe Biden si è sentito fortemente a disagio e l'amministrazione Usa ha reagito. Nessuno è rimasto maggiormente indignato dello stesso Biden che, secondo il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, nel corso di un colloquio riservato si è lanciato in una discussione aspra e piena di collera con il primo ministro israeliano. 

Interessi a rischio 
Non deve stupire pertanto ciò che Biden ha riferito a Netanyahu e che riflette l'importanza che l'amministrazione Usa ha attribuito al briefing di Petraeus a Mullen: «La situazione sta iniziando a farsi pericolosa per noi. Ciò che fate voi israeliani mette a repentaglio la sicurezza delle nostre truppe che combattono in Iraq, Afghanistan e Pakistan. Mette in pericolo noi e la pace nella regione». 

 

http://www.repubblica.it/

M.O.: FRATTINI, ISRAELE NON PONGA OSTACOLI ALLA PACE

Per il ministro degli Esteri, Franco Frattini, 'Europa e Stati Uniti devono mandare un messaggio molto chiaro agli amici israeliani che non e' il momento di porre ostacoli alla pace ma di sedersi intorno a un tavolo come era stato programmato'. Il capo della diplomazia italiana ha anche espresso 'grande rammarico' per il via libera di Israele alla costruzione di 1.600 nuove case per i coloni a Gerusalemme Est: 'Sono decisioni controproducenti'. .

 

http://italian.cri.cn/index.htm

Ban Ki-moon: appello alla calma a Gerusalemme Est

Il giorno 16, ora locale, il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ha lanciato un appello affinché tutte le parti si controllino a Gerusalemme Est, evitando ulteriori confitti.

Nel corso di una conferenza stampa, Ban Ki-moon ha affermato che Gerusalemme è la terra santa di tre grandi religioni e la sua posizione è uno dei principali temi dei negoziati di pace in Medio Oriente.

Ha ancora una volta condannato il recente annuncio di Israele di ampliare gli insediamenti ebraici a Gerusalemme Est. Ha affermato che partirà per Mosca la sera del 16 per partecipare alla riunione a quattro sul problema del Medio Oriente; per l'occasione cercherà con i partner internazionali un metodo per riprendere i negoziati di pace tra Palestina e Israele.

 

http://www.blitzquotidiano.it/

Il monito del generale Petraeus: “L’intransigenza di Israele danneggia gli Stati Uniti”

 

L’inflessibilità israeliana sugli insediamenti a Gerusalemme est nuoce agli Stati Uniti, parola di David Petraeus, comandante delle truppe americane. Se Washington viene percepita come “amica” di Tel Aviv a rischiare sono le truppe statunitensi in Medio Oriente e in Asia centrale. Se Israele continua a mantenere posizioni così rigide, il processo di pace non andrà avanti e ne risentiranno i già deboli equilibri dell’intera regione.

Il generale Petraeus per la prima volta entra nel merito di questioni ben al di là della difesa, parla di politica e in un briefing presentato al Pentagono a metà del gennaio scorso critica l’intransigenza ebraica nelle trattative con i palestinesi che danneggia e compromette gli Stati Uniti.

«La rabbia degli arabi aiuta al Qaeda e Hamas e aumenta l’influenza dell’Iran nella regione oltre a indebolire la legittimità dei regimi moderati nel mondo arabo», ha riferito il militare davanti al Capo di stato maggiore, l’ammiraglio Michael Mullen.

Insomma se Tel Aviv fa il gioco dei nemici e non vuole sentire ragioni di fronte alle pressioni dell’amministrazione Obama, Petraeus con il suo rapporto segreto ha messo in allerta gli Usa sugli interessi a rischio. Il generale due giorni dopo il briefing ha chiesto alla Casa Bianca che Cisgiordania e Gaza vengano annesse all’area di sua competenza (Iraq e Afghanistan), ma per ora gli è stato negato.

La visita di Joe Biden in Israele e le sue “tirate d’orecchi alla politica del premier Benjamin Netanyahu sono stati chiari segni di un equilibrio che si sta incrinando. Come scrive il giornalista Mark Perry l’America ha capito che i rapporti con Tel Aviv sono importanti, «ma non quanto le vite dei soldati americani».

 

 

http://www.medarabnews.com/

Un popolo libero nella nostra terra

Original Version: A free people in our land

Non è mai stata questione di tempismo. Le scuse del primo ministro Benjamin Netanyahu al vicepresidente americano Joe Biden hanno permesso al discorso tenuto da quest’ultimo all’Università di Tel Aviv di concludere la visita in bellezza. La doccia fredda da Washington è arrivata solo dopo che il primo ministro aveva pensato di aver superato felicemente la tempesta.

L’attuale governo ha primeggiato nel mettere il paese in rotta di collisione con il resto del mondo. Sfortunatamente, il governo e i media stanno concentrando l’attenzione sul rapporto con gli Stati Uniti e hanno perso completamente di vista il nodo cruciale della nostra imbarazzante situazione. Non si tratta del rapporto con Washington, si tratta della nostra esistenza nella regione e delle nostre relazioni coi nostri diretti vicini. È tempo che l’opinione pubblica israeliana si svegli dall’ibernazione di una lunga primavera di calma e agio. Si sta avvicinando una calda estate, e con essa il disastro. 

Il paese ha bisogno di fare una scelta: non c’è via di fuga dal dover prendere delle decisioni difficili. Il tempo vola, e presto la scelta verrà fatta per noi, se non ci decidiamo a farla per conto nostro. Lo “status quo” del “tutto come al solito”, il senso di sicurezza personale, e l’illusione che possiamo tenerci i territori e allo stesso tempo far pace coi nostri vicini, stanno per giungere al termine.

Dopo la firma degli Accordi di Oslo nel 1993, la popolazione ebraica che vive oltre la Linea Verde è aumentata del 300%. Anche mentre Netanyahu ripete il mantra del “due stati per due popoli”, continuiamo a costruire altre unità abitative al di là della Linea Verde. Il cosiddetto congelamento dei nuovi insediamenti non è altro che un esercizio di auto-illusione. La realtà binazionale della vita oltre la Linea Verde è evidente a chiunque la oltrepassi.

La leadership palestinese resta fermamente legata alla soluzione dei due stati, ma anch’essa sa che le chance di separazione imperniate sulla Linea Verde stanno rapidamente svanendo. Sì, il disimpegno da Gaza ha confermato che gli insediamenti possono essere rimossi, ma Israele è così radicato oltre la Linea Verde che una visione di pace fondata su uno stato palestinese indipendente in quei territori sembra virtualmente impossibile.

Il paese, a quanto sembra, ha fatto la sua scelta – preferisce i territori alla pace. Per nostra stessa scelta, stiamo mettendo fine all’impresa sionista. Un popolo che ne occupa un altro e ne nega l’autodeterminazione, la liberazione e la libertà, non può essere un popolo libero nelle sue terre.

Il palestinese medio, e ancor di più gli intellettuali, stanno formulando una nuova interpretazione: non c’è più possibilità di istituire uno stato indipendente in Cisgiordania e a Gaza, con Gerusalemme Est come sua capitale. Una nuova strategia è in corso di sviluppo, e gli israeliani dovrebbero essere preoccupati per ciò che questa strategia significherà per loro.

La prima fase della strategia sarà quella che è già stata chiamata “l’intifada bianca”. Si tratta di una strategia incentrata su una disobbedienza civile di massa e sul rifiuto di cooperare con l’occupazione. Questa strategia si fonda su un confronto non violento con le autorità occupanti. Ne abbiamo visto la prova a Bil’in, Ni’lin, Budrus, Masara e altri luoghi che finora sono stati poco familiari alla coscienza israeliana. L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) sta portando avanti attivamente il boicottaggio dei prodotti delle colonie e presto incoraggerà i lavoratori palestinesi a smettere di lavorare negli insediamenti.

La sfida dovrà mantenersi su posizioni non violente, e dovrà mettere a punto il loro messaggio. L’obiettivo politico della lotta sarà dare alla soluzione dei due stati un’ultima chance. I palestinesi cercheranno di guadagnarsi l’appoggio internazionale, mentre conquisteranno la superiorità morale. Il mondo vedrà immagini di soldati delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) che sparano sulle folle inermi, comprese donne e bambini, in punti di scontro come blocchi stradali e checkpoint, e attorno alle colonie.

I palestinesi insceneranno gesti simbolici come la rimozione dei posti di blocco, costruiranno nella Zona C controllata da Israele, creeranno dei blocchi stradali sulle strade delle colonie per fermare le auto israeliane e così via. A migliaia saranno arrestati, molti saranno colpiti, e alcuni probabilmente resteranno uccisi. Ogni ricorso alla forza contro la sfida palestinese comporterà un aumento del sostegno alla loro causa in tutto il mondo, e il costante, rapido deterioramento dell’appoggio a Israele.

Se la strategia del confronto non violento dovesse fallire, se il prezzo fosse troppo alto da pagare o se, Dio non voglia, si arrivasse alla violenza, il movimento nazionale palestinese abbandonerà la strategia volta ad ottenere uno stato indipendente e richiederà apertamente la piena democrazia all’interno di Israele – una persona, un voto. Questa strategia sarà infine sostenuta dalla comunità internazionale, mentre la crescente delegittimazione di Israele prenderà piede.
 
Quest’anno ci sono state 40 università in tutto il mondo che hanno preso parte alla campagna della “Settimana dell’Apartheid israeliano”; il prossimo anno potrebbero essere 400 o più. Una volta che i palestinesi avranno adottato la strategia della “democrazia” come loro soluzione, non potranno perdere. È solo questione di tempo prima che il mondo tratti Israele come ha trattato l’ultimo governo bianco del Sudafrica.

La maggior parte del mondo, e certamente l’intero mondo arabo, non ha mai compreso davvero che lo Stato di Israele è un stato-nazione del popolo ebraico. La maggior parte del mondo pensa agli ebrei come a una religione, non come a un popolo. L’opportunità di adottare una soluzione “democratica” del conflitto sarà accolta e sostenuta caldamente, perché ha più senso di una spartizione, che dà ai palestinesi solo il 22% della Palestina storica.

Israele perderà la battaglia. Non c’è più un modo per impedire ai palestinesi di diventare un popolo libero nella loro terra. L’unico modo per assicurare che il popolo ebraico rimanga un popolo libero nella nostra terra è prendere una decisione per porre fine alla sua occupazione ai danni del popolo palestinese. Deve cessare la costruzione di ogni insediamento, non per salvaguardare le nostre relazioni con gli Stati Uniti, ma perché non possiamo promuovere la pace finché non lo facciamo. Se vogliamo continuare a costruire in quelle zone che saranno infine annesse a Israele, dobbiamo prima negoziare un confine concordato e degli scambi di territori.

I giorni dell’unilateralismo sono contati. Israele non sarà in grado di annettere più del 3% della Cisgiordania, che ospiterà circa l’80% dei coloni. Semplicemente non può esserci più di questo in un paritario scambio di territori. Gerusalemme deve diventare una capitale condivisa – se non la mettiamo in comune, la perderemo certamente come capitale eterna del popolo ebraico.

Le realtà del bisogno di un immediato cambiamento di rotta sono così evidenti che, senza tale cambiamento, la nostra sopravvivenza come stato ebraico e democratico è destinata a finire certamente.

 

 

 

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Città Santa ad alta tensione

mercoledì 17 marzo 2010 

A Gerulasemme, decine di palestinesi si sono scontrati ieri con le forze di sicurezza israeliane,  dopo che il gruppo integralista Hamas ha proclamato una “giornata della rabbia”, per protestare contro l'apertura di una sinagoga nella parte orientale della Città Santa. La polizia ha usato gas lacrimogeni, proiettili di gomma e granate stordenti per riportare l'ordine e, secondo il sito web del Jerusalem Post, sono stati arrestati una sessantina di persone.

Feriti in modo lieve una quarantina di palestinesi e 14 agenti. Anche se dal pomeriggio è tornata la calma, la tensione resta alta anche sul fronte diplomatico: l'inviato americano in Medio Oriente George Mitchell, che era atteso ieri sera in Israele per un incontro con il presidente israeliano Shimon Peres, ha rinviato la sua visita. Nel tentativo di placare i timori islamici, il rabbino capo  Yona Metzger aveva negato ieri,  l'esistenza di progetti concreti di edificare una sinagoga nella Spianata delle Moschee di Gerusalemme.

Ma le sue parole, a quanto pare, non hanno convinto la popolazione palestinese che è preoccupata anche da altre iniziative israeliane. Fra queste l'inclusione di due luoghi di preghiera – la Tomba dei Patriarchi di Hebron e la Tomba di Rachele di Betlemme – nei siti del patrimonio culturale e religioso ebraico da preservare. In entrambi i casi per i musulmani si tratta di moschee a tutti gli effetti. Sempre da ieri sono chiusi i valichi di transito tra Gerusalemme-Cisgiordania, mentre si registra l’ennesima fase di stallo dei tentativi di rilancio dei negoziati israelo-palestinesi.

L’11 scorso il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden,  in un lungo discorso alla Università di Tel Aviv, aveva avvertito “che Israele sta minando alla base il clima di fiducia con i palestinesi, mentre gli Stati Uniti ritengono sempre necessario rilanciare al più presto negoziati fra Israele e Anp”. La mossa del governo israeliano, condannata dagli Stati Uniti, ha destato forte collera a Ramallah. Il negoziatore capo palestinese Saeb Erekat ha affermato che l'Anp si attende che i progetti di Ramat Shlomo siano annullati. In caso contrario, ha avvertito, il presidente Abu Mazen non potrebbe autorizzare la ripresa dei negoziati.

Da parte sua la stampa israeliana precisa che il governo sta progettando l'estensione di numerosi rioni ebraici a Gerusalemme est: i nuovi alloggi in fase di progettazione sono fra 20 mila e 50 mila. Il 13 scorso il premier israeliano Benyamin Netanyahu, aveva ritrattato e detto che Istraele era pronta a tornare sui suoi passi, ma evidentemente per i palestinesi non è così. Capitale di Israele, unica città al mondo che possieda 70 nomi, Gerusalemme è il luogo che nelle antiche mappe appare disegnato al centro del mondo.

Unica città santa per due delle tre principali religioni monoteistiche (Ebraismo e Cristianesimo) e terza città santa in ordine d'importanza, dopo la Mecca e Medina, per l'Islam è considerata, già in epoca antica, cuore religioso e culturale della nazione ebraica e, sin dal sorgere del movimento sionista, quale capitale dello Stato di Israele,  proclamata nel 1950 e designata come tale, completa e indivisa, nella legislazione israeliana il 30 luglio1980. I Palestinesi, di contro, rivendicano Gerusalemme Est come loro Capitale.

In questo modo, lo status internazionale di Gerusalemme rappresenta un problema nodale complesso e di difficile risoluzione nel quadro dei conflitti arabo-israeliani. Svariati tentativi sono stati fatti negli ultimi decenni per definirne lo status giuridico internazionale, tramite risoluzioni ONU e negoziazioni fra le parti, nessuno dei quali ha portato finora ad alcun esito definitivo. Dal 1948 al 1967 sono esistite due diverse amministrazioni per la città, una israeliana e una giordana (Amanat al-Quds o Gerusalemme Est).La città, divisa in seguito alla guerra arabo-israeliana del 1948, è stata riunificata nel 1967, dopo la guerra dei sei giorni e l'azione dei paracadutisti israeliani in Città Vecchia.

Il camminamento delle mura conserva alcune indicazioni delle postazioni giordane durante il conflitto. La parte Est della città include la Città Vecchia di Gerusalemme e alcuni dei luoghi considerati santi dalle religioni ebraica, cristiana e islamica, quali ad esempio il Monte del Tempio, il Muro occidentale, la Moschea al-Aqsa, la Chiesa del Santo Sepolcro. palestinesi rivendicano Gerusalemme (al-Quds) come capitale di un futuro Stato palestinese.

Nella Dichiarazione di Indipendenza della Palestina, proclamata dall'OLP nel 1988, si stabilisce che Gerusalemme deve essere la capitale dello Stato di Palestina. Nel 2000 l'ANP ha promulgato una legge che designa Gerusalemme Est come tale, e nel 2002 questa legge è stata ratificata dal presidente Arafat. Il congresso statunitense, nel 1995, tentò di imporre all'amministrazione un riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, cosa non ancora avvenuta.

 

http://www.israele.net/

17-03-2010

Hamas: Ebrei destinati alla distruzione

 

 

“Voi che state inaugurando la [sinagoga di] Hurva, vi state dirigendo verso la vostra rovina. Dovunque siete stati, siete andati incontro alla vostra distruzione. Avete ucciso e assassinato i vostri profeti e avete sempre trafficato con usura e distruzione”.
Lo ha detto lunedì a Gaza l’alto esponente di Hamas Mahmoud al-Zahar, in un aspro discorso pieno di retorica antisemita pronunciato in occasione della re-inaugurazione della secolare sinagoga di Hurva, nel quartiere ebraico della Città Vecchia (dopo che era stata distrutta dagli arabi nel 1721 e nel 1948).
“Siete destinati ad essere distrutti – ha continuato il leader islamista palestinese rivolgendosi agli ebrei – Avete fatto un patto col diavolo e con la distruzione stessa, proprio come la vostra sinagoga”.
Mahmoud al-Zahar ha fatto appello a tutti i palestinesi ovunque si trovino perché osservino cinque momenti di silenzio “per la scomparsa di Israele e per immedesimarsi con Gerusalemme e la moschea di al-Aqsa”. Ha anche esortato il mondo arabo a rispondere “ai crimini di Israele e a difendere i luoghi che sono santi per musulmani e cristiani dall’assalto razzista dei sionisti”.
In conclusione del discorso, il leader di Hamas ha chiesto all’Autorità Palestinese di non negoziare con Israele, aggiungendo che “i movimenti di resistenza devono prepararsi per la liberazione di tutta la Palestina [cancellando Israele] e per il ritorno dei profughi alle loro case [dentro Israele]”.

 

 

 

http://www.terranews.it/

Not in my name. Contro la guerra

PROTESTA. Arci, Disarmiamoli, Forum Palestina e Un Ponte per lanciano una manifestazione per il 19 marzo a piazza Montecitorio.

Non in nostro nome. E, soprattutto, non in nome del bene e del nostro futuro, perché deve e può esistere solo la pace preventiva, e non la guerra». Questo dicono gli organizzatori della manifestazione “Non in nostro nome. Contro tutte le guerre”, che si svolgerà a piazza Montecitorio a Roma il 19 marzo, dalle ore 17: Circolo Arci Arcobaleno, Statunitensi per la pace e la giustizia, Rete Disarmiamoli, Rete Semprecontrolaguerra, Forum Palestina, Un Ponte per.
 
Le loro richieste sono chiare, le parole usate forti ma incisive: «Il ritiro immediato di tutte le truppe occupanti dall’Afghanistan e dall’Iraq, inclusi i contractor; la fine della pulizia etnica israeliana a Gerusalemme Est e nelle altre città della Cisgiordania, dell’assedio di Gaza, della repressione in Kurdistan; lo stop ai preparativi di guerra contro l’Iran». La scelta delle date non è casuale, cade infatti proprio in quei giorni il settimo anniversario dall’inizio dei bombardamenti sull’Iraq del 2003. Anche negli Stati Uniti manifesteranno sotto lo stesso slogan e per gli stessi motivi, solo che la data sarà quella del 20 marzo (la stessa in cui da noi il Forum dei movimenti per l’acqua sfilerà per le strade della Capitale): Washington, San Francisco, Los Angeles, Chicago. Due giorni durante i quali le organizzazioni, i movimenti e le associazioni pacifiste di Italia e Usa ribadiranno la richiesta ai loro Stati di ritirare immediatamente le truppe dai fronti di guerra.
 
Gli organizzatori spiegano che quel giorno manifesteranno anche insieme “a chi in Gran Bretagna sostiene la battaglia di Joe Glenton e degli altri soldati che si rifiutano di continuare a uccidere ed essere uccisi in Afghanistan”. E lanciano delle contro proposte ben precise: la riduzione delle spese militari dello Stato e lo smantellamento delle armi nucleari stoccate nelle basi militari di Aviano e Ghedi, in favore di «maggiori investimenti sociali e una maggiore diffusione di una cultura fondata sulla pace, il diritto e l’equa condivisione delle risorse attraverso i negoziati». 

 

 

http://www.cittadellaspezia.com/default.aspx

A Spezia il padre del bambino palestinese che donò gli organi ai bambini israeliani

La Spezia. Il padre di Ahamad, il bambino palestinese, ucciso a 12 anni da un soldato israeliano, i cui organi sono stati donati a 5 bambini israeliani, Ismael Khatib è in visita alla Spezia insieme ai Sig.ri Ahmed Doub lani e Mohammeddiyas Aiadi componenti dell’Associazione “Cuneo Center for Peace”

Programma della visita.
ORE 10 Liceo Scientifico A. Pacinotti La Spezia
Incontro dell’Amministrazione Comunale della Spezia, nella persona dell’Assessore Fabrizio Forma, la delegazione Palestinese composta da Ismael Khatib, Ahmed Doulani e Mohammeddiyas Aiadi con gli studenti delle classi I e e II e del Liceo Pacinotti.
Sarà proiettato il film “The Heart of Jenin” che racconta la storia di Ahamad, il bambino palestinese figlio di Ismael Khatib, ucciso a 12 anni da un soldato israeliano, i cui organi sono stati donati a 5 bambini israeliani. Seguirà dibattito.
All’incontro sono stati invitati i componenti del Comitato Dialoghi di Pace in Medio Oriente e sarà presente Tiziano Ferri, operatore che insieme a Simonetta Musetti ha fatto parte del Gruppo di Formazione del progetto di cooperazione decentrata negli ambiti socio – educativo e socio – economico presso il Centro Giovanile Sharek a Jenin (Palestina), realizzato con il contributo della Regione Liguria, del Comune della Spezia e di un ampio partenariato Spezzino.

ORE 12 Scuola Comunale dell’Infanzia di Valdellora La Spezia
Incontro presso la Scuola Comunale dell’Infanzia di Valdellora al quale parteciperanno l’Assessore Fabrizio Forma, l’Assessore Paolo Manfredini e la delegazione Palestinese composta da Ismael Khatib, Ahmed Doulani e Mohammeddiyas Aiadi.
Nel giardino della Scuola Comunale dell’Infanzia di Valdellora è stato piantato un albero di ulivo, dedicato ad Ahamad Khatib.

 

http://www.leggonline.it/home_page.php?sez=HOME

MUATH GUARITO DOPO
L'OPERAZIONE TORNA A CASA

 

Sta tornando a casa guarito il piccolo Muath, il bimbo palestinese di Gaza malato di tumore al fegato e sottoposto a cure urgenti presso ilPoliclinico Umberto I di Roma. Il bimbo, con il papà Ahmed, è partito questa mattina dall'aeroporto di Fiumicino alla volta di Tel Aviv. Muath, di un anno e 6 mesi, e suo padre Ahmed, erano giunti in Italia il 18 dicembre scorso per un «viaggio della speranza», su interessamento dell'associazione umanitaria Angels che ha come scopo quello di garantire cure mediche a bimbi provenienti da zone di guerra e che da settembre si stava occupando del caso di Muath, colpito da una grave forma di tumore al fegato. «È andato tutto bene, siamo contenti – spiega Benedetta Paravia, portavoce dell'associazione e che ha accompagnato e salutato il piccolo e il papà Ahmed alla partenza – l'asportazione, durata 8 ore, della massa tumorale è riuscita ed ha evitato anche il ricorso del trapianto di fegato. Nel giro di un mese, poi, si è andati verso una piena guarigione tanto che non sono stati necessari altri cicli chemioterapici». L'associazione ha poi fatto partire con Muath ed il padre anche un carico di latte speciale, donato dal gruppo Farmacrimi, destinato a 7 bambini di Gaza con gravi intolleranze al lattosio. Prossimamente, in collaborazione con la Farnesina, in particolare con il settore Mae Multimedia, l'associazione ha in progetto un video documentario sulle condizioni sociali delle zone della Palestina, mentre vaglierà anche altre richieste giunte per cure per bambini.

 

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