Rassegna stampa del 20 marzo.

Rassegna stampa del 20 marzo.

A cura di Chiara Purgato.

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Nablus, palestinese ucciso da esercito

Tensione ancora alta a Gerusalemme est, auto date alle fiamme

(ANSA) – NABLUS (CISGIORDANIA), 20 MAR – Un manifestante palestinese e' stato ucciso questo pomeriggio da soldati israeliani nei pressi di Nablus, in Cisgiordania. Lo hanno reso noto fonti mediche palestinesi. Intanto resta elevata la tensione anche oggi nei rioni palestinesi di Gerusalemme est dopo che nella nottata diverse automobili con targhe palestinesi sono state date alle fiamme da sconosciuti. Ieri sera a Gaza almeno undici persone sono rimaste ferite in un raid aereo israeliano portato contro un aeroporto.

 

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La diplomazia internazionale non perde la speranza di rilanciare il processo di pace in Medio Oriente. Ma sul campo la tensione resta altissima.Ieri sera almeno undici persone sono rimaste ferite in un raid israeliano contro un aeroporto in disuso a Rafah, nella Striscia di Gaza, considerato base dei terroristi. L’attacco fa seguito a quello di giovedì notte scattato come misura di rappresaglia per i due razzi Qassam lanciati dai territori contro lo stato ebraico.Disordini e scontri si sono registrati anche ad Hebron, a Gerusalemme le forze di sicurezza israeliane restano in stato di massima allerta mentre nella Striscia – sotto il controllo di Hamas dal 2007 – un migliaio di persone sono scese in strada per dire no al nuovo piano di insediamenti del governo israeliano. Un nodo questo sul quale prosegue il braccio di ferro tra la comunità internazionale e Gerusalemme. Ieri il Quartetto riunitosi a Mosca ha chiesto il congelamento di tutte le colonie lanciando un duro monito alla politica del premier israeliano Netanyau con grande soddisfazione dell’Autorità Nazionale Palestinese.

 

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M.O.: BAN KI-MOON, QUARTETTO SOSTIENE STATO PALESTINA

(AGI) – Ramallah (Cisgiordania), 20 mar. – Il segretario generale delle Nazioni Unite in visita a Ramallah in Cisgiordania ha ribadito che il Quartetto (Onu, Usa, Russia e Ue) “sostiene con forza” la costituzione di uno Stato palestinese. “Il Quartetto vuole inviare un chiaro messaggio: sosteniamo energicamente i vostri sforzi per creare uno stato palestinese indipendente e vitale”, ha detto Ban al premier dell'Anp, Salam Fayyad. Prima del suo intervento Ban ha effettuato un giro nella Cisgiordania sotto controllo israeliano dove si e' reso conto dei posti di blocco disseminati in tutta l'area. Al termine il segretario generale delle Nazioni Unite ha sottolineato di “aver visto direttamente e chiaramente come i palestinesi vivano condizionati da restrizioni e limitazioni. Perfino nel vostro territorio non siere liberi di sviluppare o anche mantenere una vita economica normale” Il premier palestinese Fayyad ha sottolineato come il 60% della Cisgiordania ricada nella cosidetta Area C, sotto esclusivo controllo israeliano, dove vivono pero' 70.000 palestinesi.

 

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L’inutile strategia negoziale del Quartetto per il Medio Oriente

PALESTINA. Le potenze promettono la soluzione del conflitto nel giro di ventiquattro mesi e invitano Israele a congelare gli insediamenti a Gerusalemme Est. Ma gli interlocutori che hanno scelto non possono garantire passi avanti verso la pace.

La soluzione del conflitto «nel giro di ventiquattro mesi» (parole del segretario Onu Ban Ki moon), l’invito per Israele a congelare gli insediamenti a Gerusalemme Est e la promessa di qualche negoziato diretto fra le due parti. Questa l’ultima ricetta del Quartetto per il Medio Oriente – composto da Stati Uniti, Russia, Unione europea e Nazioni unite – che ieri a Mosca ha visto riunirsi il segretario di Stato Usa Hillary Clinton, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, il capo della diplomazia dell’Unione europea Catherine Ashton e l’inviato speciale Tony Blair alla ricerca di una nuova strategia.
 
Un’impresa impossibile, dopo che nelle ultime settimane persino gli Stati Uniti hanno deciso di rimandare a tempo indeterminato la visita del proprio negoziatore nella regione, e che Mahmoud Abbas, il cui ruolo di presidente palestinese, teoricamente scaduto l’anno scorso, viene mantenuto dalla protezione Usa e Onu, ha deciso di ritirarsi dai proximity talks con Israele. Intanto, mentre da Mosca il Quartetto dispensava pace, una decina di missili e di elicotteri apaches israeliani hanno colpito la Striscia nottetempo: la reazione promessa contro i tre missili lanciati mercoledì nei pressi di Ashkelon.
 
È sempre più chiaro che Hamas, isolata e boicottata da tutti dopo che con un colpo militare – in seguito a una vittoria elettorale non riconosciuta del partito rivale Al Fatah – ha preso il controllo della Striscia, ormai non è in grado di controllare il territorio, né tantomeno le gesta dei gruppi estremisti che approfittano della situazione.
 

Così, mentre Hamas, in fondo un partito dotato di programma politico e impegni precisi, si vede scavalcato da estremisti ben più intransigenti, il Quartetto insiste a considerare soltanto al Fatah – a sua volta considerato un gruppo terrorista fino a qualche anno fa – come valido interlocutore e a impedire qualsiasi riconciliazione fra i due partiti palestinesi che controllano i due lembi di territori occupati.
 

Una scelta che Stati Uniti e Israele portano avanti grazie alla decisione di permettere i negoziati interpalestinesi soltanto se ospitati al Cairo dal regime di Hosni Mubarak, a sua volta fermamente deciso a boicottare Hamas per questioni politiche interne egiziane. Queste, per ora, le condizioni dettate dal Quartetto. Le stesse dell’anno scorso e dell’anno prima, ma che stavolta dovrebbero improvvisamente portare a un qualche risultato nel giro di 24 mesi.
 
Forse la speranza dei mediatori è che stavolta, se gli israeliani non acconsentono a frenare la costruzione delle colonie, quantomeno si possa sperare che la disperazione porti le varie fazioni palestinesi alla resa incondizionata entro breve tempo. Poco importano i rischi, poco importa il prezzo.  

 

 

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Ecco perché Obama se la prende con Israele

Testa a testa anche fra i giornali americani sulla crisi fra Stati Uniti e Israele a proposito dell’approvazione della costruzione di 1.600 nuove unità abitative nella parte est di Gerusalemme annunciata durante la visita in Israele del vice presidente Usa, Joe Biden. Lunedì il Wall Street Journal ha pubblicato un editoriale che critica aspramente il violento attacco a Israele firmato domenica dal celebre editorialista del New York Times, Thomas Friedman. Biden, aveva scritto Friedman, avrebbe dovuto ripartire subito per Washington lasciando detto agli israeliani, paragonati a “guidatori ubriachi”, di “richiamare quando avranno intenzioni serie”.

Nella sua risposta l’editoriale del Wall Street Journal, intitolato “Obama si volge contro Israele”, ricorda che l’amministrazione Obama “ha sostenuto “sane relazioni” fra Iran e Siria, ha mitemente disapprovato l’accusa di “colonialismo” lanciata agli Usa dal presidente siriano Bashar Assad, si è pubblicamente scusata con Muammar Gheddafi per averlo trattato senza la dovuta deferenza dopo che il dittatore libico aveva invocato una “jihad” (guerra santa) contro la Svizzera”. Invece, continua l’editoriale, quando si tratta di Israele “l’amministrazione non ha nessun problema ad elevare di molti gradi l’indignazione pubblica. Le ripetute scuse da parte del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non hanno impedito al segretario di stato Hillary Clinton – in base a quelle che fonti della Casa Bianca hanno ostentatamente definito indicazioni personali del presidente, di etichettare l’annuncio israeliano come “un insulto” agli Stati Uniti. Dal momento che nessuno difende l’annuncio di Gerusalemme, men che meno un governo israeliano evidentemente in imbarazzo, è difficile capire perché l’amministrazione abbia scelto questa occasione per scatenare una crisi diplomatica in piena regola con il suo più affidabile alleato mediorientale… Se Israele avrà l’impressione che l’amministrazione cerca qualunque pretesto per far saltare le relazioni, si curerà molto meno di come potrebbero reagire gli Stati Uniti a un eventuale raid militare sull’Iran”.

Sulla questione degli insediamenti in Cisgiordania il quotidiano finanziario prende una posizione opposta a quella dell’amministrazione Obama. “È sempre più difficile sostenere che la loro esistenza sia un ostacolo fondamentale ad un accordo di pace coi palestinesi” scrive, e spiega: “Israele si è ritirato da tutti gli insediamenti della striscia di Gaza nel 2005 solo per veder trasformato quel territorio in uno staterello di Hamas e in una base per il continuo lancio di razzi contro civili israeliani. L’ansia di Israele circa il ruolo dell’America come onesto mediatore in qualunque sforzo diplomatico non può essere mitigata nevrosi dell’amministrazione su questo particolare progetto edilizio, che cade all’interno dei confini municipali di Gerusalemme e che può essere chiamato un “insediamento” solo nei termini massimalisti del lessico della parte palestinese. Qualunque realistico accordo di pace dovrà prevedere un raggiustamento delle linee del 1967 e uno scambio di territori: un concetto formalmente riconosciuto dall’amministrazione Bush prima del ritiro di Israele dalla striscia di Gaza”. 

Conclude il Wall Street Journal: “Se l’amministrazione Obama preferisce trasformarsi, come hanno fatto gli europei, nell’ennesimo pool di avvocati dei palestinesi, troverà sempre più difficile ottenere concessioni da Israele. Il che potrebbe anche essere il risultato più ambito dai nemici di Israele, sia nel mondo arabo che in occidente, perché permette loro di dipingere Israele come la parte intransigente che ostacola la strada della “pace”. Perché debba desiderarlo un’amministrazione Usa che ribadisce continuamente la propria amicizia verso Israele è tutt’altra questione. Ma, di nuovo, questo episodio corrisponde perfettamente allo schema seguito finora della politica estera di Obama: i nostri nemici vengono corteggiati, i nostri amici vengono strapazzati. È successo in Polonia, nella Repubblica Ceca, in Honduras e in Colombia. Ora è la volta di Israele”. 

 

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INCONTRO CON I REGISTI DI “ZAHRA” E “CHOU SAR?”

L’IMPORTANZA DELLA MEMORIA E LA SPERANZA NEL FUTURO

Alla 20a edizione del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina sono stati presentati due documentari potenti, forti e, soprattutto, personali: “Zahra”, dell’attore e regista palestinese Mohammad Bakri e “Chou Sar?” del regista libanese De Gaulle Eid.

Queste due opere hanno in comune molte cose, prima di tutto quella di essere state sceneggiate e dirette dai protagonisti della storia raccontata. De Gaulle è in scena praticamente sempre nel suo documentario, mentre Mohammad Bakri appare spesso in alcune scene. Sono due film totalmente personali, che definiscono la storia personale, appunto, di questi due registi.

De Gaulle, ora vive in Corsica, e ha deciso di raccontare il momento della sua vita in cui ha capito che, per andare avanti nel suo futuro, occorreva tornare indietro nel passato, tornare sul luogo del trauma infantile vissuto, per superarlo; ha ripercorso la sua storia privata, anche per dare forma a una metafora politica, per dare voce a quello che è successo (nel 1980 i suoi genitori e la sua sorellina sono stati assassinati a Ebdel, nel nord del Libano).

Zahra, di Bakri, è dedicato alla sua prozia materna, che oggi ha ottant’anni e vive in un villaggio palestinese. Il regista ricostruisce la storia di quel villaggio tramite la sua prozia, che, nel 1948, in un una sola notte, viene trasformata in profuga. Attraverso la storia della sua famiglia, ripercorrendo la storia della Palestina.

Avete realizzato due film talmente personali da essere anche collettivi e politici..

De Gaulle: “Il mio film parla del destino individuale confrontato con quello collettivo. Io sono il filo conduttore del film. Questo non potrebbe esistere senza una mia presenza, perché il destino della mia famiglia diventa il destino di un popolo. È la mia storia che diventa storia collettiva. Ho cercato di realizzare un film personale rendendolo più universale possibile. È stata una scommessa difficile e faticosa, non c’è stata messa in scena. È un documentario girato con un’apparecchiatura molto pesante.”

Mohammed: “Io sono nato nel 1953, cinque anni dopo il disastro che invase il mio villaggio in Palestina. Nel mio villaggio c’era un uomo, Youssef, che era pazzo per il cinema. E come in Nuovo Cinema Paradiso proiettava i film e li traduceva simultaneamente in arabo. E io mi sono innamorato del cinema e sognavo, così, di diventare attore. Ma essendo un palestinese, che viveva in Israele, sapevo che c’era qualcosa che non andava. Quando ho acquistato maggior consapevolezza politica, ho cercato di tradurre nel mio lavoro quello che pensavo. Zahra rappresenta tutti i palestinesi sia fuori sia dentro la Palestina. È una storia molto personale, ma anche molto collettiva. Quando ero bambino mi allattava. Ho fatto questo film su di lei per ringraziarla del suo latte.”

Questi due film hanno in comune tante cose. Sono due film sulla memoria: non possiamo vivere senza sapere cosa è successo, ma è necessario, anche elaborare il lutto per andare avanti… come si fa ad andare avanti?

De Gaulle: “Un film che parla di un fatto traumatico non esclude la speranza. Per certe persone il fatto traumatico può rafforzare la speranza, il desiderio di vivere. Rafforzare il desiderio di vita è necessario per andare avanti e godere della vita. Per riuscire a vivere in pace occorre rivisitare il passato doloroso, non dimenticandosi di questo passato, altrimenti tutto crolla. Non bisogna dimenticarlo soprattutto per i figli, che devono sapere quello che è successo.”

Mohammed: “Ma non c’è vita, non c’è futuro, senza speranza! Questo significa che non possiamo dimenticare il passato. Un mio amico, che oggi ha ottant’anni, quando nel ’48 fu espulso dal suo villaggio scrisse una poesia, che si intitola vendetta, il cui senso è “se io per strada incontro l’uomo che ha ucciso mio padre, voglio fare qualcosa, ma se prima di agire, prima di vendicarmi, penso che anche lui ha un padre, una madre, una moglie, dei figli, degli amici, che si preoccupano per lui,… non gli farò nulla, non mi vendicherò. Mi basterà guardarlo negli occhi e andarmene. Questa è la miglior vendetta.” La cosa più positiva che ci è successa è ricordare il passato e guardare al futuro senza odio. Dal mio punto di vista, l’odio è uno dei peggiori nemici dalla Creazione e dobbiamo lavorare per rendere la minoranza una maggioranza.”

Il film di De Gaulle è in tre parti, nell’ultima c’è il suo ritorno al villaggio, che piano piano, dalla macchina da presa, prende vita, finchè si posa su un vecchio. E la voce di De Gaulle, fuori scena, gli dice “tu sei l’assassino di mia madre”. La macchina è puntata sul volto di questo vecchio, che non può fare nulla… Come si riesce a concepire così la vendetta? Quanto occorre credere nelle parole e nella pazienza?

Mohammed: “La pazienza è collegata alla tolleranza, in mezzo c’è la vita! Dove c’è una c’è l’altra, dove non è così in mezzo c’è il suicidio! Solo se abbiamo tolleranza e pazienza siamo in grado di non giudicare gli altri. Con la pazienza siamo in grado di fare domande, anche se non sempre avremo delle risposte.”

De Gaulle: “Quando si incontrano persone come quella della mia ultima scena, si ha voglia di chiedere “perché?” e la prima reazione è la vendetta… Ma la vendetta può solo generare violenza! C’è un proverbio universale che dice di stare attenti al futuro; ma io aggiungo anche di stare attenti al passato. Quell’uomo mai avrebbe immaginato che un giorno io mi sarei presentato davanti a lui. Per me questa potrebbe essere una lezione: imparare come vivere in pace!”

 

 

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