Rassegna stampa del 19 e 20 aprile.

Rassegna stampa del 19 e 20 aprile.

A cura di Chiara Purgato.

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LA VISITA IN ITALIA DEL PRIMO MINISTRO LIBANESE

Italia-Libano, Hariri: uno stato per i palestinesi con capitale Gerusalemme

Alò centro del colloqui con Berlusconi anche il sostegno economico italiano e la missione Unifil

Il premier libanese Saad Hariri, figlio del defunto Rafik ucciso in un attentato cinque anni fa, si trova in Italia per una visita ufficiale che lo ha portato ad incontrare le massime cariche dello Stato. Nella mattina è stato ricevuto al Quirinale dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per poi incontrare il presidente della Camera Gianfranco Fini. Al centro della politica portata avanti da Hariri, che nel pomeriggio ha visto Silvio Berlusconi, la soluzione del conflitto arabo-israeliano. 

 

Quella di Hariri è stata una visita importante visto il ruolo che l'Italia riveste nella missione di stabilizzazione Unifil, dopo il conflitto e i bombardamenti israeliani di qualche anno fa. Ma il premier libanese ha puntato forte sul conflitto che riguarda i palestinesi, la causa principale che rende insicura l'intera regione mediorientale. Questa impostazione si è mostrata in tutta la sua interezza nel corso dell'incontro con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

«Abbiamo garantito il mantenimento delle nostre truppe – ha detto Berlusconi nel corso delle dichiarazioni finali -, dei nostri soldati per quella situazione di confine con Israele e di controllo dell'attività degli Hezbollah che il primo ministro ritiene molto utile per il suo paese».

«Abbiamo parlato di tutta la situazione mediorientale – ha continuato il premier italiano -, dei rapporti con Israele, del dialogo di pace per la Palestina. Abbiamo parlato della Siria e del ruolo positivo che può svolgere in quel contesto la Turchia». Domani poi è in programma proprio un'altra riunione ufficiale tra lo stesso Berlusconi e il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan.

Inoltre l'Italia, attraverso il suo presidente del Consiglio, ha garantito un impegno per indurre la Ue ad avere un'attenzione del Libano maggiore di quanto sia stata fino ad ora. Le parole del Cavaliere sono state prontamente riprese da Hariri che ha subito affrontato il suo tema principale.

«Il conflitto arabo-israeliano e la situazione in Palestina sono per quanto riguarda i nostri programmi le maggiori priorità» ha affermato Hariri che poi ha detto con maggiore chiarezza: «Oggi siamo di fronte ad una vera opportunità per raggiungere la pace nella regione, che è incentrata sul diritto dei palestinesi a tornare ad uno stato che gli appartiene con capitale Gerusalemme, così come gli israeliani devono ritirarsi dalle alture del Golan e dalle fattorie Shebab del Libano».

Le parole del primo ministro libanese rappresentano il punto di maggior conflitto con lo Stato arabo e sarà difficile convincere gli israeliani delle istanze libanesi. D'altro canto ha ribadito il premier libanese «nel 2002 gli arabi hanno porto la pace per raggiungere la pace. La Ue, gli Usa e i paesi del quartetto hanno recentemente mostrato segnali per il raggiungimento della soluzione del conflitto. Non c'è momento migliore se non l'attuale quando le minacce contro il Libano sono in aumento».

 

 

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Palestina, Hamas e Fatah insieme per il 'giorno dei prigionieri'

Il centro di statistiche palestinese Bureau stima che più di 7mila palestinesi, tra cui 270 minori, siano attualmente detenuti nelle prigioni israeliane. – Hamas e Fatah chiedono ad Israele di liberare migliaia di palestinesi detenuti nelle carceri dello Stato ebraico. In occasione del così detto “giorno dei prigionieri”, i rappresentati di entrambe le fazioni rivali hanno fatto sabato scorso uno sciopero della fame di 24 ore di fronte agli uffici della Croce Rossa a Gaza City.Sia il leader di Hamas, Ismail Haniya, sia un rappresentate di Fatah, Rafat Hamdouna, hanno rilasciato dichiarazioni sulla necessità del popolo palestinese di opporsi all'occupazione israeliana senza divisioni interne.Alla protesta si sono uniti attivisti internazionali e parenti dei detenuti. Manifestazioni si sono svolte nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est. Il centro di statistiche palestinese Bureau stima che più di 7mila palestinesi, tra cui 270 minori, siano attualmente detenuti nelle prigioni israeliane. Tre prigionieri in particolare sarebbero in carcere da più di 30 anni, mentre 315 sarebbero rinchiusi da più di 15 anni.Si stima inoltre che circa 9mila palestinesi siano detenuti ogni anno con l'accusa di resistenza armata o per atti di disobbedienza civile e i gruppi per i diritti umani denunciano che sono stati settecento i minori arrestati solo nel corso dell'ultimo anno.

 

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M.O./ Abu Mazen: non consentiremo deportazione palestinesi

Il nuovo “dispositivo” militare israeliano è una provocazione

Il Cairo, 19 apr. (Apcom) – Il presidente dell'Autorità palestinese, Abu Mazen, ha assicurato che non permetterà l'espulsione di palestinesi dalla Cisgiordania e ha definito “provocatorio” il nuovo dispositivo militare israeliano che determinerebbe centinaia di espulsioni. “Israele non ha diritto di espellere alcun palestinese. L'Autorità palestinese non lo permetterà e vi si opporrà in tutti i modi”, ha affermato Abu Mazen da Sharm el-Sheik, al termine di un incontro con il presidente egiziano Hosni Mubarak. “La decisione israeliana è una sorta di provocazione”, ha aggiunto il presidente palestinese. Secondo quanto anticipato una settimana fa dal quotidiano israeliano Haaretz, decine di migliaia di palestinesi della Cisgiordania rischiano la deportazione a partire da oggi. Entra infatti in vigore un nuovo “dispositivo militare”, destinato ad impedire infiltrazioni illegali, ma che potrebbe avere per conseguenza automatica l'incriminazione di migliaia di palestinesi e la loro conseguente deportazione. In base al nuovo dispositivo, tutti i palestinesi le cui carte d'identità sono state rilasciate dalla Striscia di Gaza – persone nate a Gaza e i loro figli nati in Cisgiordania – e tutti coloro nati in Cisgiordania o all'estero che però hanno perso per qualsiasi ragione il loro status di residenti, potrebbero essere costretti dai militari israeliani a lasciare la Cisgiordania; così come anche le mogli nate all'estero di palestinesi. Finora questi gruppi di cittadini erano sottoposti alla giurisdizione civile, che aveva evitato in diverse occasioni la loro espulsione. Adesso la giurisdizione passa interamente nelle mani dei tribunali militari israeliani. Il nuovo dispositivo definisce come un “infiltrato” chiunque entri in Cisgiordania in modo illegale, ma anche “qualsiasi persona presente attualmente nell'area e non in possesso del permesso necessario”. 

 

 

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Colonie a Gerusalemme Est, Israele non intende fermarsi


Israele non smetterà di costruire a Gerusalemme Est e non intende raccogliere gli appelli per una moratoria, arrivati negli ultimi mesi dagli Stati Uniti, dal Quartetto per il Medio Oriente (Usa, Ue, Onu e Russia) e dal resto della comunità internazionale.

Ad affermarlo è il primo ministro Benjamin Netanyahu, secondo cui le pretese palestinesi sulla parte orientale della città santa (occupata dagli israeliani durante la guerra del 1967 e annessa nel 1981) rappresentano un ostacolo per la ripresa dei negoziati di pace.

“Questa richiesta che adesso i palestinesi hanno introdotto – di fermare tutte le costruzioni, le costruzioni ebraiche nei quartieri ebraici di Gerusalemme – è totalmente senza futuro, perché non fa che prevenire la pace”, ha detto il premier in un’intervista al network Usa Abc.

“La mia proposta è togliere di mezzo tutte le precondizioni, comprese quelle su Gerusalemme. Sediamoci a un tavolo e negoziamo la pace senza precondizioni. È questa la maniera più semplice di ottenere la pace”, ha detto ancora Netanyahu.

Concetto analogo ha espresso nelle stesse ore il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman: “Eventuali tentativi di imporre una soluzione del conflitto senza stabilire basi di fiducia reciproca – ha dichiarato – non faranno altro che aggravarlo”, in quanto “la pace va costruita”. 
Lieberman, che è intervenuto in occasione del 62esimo anniversario della creazione dello Stato ebraico, si è soffermato anche sulla questione cruciale dello status di Gerusalemme, che i palestinesi rivendicano come capitale del loro futuro Stato.

La città santa – ha detto – “resta la nostra capitale eterna” e “non potrà mai essere divisa né direttamente né indirettamente”. 
Risposta a Obama

Il riferimento – neppure troppo velato – delle precisazioni del ministro israeliano sono gli Stati Uniti e l’amministrazione Obama, che nelle ultime settimane hanno tentato di far pressione su Tel Aviv.

Solo pochi giorni fa il segretario di Stato Usa Hillary Clinton aveva rivolto un nuovo appello allo Stato ebraico, chiedendogli di fare di più per ottenere una pace con i palestinesi, e ribadendo la richiesta di uno stop alle colonie.

In risposta alle pressioni internazionali, lo scorso dicembre Israele ha accettato una moratoria di dieci mesi sulle colonie, da cui però ha escluso Gerusalemme. 

A marzo, anzi, Tel Aviv ha fatto sapere di volere realizzare 1600 nuove unità abitative nel quartiere ultraortodosso di Ramat Shlomo, nella parte palestinese della città.

L’annuncio, avvenuto durante una visita ufficiale del vicepresidente Usa Joe Biden, ha aperto una seria crisi diplomatica tra Washington e Tel Aviv, mettendo a rischio le storiche relazioni tra i due paesi.

 

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Dime: l`arma proibita d`Israele

Proprio in questi giorni si aggrava la situazione nella striscia-ghetto di Gaza. Ora manca l’elettricità perché non c’è il combustibile per far funzionare l’unica centrale elettrica. E’ dal 2007 che un embargo durissimo, con la complicità silenziosa di quell’Occidente che s’indigna a comando della regia Usa –Israel, cerca di piegare la popolazione palestinese, mentre proprio in questi giorni Israele ha concesso solo l’ingresso di camion che portavano scarpe e vestiti.
Ma vale la pena di riportare l’attenzione su quello che è accaduto di recente sotto il profilo militare e dell’uso indiscriminato di nuove armi nel teatro operativo del Vicino Oriente, che vede concentrata l’attenzione sulla falsa questione del nucleare iraniano.
Si parla, poco e a bassa voce dell’arsenale nucleare israeliano, che fino ad oggi è stato abilmente celato da occhi indiscreti e del quale non  si conoscono né l’esatta composizione né il numero, certamente un pericolo per la stabilità in tutta la regione.
Ma, se non i rari casi, ancor meno sappiamo dell’impiego operativo di armi non convenzionali, quelle che  esulano dal campo NBC-nucleare , batteriologico e chimico. A Gaza nell’offensiva dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 si consumò il massacro indiscriminato di civili palestinesi ad opera di Thasal, le forze di difesa israeliane, con  cannoneggiamenti, incursioni di mezzi corazzati e bombardanti aerei, accompagnati da esecuzioni di militanti di Hamas e civili che si erano arresi.
In pochi giorni migliaia di tonnellate di esplosivo fu riversato su una striscia di terra di 378 Km quadrati e abitato  da 1, 5 milioni di persone, un gulag dove far morie un popolo.
Il muro del silenzio innalzato attorno a Gaza dai media embedded, ha cercato di tenere celato il più possibile i crimini di guerra che sono stati compiuti, dando risalto solo agli isolati quanto sterili lanci di razzi artigianali kassan su qualche kibbutz, ma  le notizie e la conferma che armi non convenzionali e proibite erano state ampiamente utilizzate, sono trapelate lo stesso, anche grazie al coraggio dei medici accorsi per curare i feriti.  Fosforo bianco (WP), bombe a implosione e bunker-buster, bombe a grappolo , gas lacrimogeni potenziati  e le micidiali  bombe DIME, già impiegate in Libano nel 2006, senza contare il probabile utilizzo di proiettili all’uranio impoverito.
 

L’attenzione va focalizzata sulle DIME-bomb, che rischiano di imbarbarire ancor più nel futuro la repressione nei territori occupati.
Le bombe DIME (Low Collateral  Damage o Less Lethal Weapons) che vedono negli Stati Uniti l’ideatore e produttore, hanno visto l’immediato gradimento d’Israele che se n’è subito dotata.
Lo studio, la sperimentazione e la progettazione delle DIME è stata fatta presso l’Us Air Force Reserach Laboratory, insieme al Lawrence Livermore National laboratori, con una spesa di circa 40 milioni di dollari da parte del governo statunitense.
Sono bombe di nuova concezione, dotate anche di Gps, atte a non danneggiare l’ambiente circostante, come la bomba al neutrone, con massimi danni alle persone, ma infrastrutture quasi intatte. Un rivestimento esterno in polimero di carbonio , più economico e leggero del metallo, che si disintegra durate lo scoppio, al suo interno tungsteno polverizzato e mescolato con esplosivo. Il tungsteno che è molto resistente alle alte temperature, non si scioglie durante lo scoppio, ma è proiettato in innumerevoli microschegge che spazzano tutto quello che incontrano di umano nel raggio di pochi metr (un raggio minimo di 4 metri fino a un massimo di 10m.), e le persone sono fatte a pezzi, le amputazioni sono nette, come un taglio chirurgico. A maggior distanza invece la letalità di quest’arma è data dalle sue nano particelle in tungsteno, che penetrano nella pelle attraverso piccole ferite, ma qui l’azione combinata del carbonio del rivestimento e del metallo incandescente fa sì che esse arrivino  fino alle ossa causando la morte dei tessuti, con danni gravi agli organi.
 
Chi riesce a sopravvivere ha la quasi certezza di ammalarsi di cancro, in una logica criminale che vuole così creare dopo i danni iniziali, il caos e il collasso della struttura sanitaria del nemico, obbligata a curare i feriti contaminati che non potranno più essere impiegati sul terreno . Un’arma concepita per un tipico impiego antiguerriglia in centri abitati.
I medici che curarono i primi feriti dalla nuova arma, restarono scioccati per il tipo di ferite e le amputazioni provocate. Dalle foto si evince che gli arti sono stati come tagliati di netto, come se un’enorme ghigliottina avesse fatto tabula rasa nel raggio di azione della bomba.
Il New Weapons Research Committee ha denunciato all’opinione pubblica l’uso di quest’ arma , come testimoniato dalla Dott.ssa Paola Manduca e da Mads Gilbert, medico norvegese dell’organizzazione Norwac.
 
In questi anni il NWRC ha raccolto molte prove medico scientifiche, grazie anche alla testimonianza dei medici libanesi , che confermerebbero l’uso d tutta una serie di armi non convenzionali dal conflitto libanese del 2006 a Gaza 2008/09.

 

 

 

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