Rassegna stampa del 18 febbraio

Rassegna stampa del 18 febbraio.

A cura di Chiara Purgato.

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Palestina-Israele: “Come parlare di pace e costruire colonie?”


di Françoise Germain-Robin
L'Humanité, 17 Febbraio 2010

Nato nel 1955, a Tel-Aviv, giornalista israeliano e membro della direzione del quotidiano Haaretz, Gideon Levy denuncia implacabilmente le violazioni commesse contro i palestinesi e il ricorso sistematico ad una violenza che disumanizza i popoli, aizzati l’uno contro l’altro. Gideon Levy occupa un posto particolare nella stampa israeliana, quello dell’imprecatore. I suoi editoriali e le sue cronache nel quotidiano Haaretz sono altrettanti atti d’accusa contro la politica di occupazione e colonizzazione del suo paese, Israele, contro i territori palestinesi. E’ uno dei pochi giornalisti che si sono espressi contro la guerra a Gaza.

Di passaggio a Parigi, dove presentava la raccolta di suoi articoli pubblicata da Éric Hazan [1], ha dedicato un ampio spazio di tempo a L’Humanité.

Quando leggiamo i suoi articoli, ci diciamo che lei va giù pesante nella critica ad Israele, molto più di quanto non possa permettersi la maggior parte dei giornalisti francesi.
Lo so, una volta ho rilasciato un’intervista a TF1 e dopo il giornalista mi ha telefonato per scusarsi di non poter diffondere i miei discorsi perché se lo avesse fatto sarebbe stato accusato di antisemitismo e avrebbe avuto delle noie. Io ho la fortuna di essere in un giornale che mi lascia piena libertà e mi ha sempre sostenuto, anche se capita spesso che dei lettori protestino e anche disdicano l’abbonamento a causa dei miei articoli.

Siete molti in questa situazione? 
Non sono proprio l’unico, ma quasi. C’è anche Amira Hass. Oltre a noi due, non vedo altri.

C’era anche Amnon Kapeliouk, che era un grande amico, ed è morto l’estate scorsa.
Si, lui aveva aperto la strada molto prima di me. Lui era aYediot Aharonot, ma non scriveva più in questi ultimi anni. Collaborava ancora con Le Monde Diplomatique. Una settimana prima della sua morte ha chiesto di parlarmi e io gli ho telefonato, ma il suo spirito non c’era già più.

Perché lei occupa uno spazio così particolare? E’ a causa della sua formazione?
No. C’è un unico motivo per il mio atteggiamento. Alla fine degli anni ottanta, al tempo della prima Intifada, ho cominciato a visitare i territori occupati, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Settimana dopo settimana, ho capito che si svolgeva un dramma, ma un dramma del quale nessuno in Israele voleva sentir parlare. Se non fossi andato nei territori occupati a quel tempo, non sarei diventato quel che sono. Sarei come la maggioranza degli israeliani.

Il suo ambiente familiare è di sinistra? 
Assolutamente no. A differenza di Amira Hass, la cui famiglia era comunista, io vengo da una famiglia totalmente apolitica. I miei genitori venivano dall’Europa e appartenevano alla classe media. Mio padre era un tedesco dei Sudeti, un tipico rifugiato. Ha vissuto sessant’anni in Israele senza riuscire a trovare il suo posto. Aveva lasciato tutto laggiù, la sua vita, i suoi genitori, la sua fidanzata. Aveva studiato diritto ma non ha potuto praticarlo in Israele, era troppo diverso. Ha lavorato in una fattoria. Ma non parlava mai di tutto questo. Aveva chiuso la porta del passato e non voleva affatto riaprirla. Era traumatizzato dall’esilio. Ha incontrato mia madre in Israele. Lei era nata in Cecoslovacchia ed era venuta nel 1939, all’età di sedici anni. Si sono incontrati nel 1945. Lei era infermiera, ma non ha mai esercitato. Si parlava tedesco in casa mia, ma non si parlava né del passato né di politica.

Dov’è nato? 
A Tel-Aviv. Amo questa città. E’ la mia città. Vi succedono molte cose, è molto viva. E’ contemporaneamente una Babele e una bolla. Ho bisogno di questa bolla per riprendermi quando torno dai territori, a differenza di Hamira Hass che vive a Ramallah e detesta Tel-Aviv. Io, ne ho bisogno. Della sua agitazione, dei suoi caffè, della sua cultura, della sua atmosfera. Molti di quelli che vengono a manifestare la loro solidarietà con i palestinesi non vanno mai a Tel-Aviv, si accontentano di passare per l’aeroporto. Fanno male. E’ molto diverso da Gerusalemme, dove la tensione è continua: tra askenaziti e sefarditi, tra laici e religiosi, con i palestinesi. Ovunque uno si volti, a Gerusalemme, sente l’occupazione.

Com’è diventato giornalista? 
Era uno dei miei sogni da bambino: volevo essere autista di bus, primo ministro o giornalista! Così ho fatto Scienze politiche e durante il servizio militare ho lavorato per la televisione dell’esercito. Poi ho fatto un’incursione in politica, lavorando per Shimon Peres. Questo è durato dal 1978 al 1982, a 16 ore al giorno! All’epoca Peres era il capo dell’opposizione, avevo fiducia in lui.

Ora so che ha una grandissima responsabilità nella colonizzazione e in molte cattive cose. Mostra al mondo una bella immagine di Israele, ma è un bluff. Non ha meritato il Nobel per la pace. Come si può parlare di pace e al tempo stesso costruire colonie? E’ quel che si sta facendo ed è proprio lui che ha cominciato: era ministro della Difesa quand’è stata costruita la prima colonia ad Hebron e lui ha lasciato fare. Chiunque costruisca colonie non vuole la pace, non può essere un uomo di pace.

Come spiega che la colonizzazione sia proseguita dopo gli accordi di Oslo, che si riteneva conducessero alla pace?
Perché non c’era una sola parola sulle colonie in quegli accordi. E’ uno dei motivi del loro fallimento. Penso che sia un grosso errore di Arafat non aver preteso l’arresto della costruzione di colonie. E’ un errore che capisco, perché voleva arrivare a qualcosa che fosse basato sulla fiducia reciproca, vedeva quello come un primo passo. Ma è un errore storico, perché, all’epoca, sarebbe stato più facile che adesso smantellare le colonie: ce n’erano molte meno, neanche la metà.

Che cosa pensa di questa frase di Mofaz [2] che dice che i suoi articoli su Haaretz provano che Israele è una democrazia? 
Non ho sentito questa frase. Ma non è una prova, e Israele non è una democrazia. Salvo che per gli ebrei! Come ebreo è vero, ho tutta la libertà di scrivere ciò che voglio. Senz’altro più di quanta ne avrei in Europa. Non sono sicuro che se fossi stato cittadino di un paese europeo in guerra, mi avrebbero lasciato pubblicare un articolo contro la guerra fin dal primo giorno. E’ quel che ho fatto l’anno scorso, nel primo giorno della guerra contro Gaza.

Dove nasce questo suo proclamato amore per Gaza? E’ abbastanza controcorrente in Israele.
Ciò che amo, è il popolo di Gaza. E’ un popolo che trovo molto bello. Perché ha sofferto tanto, da tanto tempo, e ha saputo, dentro questa miseria e queste umiliazioni che gli sono state imposte, conservare la sua dignità e la sua umanità. La maggior parte degli abitanti di Gaza sono rifugiati del 1948, non bisogna dimenticarlo. Hanno vissuto per decenni cose orribili e non si sono abbattuti. Non sono dei grandi combattenti – e in ogni caso cosa possono fare contro la potenza dell’esercito israeliano? Ma loro resistono, cercando, malgrado tutto ciò che devono sopportare, di condurre una vita normale. In questo grande campo di concentramento che è la striscia di Gaza, loro sono molto poveri, ma restano umani e calorosi. Sono rinchiusi, ma restano aperti agli altri.

Come spiega che abbiano votato in maggioranza per Hamas ?
Perché erano delusi da Fatah e dall’Olp, che non avevano portato la pace promessa, né la sicurezza, né la fine dell’occupazione. Hamas era l’unica alternativa. I dirigenti di Hamas si presentavano come più puliti. Si attribuivano l’immagine di veri resistenti, mentre Fatah continuava ad accettare negoziati senza contenuto, “per l’immagine”, con Israele. A mio avviso, molti hanno votato per Hamas con rincrescimento, per disperazione, perché vedevano nero per il futuro.

E lei, come lo vede lei? 
Nero, e anche molto nero. Non solo per i palestinesi. Anche per noi israeliani. Non ci sono prospettive, perché Israele non ha pagato alcun prezzo per l’occupazione e la colonizzazione dei territori palestinesi. Perciò, questo continuerà. Non c’è sufficiente pressione perché questo cambi, né dall’interno, dove l’area pacifista è molto debole, né dall’esterno. Obama non è riuscito a piegare Netanyahu e si disinteressa della questione. L’Europa lo segue e non fa niente. L’Europa porta una responsabilità molto pesante per quanto è capitato a Gaza e nella prosecuzione del blocco che strangola un milione e mezzo di palestinesi. Essa aveva loro promesso che il blocco sarebbe stato tolto, che ci sarebbero stati fondi e mezzi per la ricostruzione. Continua a non esserci niente e Gaza è di nuovo completamente dimenticata. Ci vorranno di nuovo dei qassam perché qualcuno se ne interessi? E’ questo che è terribile.

Non c’è speranza di vedere la giustizia internazionale occuparsene, dopo il rapporto Goldstone ? 
No, gli Stati Uniti lo bloccheranno. Il rapporto dice che ci sono stati crimini di guerra, il che significa che ci sono dei criminali di guerra. Normalmente, dovrebbe essere Israele a giudicarli, come chiede il rapporto stesso. Ma Israele rifiuta e quindi deve essere il mondo a farlo. Dov’è oggi quel mondo che ha applaudito il giudice Goldstone quando si occupava dei Balcani e del Rwanda? Perché l’atteggiamento è così diverso quando si tratta di Israele? Eppure è lo stesso giudice, con la stessa competenza e la stessa serietà. Ma gli americani non lo lasceranno andare fino in fondo perché sostengono Israele e perché hanno paura per se stessi, a causa dei loro propri crimini in Iraq e in Afghanistan.

Che ne è dei negoziati per lo scambio del soldato Shalit contro prigionieri palestinesi, tra i quali Marwan Barghouti e forse anche Salah Hamouri ?
Ricordo che ci sono 11 mila prigionieri palestinesi nelle nostre prigioni, che in maggioranza, come Salah Hamouri, non hanno fatto niente e sono prigionieri politici. Per quanto riguarda Barghouti, non sono sicuro che Israele accetti di liberarlo. Netanyahu lo considera una minaccia perché può diventare un partner per la pace. Io lo conosco molto bene. Siamo andati insieme a Strasburgo e in Spagna dopo Oslo. E’ un vero uomo di pace, ma ha sempre detto: “Se voi non volete smetterla con l’occupazione, noi condurremo la lotta armata”. Credo che solo lui sia capace di riunificare i palestinesi, ma non sono sicuro che Abu Mazen ci tenga molto a vederlo libero.

Il suo pessimismo è quindi totale? 
No. Credo che si debba essere realisti e credere ai miracoli. E anche che si debba agire, che si debba continuare a disturbare Israele, a punzecchiare la sua pelle d’elefante moltiplicando le campagne di solidarietà, svegliando l’opinione pubblica.
(Traduzione di Maria Chiara Tropea)
 
L’articolo in lingua originale
 
[1] Gaza, articoli per Haaretz, 2006-2009, di Gideon Levy, tradotti dall'ebraico da Catherine Neuve-Eglise. Éditions la Fabrique, 240 p.

[2] Shaul Mofaz, generale, già ministro della Difesa ed ex capo di stato maggiore sotto Sharon, oggi è il numero due del partito Kadima di Tzipi Livni. E’ autore di un piano di pace che prevede la creazione provvisoria di uno Stato Palestinese, le cui frontiere diventerebbero definitive entro tre anni

 

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Palestina: a Hebron arrivano taxi rosa per sole donne

Le vetture, ovviamente, saranno guidate da autiste di sesso femminile – Se il progetto avrà successo sarà proposto in tutti i territori dell'Autorità Palestinese

Rosa, guidati rigorosamente da donne e destinati a trasportare esclusivamente rappresentanti del gentil sesso. Ad Hebron, in Cisgiordania, arrivano i Taxi in rosa. Una proposta che, di per sè, non è una novità assoluta – iniziative simili sono già operative a Beirut e Dubai, ma colpisce perchè viene formulata in un luogo che è uno dei fulcri del potere di Hamas.

A proporre l’iniziativa ad Hebron è stato Hazem At-Takrawi, direttore di un’azienda che si sta occupando di formare le future autiste. «Il 95% delle donne palestinesi è favorevole alla proposta», ha spiegato l’imprenditore. Inoltre, il programma comporterà la creazione di posti di lavoro per circa cento donne, in un paese in cui le signore, anche se laureate, fanno particolare fatica ha trovare un’occupazione.

Se l’iniziativa dovesse avere successo, spiegano i creatori del progetto, in seguito potrà essere estesa fino a coprire l’intero territorio dell’Autorità Palestinese.

 

 

 

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Speriamo che sia femmina

L’attivismo femminile italiano in Palestina e Israele: vent’anni di storia in una conferenza.

 Incontrare donne in Medio Oriente: diritti, movimenti e partecipazione politica. Sotto questa insegna lo scorso 17 febbraio il Dipartimento di Politica, Istituzioni e Storia di Bologna ha organizzato un seminario, curato da Anna Maria Gentili e tenuto da Gabriella Rossetti e Raffaella Lamberti. Un seminario tutto al femminile, che ha raccolto ragazzi e ragazze intorno ad un argomento controverso, quello dell’incontro.

 Gabriella Rossetti ha abilmente tracciato i tratti dell’attivismo femminile palestinese e israeliano, le loro evoluzioni parallele e inscindibili dal conflitto, i loro punti di incontro e di scontro. Lo ha fatto partendo dal 1987 e dall’esigenza di incontro di un gruppo di donne italiane, che scosse dagli orrori dell’assedio di Burej el Baranj, dove le donne arabe per procurarsi cibo sfidavano gli spari dei cecchini, raccolgono l’appello di Elisabetta Donini, lanciato in un articolo pubblicato il 22 febbraio 1987 su ‘Il Manifesto’ e così concluso: “ […] non ci sembra importante che le donne ci vadano [in Libano] invece autonomamente e fuori dalle logiche di potenza, non accettando più che solo le armi possano far tacere altre armi?”

Per dare una risposta a questa provocazione si incontrano a Torino insieme a donne palestinesi, israeliane e libanesi: da questo incontro prende poi avvio il progetto 'Visitare luoghi difficili' organizzato dalla Casa delle Donne di Torino, dal Centro di Documentazione di Bologna e dalle donne dell’Associazione per la Pace.

 Dopo aver contattato questi gruppi di donne indipendenti, principalmente affiliate all’OLP, le italiane decidono di partire. Un gruppo in Libano, un altro in Israele e uno in Palestina, tutte determinate a incontrare, conoscere e capire altre donne, sconvolgendo la percezione del ‘capire il conflitto’, riuscendo a fare qualcosa che, ad esempio per la guerra in Vietnam, era inconcepibile: andare direttamente alla fonte. Convinte che fosse importante creare tipi nuovi e diversi di lealtà e di legami, certe che non fosse necessario schierarsi rispetto alle parti in conflitto, queste donne hanno voluto creare uno spazio altro, terzo, interstiziale, in cui le donne israeliane e palestinesi si potessero ritrovare prima di tutto come donne.

 In questo incontro tra nemiche, ciò che più salta agli occhi è la capacità delle donne di creare una riflessione sulla militarizzazione della società e sul rapporto tra donne e guerra, troppo spesso banalizzato in le-donne-sono-contro-la-guerra: queste donne, infatti sono spesso ‘tirate dentro’ la guerra (soprattutto quando si tratta di guerre di liberazione) e si ritrovano così a gestire situazioni in cui i rapporti di genere sono profondamente modificati, accomunate tra loro dai valori legati a parole come ‘terra’, ‘autodeterminazione’, ‘autonomia’ e ‘liberazione’. Raffaella Lamberti tiene però a precisare che le donne italiane sono arrivate quando già quelle palestinesi ed israeliane si incontravano tra loro: le Donne in Nero erano già attive da circa un anno.[1]

Il rapporto tra questi tre gruppi e l’attivismo all’interno di quelli israeliano e palestinese viene descritto dalla Rossetti come parallelo allo sviluppo della questione palestinese stessa: molto attivo nella prima intifada, assopito prima, durante e dopo gli accordi di Oslo del 1993 e di nuovo vivido nella seconda intifada, che per molti va avanti dal 2000 ad oggi.

 Il discorso della Rossetti man mano si concentra più sulle donne palestinesi, sue amiche e compagne ancora oggi, e la sua analisi traccia l’evoluzione dell’attivismo femminile in Palestina dagli anni antecedenti la prima intifada ad oggi. Prima degli accordi del ‘93, le donne palestinesi avevano un ruolo importante nella gestione della comunità che allora non aveva ancora un governo: si occupavano dell’amministrazione e del funzionamento di ospedali, scuole e quartieri, in modo assolutamente volontario, creando un’élite che ha visto passare l’attenzione internazionale dalla società agli aspetti diplomatici e più strutturali della formazione del futuro Stato palestinese; che ha visto affluire un’enorme quantità di finanziamenti in Palestina attraverso le più svariate forme di cooperazione in cui le ONG la fanno da padrone, creando così il fenomeno della ongizzazione: tante piccole ‘imprese della cooperazione’, in cui il personale è pagato e riceve finanziamenti dall’esterno. E’comprensibile il disorientamento nel passare da un’azione volontaria e spontanea alla più estesa pianificazione dell’azione sociale.

 Non solo, il fallimento delle due intifada ha creato la necessità di fronteggiare la debolezza maschile, la percezione di minore virilità degli uomini, che oltre a perdere sul campo non riescono neanche a mantenere la famiglia: per questo le donne hanno scelto di sospendere la rivendicazione dei loro diritti in favore della ‘protezione’ degli uomini.

 Quando si arriva alle donne israeliane il discorso è imperniato sulla figura della soldatessa: così vuole essere dipinta la nuova immagine di Israele, uscito dalla diaspora per rinascere dolce, gentile e combattivo. E’ un po’ il messaggio che tanti sostengono volesse passare con l’elezione di Golda Meir, donna non particolarmente bella, ma simbolo della forza femminile.

 E le donne italiane? Le donne italiane, durante la seconda intifada riprendono la loro azione, promossa principalmente da Luisa Morgantini, già allora europarlamentare. Successivamente, spinte da legami politici, dalla militanza e dai rapporti personali mantengono la loro azione trasformandola sempre più in adesione a progetti di cooperazione e sviluppo, in cui purtroppo non sempre l’incontro è volontario, ma cercato, ideato, persino forzato. E’ la violenza dell’incontro di cui ci parla la Gentili, che nei suoi anni di insegnamento e ricerca ha visto gli effetti della cooperazione soprattutto in Africa.

 Incontro tra estranee, incontro tra nemiche, incontro tra amiche, la violenza dell’incontro.

Cosa rimane oggi di tutto questo?Cosa rimane dopo tante sconfitte?Quali sono gli esiti?Le energie spese sono state proporzionali agli obiettivi raggiunti?

Per parte israeliana, nonostante dopo la seconda intifada il movimento pacifista filoarabo abbia cercato di risorgere, al 2010 l’attività è pressoché inesistente.

Per quanto riguarda le donne palestinesi, l’impegno rimane sempre multiforme e costante tanto nel settore politico (nonostante la retrocessione rispetto al 2004, in cui alle elezioni amministrative il 16% degli incarichi venne affidato alle donne[2]) quanto in quello sociale. Di recente, inoltre, si è riaperto il tema sui rapporti di genere, soprattutto in merito alla violenza domestica ed al passaggio dalla percezione della violenza come effetto della dominazione del nemico alla violenza come reazione alla grave situazione in cui vertono gli uomini palestinesi. E’ curioso come, ci dice la Rossetti, dopo l’operazione Piombo Fuso gli uomini si preoccupino per la salute mentale delle donne e le donne si preoccupino di quella degli uomini: uno dei più grandi problemi, infatti, è la pace familiare, poiché la famiglia diventa la salvezza ma anche la prigione di ciascuno. Non solo, le circa 800 vedove del conflitto sono adesso i nuovi capi famiglia e cercano lavoro. La Palestinian Working Women Society for Development si è attivata sin dal marzo del 2009 per aiutare le donne di Gaza nella ripresa, realizzando principalmente spazi verdi che potessero creare contesti ‘piacevoli’ in cui stare con la famiglia, cercando di sviluppare la creatività e l’imprenditorialità femminile e offrendo un servizio di supporto psicologico. Anche l’Institute of Women Studies dell’Università di Birzeit, a Ramallah, cerca di contribuire al miglioramento delle condizioni delle donne palestinesi nel contesto familiare quanto in quello lavorativo e comunitario. Sempre a Ramallah, l’associazione Shashat, mira al cambiamento sociale attraverso la cultura, cercando di diffondere il cinema, principalmente quello femminile. Dalla parte dei ‘contro’ però, c’è la devastante frammentazione della società civile, che seppur molto vitale, non riesce a coordinarsi, vittima della ongizzazione, e con difficoltà mantiene il rapporto con la base ‘addestrata a combattere’ per ottenere i finanziamenti. Non solo: le donne più povere richiedono sempre più sostegno e assistenza alle charities islamiche, gestite da Hamas.

 Sul versante comune, oltre alle già citate Donne in Nero, nel 2005 è nata l’International Women Commission, promossa dall’UNIFEM, che raccoglie donne palestinesi, israeliane e di tutto il mondo accomunate dallo sforzo di porre fine all’occupazione israeliana e di costruire una pace giusta basata sul diritto internazionale, sui diritti umani e sull’eguaglianza.

 Le donne italiane, in tutto questo, sembrano accusare un po’ il colpo. La vecchia generazione continua le sue lotte in modi diversi, magari nella cooperazione, in gran parte disillusa, soprattutto dalla capacità di creare direttamente reti, di poter essere quello ‘spazio terzo’ da cui era partita. Ma la nuova generazione cosa fa?La nuova generazione si divide tra il fascino dell’orientalismo e la volontà di creare sviluppo (o di portarlo?).

Forse avrebbe bisogno di un po’ più di coraggio, di un po’ più voglia di toccare con mano l’oggetto di tanti studi. E di fare degli anticorpi sviluppati dalle ‘vecchie’ la forza della loro azione diretta. Tutta al femminile.

 

 

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Armi letali

17 febbraio 2010 – Tonio Dell'Olio

Ci sono armi utilizzate nei conflitti attuali che indicano il baratro perverso della fantasia umana. Si tratta di armi non convenzionali finalizzate a mietere un numero sempre maggiore di vittime e a infliggere perverse sofferenze alla popolazione civile. Recentemente me ne hanno mostrato alcune utilizzate dall'aviazione israeliana nella Striscia di Gaza che davvero sono degne della peggiore tradizione dell'orrore. Si tratta delle CD bombs. Bombe che esplodendo a terra lasciano partire dei dischetti affilatissimi in grado di tagliare di netto tutto ciò che incontrano nel loro percorso. A mostrarne gli effetti era Alicia, una suora comboniana spagnola e medico che vive in Palestina e ha condotto la ricerca con l'associazione “Medici per i diritti umani”. Tra le armi peggiori e utilizzate su vasta scala, vi sono le bombe a grappolo, cluster bombs. Finalmente anche Burkina Faso e Moldavia hanno ratificato la Convenzione per la messa al bando di questo tipo di armi e si è giunti al quorum necessario di 30 nazioni per l'entrata in vigore che partirà il 10 agosto prossimo. 
Ancora una volta purtroppo l'Italia si distingue negativamente non solo per la produzione e lo stoccaggio di queste bombe, ma anche per non aver ancora provveduto alla ratifica. La Convenzione è il risultato dello sforzo di 300 organizzazione di base che nel mondo hanno promosso una campagna di sensibilizzazione al riguardo e che in Italia è stata sostenuta dalla Campagna contro le mine.

 

 

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Uomini, conflitti e negoziazioni: come chiudere i conti con la Storia

Il giudice francese Antoine Garapon è l’autore di un libro molto originale e interessante: “Chiudere i conti con la storia. Colonizzazione, schiavitù, Shoah” (www.raffaellocortina.it, 2009).

Tutti possono constatare che l’evoluzione sociale crea nuovi ideali di giustizia e “dopo la criminalizzazione della storia attraverso i processi penali, è sopraggiunta la speranza di una “civilizzazione” del mondo per il tramite dei processi civili. Il sogno inseguito da queste azioni è, in effetti, di “civilizzare” il mondo, nel duplice senso di sottrarlo all’imbarbarimento, esponendolo a un’incidenza più significativa del diritto civile (p. 83). Come è già avvenuto nel caso delle azioni civili nei confronti delle multinazionali che sfruttavano la manodopera infantile.

Però i grandi crimini non furono “soltanto brevi parentesi nella storia di certi paesi, costituendo invece vere e proprie politiche statali, caratterizzate perciò dal contrassegno della legalità nel momento in cui furono poste in atto: la schiavitù, la spoliazione dei beni degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, la sterilizzazione dei nativi, l’occupazione delle terre degli aborigeni in Australia, la “rieducazione” forzata dei giovani autoctoni di origine indiana in Canada, la prostituzione forzata delle donne coreane durante la seconda guerra mondiale” (prefazione).

Per arrivare a questi livelli di disumanità e ingiustizia occorre arrivare all’uccisione della personalità giuridica che nell’uomo è una condizione indispensabile per dominarlo interamente (H. Arendt, Le origini del totalitarismo). L’atteggiamento di alcuni banchieri svizzeri che richiedevano l’atto di decesso degli ebrei morti nei campi di concentramento per poter restituire ai familiari il legittimo denaro depositato nei loro conti, dimostra il perdurare dell’estremo disprezzo e cinismo dei potenti nei confronti della giustizia e della dignità.

Dopotutto come affermava Simmel, “il fatto che i valori personali non possano venir compensati dal denaro… può, da un lato, essere motivo di infinite ingiustizie e di situazioni tragiche; ma, d’altra parte, proprio qui sorge la coscienza del valore dell’elemento personale, l’orgoglio del proprio contenuto di vita individuale, di sapere di non poter essere compensati da un ammontare qualsiasi di valori puramente quantitativi” (Filosofia del denaro, 1984). Di certo il quieto vivere ottenuto tramite il denaro fa sempre comodo ai potenti e ai delinquenti che il denaro lo possono ottenere rapidamente e facilmente. Tra le altre cose, agli americani e alle persone più nazionaliste sarebbe bene ricordare questo dato: “La guerra di secessione ha provocato la morte di 600.000 americani, più di quanti non ne abbiano causato le due guerre mondiali” (nota a p. 138).

Inoltre “ci sono culture come quella europea che cercano di fare della storia il motore del proprio progresso e cambiamento… Mentre altre culture (come in parte quella islamica) non l’assumono, anzi cercano di fare come se la storia non esistesse benché esista” (Claude Lévi-Strauss, 1978, ripubblicato in MicroMega, 6/2009). Un esempio moderno delle difficoltà di negoziare su diversi livelli mentali e storici, viene dimostrato dal “problema Palestina”: esiste per israeliani e palestinesi la difficoltà di “affrontare il passato nel momento in cui quest’ultimo diviene fonte di diritti, colpe, responsabilità e riconoscimento. Gli eventi veicolano sofferenze e sono soggetti a processi retrospettivi, nonché a istanze attuali di riparazione… alimentando la tendenza a pronunciare una condanna o, al contrario, a ricercare circostanze attenuanti” (Henry Laurens, storico, nota a pag. 46). Nell’odierno conflitto tra israeliani e palestinesi si è però finalmente arrivati a una chiara identificazione dei diritti dei civili a essere rimborsati dei danni dovuti alla guerra, in ottemperanza al diritto internazionale umanitario (p. 105).

Comunque “l’indennizzo dei danni inferti dalla storia grazie ai meccanismi del diritto civile è un’operazione che poggia sul postulato secondo cui i rapporti di diritto privato possono risolvere le aporie (difficoltà logiche) dei rapporti politici, finanche di quelli del passato. In tal modo, queste azioni danno credito all’ipotesi della depoliticizzazione dei rapporti politici, assecondando la tendenza naturale del diritto civile a rimuovere la dimensione politica” (Garapon, p. 50). 

Ma le negoziazioni sono complesse: “Quando non seguite da un’offerta di denaro, le scuse appaiono eteree, ma è vero anche il contrario: senza scuse, gli indennizzi si rivelano impotenti di fronte alla sfida di superare un periodo carico di violenza politica” (p. 190). Per questo motivo si richiedono risarcimenti monetari, che vengono poi devoluti a favore di associazioni umanitarie. In alcuni casi le vittime si sono semplicemente accontentate delle scuse pubbliche come è accaduto in Sudafrica alle vittime dell’apartheid con l’istituzione della Commissione Verità e Riconciliazione.

Il progetto della conferenza di Durban si era ispirato a un processo di “guarigione dal passato” molto simile: “gli organizzatori avrebbero voluto dare la parola alle vittime della colonizzazione e della schiavitù, in presenza dei padroni di ieri; il tutto come in una grande cerimonia catartica. Niente di tutto questo è accaduto; piuttosto, si è assistito a un’eccitazione dei reciproci odi e a un fenomeno di concorrenza tra le vittime, il cui centro simbolico è stato l’Olocausto” (p. 198).

Invece “l’Europa ha sublimato i debiti stessi, riattivando la storia; essa ha pensato di saldare i debiti non già pagando, ma chiedendo l’impegno comune a non esigere più il pagamento degli stessi. L’Europa ha scommesso sul fatto che questo mancato pagamento, lungi dall’inasprire il risentimento, sarà al contrario l’escamotage più utile per garantire la pace” (p. 207). L’Europa è così diventata una comunità di cittadini garantita dal debito reciproco, grazie all’abreazione conseguente al riconoscimento dei debiti e alla risoluzione simbolica delle offese.

Quindi “il debito può essere infinito, ma può generare non la colpevolezza, né un desiderio di pagamento, bensì un sentimento di riconoscenza e la voglia di donare a propria volta, pur sapendo che non saremo mai in pari. In realtà, nessuno è mai in pari di fronte a coloro che sono stati più importanti nella nostra vita: genitori, amici, amori, maestri” (J. T. Godbout, Quello che circola tra noi. Dare, ricevere, ricambiare; Vita e Pensiero, 2008). Così “L’ambiguità del debito è anche la sua forza: pur avendo a cuore l’esattezza dei conti, esso non esclude la generosità; il debito delimita il passato, ma senza offendere il futuro, permettendo a chiunque di salvare la faccia e obbligandoci a riconoscerci senza amarci a tutti i costi: in definitiva, il debito ci suggerisce un modo per rimanere politici, senza affidare tutto alla politica” (p. 216).

In questo caso il debito assume il ruolo della tavola nella metafora cara a Hannah Arendt: “è simbolo della relazione politica, dal momento che unisce e separa al tempo stesso… La dimensione patrimoniale introduce un elemento terzo tra diritto e politica, tra narrazione e calcolo. Tentare di accordare un valore a quei danni significa “rimpatriarli” in una scala di valori comuni. Il denaro consente di laicizzare questi drammi, costantemente ambiti della metafisica, e di raffreddare i conflitti politici, affrontandoli in maniera obliqua e progredendo verso una soluzione dall’esterno, senza pretendere di andare alla radice” (p. 215).

 

http://it.reuters.com/

Omicidio a Dubai, capo Mossad non si dimetterà

giovedì 18 febbraio 2010 08:54

GERUSALEMME (Reuters) – Il capo del Mossad Meir Dagan non vede motivo di dimettersi in seguito allo scandalo dell'assassinio a Dubai, ed è improbabile che il primo ministro Benjamin Netanyahu gli chieda di farlo: è quanto ha riferito in condizioni di anonimato un confidente del capo dello spionaggio israeliano.

Mentre Israele non ha voluto commentare la vicenda dell'omicidio lo scorso 20 gennaio del comandante di Hamas Mahmoud al-Mabhouh, gli Emirati Arabi Uniti hanno indicato i sospetti assassini, compresi diversi che hanno copiato passaporti europei di persone attualmente immigrate in Israele.

Riconoscendo un modo di agire tipico del Mossad e prevedendo un pasticcio sulla vicenda dei ladri di identità internazionali, alcuni esperti hanno suggerito che Dagan dovrebbe essere obbligato ad andarsene, come il predecessore Danny Yatom nel 1997 dopo un omicidio perpetrato in Giordania.

Ma il confidente, che ha chiesto di non essere identificato, ha detto a Reuters: “Dagan non ha intenzione di lasciare prima che il suo mandato sia concluso”.

 

http://www.ansa.it/

Capo Hamas ucciso:Dubai, passaporti veri

Dublino convoca ambasciatore israeliano

18 febbraio, 12:16

(ANSA) -DUBAI, 18 FEB- Non sono falsi i passaporti europei utilizzati dal commando israeliano del Mossad accusato dell'omicidio a Dubai di un capo militare di Hamas. Lo ha detto il capo della polizia dell'emirato. E intanto il ministero degli Esteri irlandese ha convocato l'ambasciatore di Israele a Dublino, per discutere l'utilizzo dei passaporti. Secondo la polizia di Dubai, almeno tre degli undici passaporti utilizzati nell'operazione erano irlandesi.

http://www.agi.it/home

POLIZIA DUBAI, AL 99% ISRAELE DIETRO OMICIDIO CAPO HAMAS

(AGI) – Dubai, 18 feb. – Al “99 per cento” ce' il servizio segreto israeliano dietro l'omicidio di Mahmoud al-Mabhouh, il capo del braccio militare di Hamas ucciso a Dubai in una camera d'albergo da un commando di nove persone che ha utilizzato passaporti europei. Il capo della polizia di Dubai, Dahi Khalfan Tami ha riferito al quotidiano “The National” che “le indagini hanno consentito di scoprire che il Mossad e' coinvolto al 99 per cento, se non al 100 per cento” nel delitto.

 

http://it.peacereporter.net/homepage.php

17/02/2010Io, inconsapevole agente del Mossad

Corrispondente del quotidiano Haaretz scherza sulla sua identita' 'rubata' dai servizi israeliani

Or Kashti, giornalista di Haaretz, sosia dell'irlandese la cui identita' e' stata rubata dal Mossad, ironizza sul suo nuovo 'mestiere'. Tradotto dal quotidano israeliano, pubblichiamo il suo articolo

Tra i pomodori e le melazane del mio locale supermercato, ieri, mentre avevo appena finito di soffiarmi il naso maledicendo i miei continui attacchi allergici, un'anziana signora mi si avvicina e mi tocca la spalla: “Ha fatto bene, gliel'ha fatta vedere a quegli arabi”. Io ho annuito, ripiegato in fretta il fazzoletto e sono tornato in posizione eretta. Dopotutto, la mia nuova posizione come agente di alto grado del Mossad richiede un certo portamento dignitoso.
La prima telefonata e' arrivata alle otto di mattina, quando mia madre mi ha chieso se per caso ero stato all'estero di recente. Poi hanno chiamato altri, che volevano congratularsi per la storia di copertina che avevo fatto in qualita' di corrispondente di Haaretz per l'istruzione, chiedendomi perche' non gli avevo portato le sigarette dal Duty Free di Dubai. Camminando per le strade, la gente mi guardava in modo diverso, o almeno era quello che credevo io. Mia moglie, ovviamente, era meno turbata della mia apparizione nei giornali di tutto il mondo come “Kevin Daveron”, presunto irlandese indicato dalla polizia come capo della squadra del Mossad che ha ucciso l'alto esponente di Hamas, Mahomud al-Mabhouh nel suo hotel di Dubai. Lei non e' stata toccata dalle telefonate di congratulazioni o dall'adulazione pubblica. Ma neppure si e' sentita a suo agio nel vedere la straordinaria somiglianza tra la foto del mio pass giornalistico governativo e quella di Daveron. Ho anche raccontato a mia figlia del mio nuovo lavoro, le fara' probabilmente guadagnare punti a scuola, e sara' interessante vedere cosa dice la gente alla festa del papa'.
 

Non ho mai desiderato diventare un agente del Mossad, ma se sono diventato membro di questa benemerita organizzazione, sono contento di esservi entrato direttamente in un ruolo di comando. Per ora, vedo che ci sono molti vantaggi e, per adesso, pochi obblighi. Bene, sto cominciando a godermi la mia nuova immaginaria professione.

 

http://www.cipmo.org/lenya/cipmo/live/index.html

17-02-2010

Mossad base Italia

 

Roma, via Veneto, la spia è tornata a casa. È tornata là dove tutto è cominciato. Tra volute di fumo e poltrone in velluto una voce autentica evoca per la prima volta nomi, date e luoghi. Ma con calma, con metodo, perché emerga limpido il mosaico della nascita e dello sviluppo di una grande organizzazione, il Mossad.
Dall’incontro con lo 007 Mike Harari, Eric Salerno comincia a tessere una delle storie più incredibili e meno raccontate dello spionaggio internazionale: l’attività italiana dei servizi segreti israeliani.
Per oltre sessant’anni gli agenti di Tel Aviv hanno costruito, ideato e condotto le loro azioni facendo base tra Roma e Milano, complici i governi e i «servizi» del nostro paese. Dall’immigrazione clandestina degli ebrei sopravvissuti all’Olocausto al traffico internazionale di armi, dal sabotaggio della motonave Lino alle azioni armate contro le industrie italiane che rifornivano gli arabi. E poi, il rapimento Vanunu, passando per il misterioso disastro aereo di Argo 16, l’assassinio dell’intellettuale palestinese Wael Zwaiter, ordinato da Golda Meir per vendicare la strage di Monaco, e il caso Moro. Mossad base Italia ci regala un affresco inquietante e affascinante basato su documenti, testimonianze e un minuzioso lavoro giornalistico. Misteri irrisolti e storie personali si intrecciano come in un romanzo.
 

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

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