Rassegna stampa del 5 marzo

Rassegna stampa del 5 marzo.

A cura di Chiara Purgato.

http://www.cdt.ch/

5 mar 2010 16:37

GERUSALEMME – Resta alta la tensione a Gerusalemme, dopo i disordini scoppiati sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme al termine della preghiere del venerdì. Secondo la polizia israeliana, gruppi di fedeli islamici hanno lanciato sassi contro la sottostante Spianata del Muro del Pianto, dove si trovavano fedeli ebrei. In migliaia sono stati sgomberati in tutta fretta. 

La polizia israeliana ha fatto ingresso nella Spianata, dove è stata accolta da una nutrita sassaiola, per poi ritirarsi a seguito di una intesa con il Waqf, l'ente per la supervisione dei beni islamici in Palestina. Una donna palestinese è rimasta gravemente ferita da un proiettile di gomma, ha detto il portavoce dell'ospedale Hadassah della città. Si contano anche altri 28 feriti, tra cui 15 poliziotti. Gli agenti hanno preso posizione presso uno dei punti di ingresso, la Porta dei Mugrabi, e consentono il deflusso dei fedeli islamici dalla Spianata. Ma all'interno della Moschea al-Aqsa restano alcune decine di giovani palestinesi.

Incidenti fra dimostranti palestinesi e reparti dell'esercito israeliano sono intanto segnalati in alcune località della Cisgiordania, fra cui Ramallah, Bilin e Naalin.

 

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Israel Apartheid Week, le università italiane s'inchinano ai palestinesi

In questi giorni, decine di università in tutto il mondo ospitano una serie di eventi legati all’Israel Apartheid Week. Giunta alla sesta edizione annuale, la manifestazione nasce con l’obiettivo di “educare riguardo al sistema di apartheid israeliano” e di imbastire una “campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni” contro lo Stato ebraico. Le azioni di boicottaggio sono legate a tre richieste specifiche: fine “dell’occupazione e della colonizzazione israeliana di tutti i territori arabi e smantellamento del muro”, riconoscimento “dei diritti fondamentali degli arabo-palestinesi cittadini d’Israele” e rispetto, promozione e protezione “del diritto dei rifugiati palestinesi a far ritorno alle proprie case, in ottemperanza alla risoluzione 194 delle Nazioni Unite”.

Gli atenei italiani coinvolti sono tre – Roma, Pisa e Bologna – e il calendario delle iniziative è molto ricco: si va dai documentari alle conferenze, dalle tavole rotonde ad un progetto “di sensibilizzazione e di teatro di strada sul boicottaggio dei frutti dell’Apartheid israeliano nei mercati rionali di Roma”, previsto per domani. All’Israel Apartheid Week hanno aderito gruppi studenteschi da ogni parte del globo: si va da Beirut a Edimburgo, da Gerusalemme a Londra, Da New York a Betlemme. Sul piano accademico, da segnalare è poi la risposta di 23 università canadesi in cui la Federazione degli Studenti Ebrei ha organizzato una contro-campagna intitolata Size Doesn’t Matter, e finalizzata – spiegano gli organizzatori al quotidiano “Haaretz” – a “sottolineare i molti risultati e contributi israeliani” sul piano culturale.

L’Israel Apartheid Week – come tutte le iniziative di boicottaggio nei confronti della cultura e dell’economia israeliana – ha chiaramente suscitato molte polemiche. Il principale tema di scontro è l’equiparazione tra lo Stato ebraico e il Sudafrica: secondo Natan Sharansky, presidente dell’Agenzia ebraica per Israele, “il paragone tra Israele e l’apartheid sudafricano è senza alcun fondamento”. Sulla stessa linea si colloca l’editorialista del quotidiano conservatore “Jerusalem Post” Larry Derfner, il quale mette in luce come – a differenza dei neri in Sudafrica – “gli arabi con cittadinanza israeliana hanno avuto diritto di voto sin dal giorno in cui è stato fondato lo Stato ebraico”. Tra le accuse rivolte ai promotori dell’Apartheid Week c’è anche quella di antisemitismo, ma gli aderenti alle manifestazioni sottolineano come criticare le politiche israeliane non significhi attaccare gli ebrei.

Tornando all’Italia, va segnalata anche una lettera scritta da alcuni docenti universitari di Pisa, Firenze e Milano in concomitanza con l’Israel Apartheid Week, intitolata “Diritto allo studio e alla libertà accademica in Palestina”. In questo caso, più che di boicottaggio, i docenti riflettono  sulla “situazione universitaria e scolastica del popolo palestinese”. Dopo aver denunciato “gravi violazioni del diritto all’istruzione, della libertà di insegnamento e della libertà di pensiero”, la lettera critica il fatto che l’Italia nel 2009 sia “diventata primo partner europeo nella ricerca scientifica e tecnologica dello Stato di Israele, responsabile delle violazioni di cui sopra”: obiettivo dei docenti è l’organizzazione di seminari per individuare “degli strumenti di intervento concreto a favore delle università e delle nuove generazioni di studenti e studiosi palestinesi e arabo-israeliani”.

Il rischio, secondo i firmatari, è che si vada incontro ad “un vero e proprio etnocidio del popolo palestinese ed arabo-israeliano”: le nuove generazioni, infatti, sarebbero esposte “ad una radicale perdita della conoscenza della propria storia e della propria identità culturale e linguistica”. Morti, discriminazioni, violazioni del diritto allo studio sarebbero da imputare a Israele che, solo nel corso dell’operazione Piombo fuso, “ha bombardato, distruggendo o danneggiando gravemente, 280 scuole/asili e 16 edifici universitari”. Certo, che la guerra non abbia favorito il sistema d’istruzione palestinese è fuor di dubbio. Quello che viene taciuto, però, è che parte dei problemi andrebbero addossati anche ad Hamas, che nelle università – più che un tempio della cultura e della formazione – vede spesso dei centri di reclutamento politici e terroristici.

Pochi giorni fa, l’Università Islamica di Hebron ha sospeso ogni attività in seguito agli scontri scoppiati tra studenti di Fatah e di Hamas, i quali hanno accusato il presidente dell’Anp Abu Mazen di aver arrestato quattro colleghi. Secondo l’amministrazione universitaria, gli attivisti di Hamas avrebbero distribuito materiale “infiammatorio” dando così il via agli scontri. Simili incidenti non sono nuovi all’Università di Hebron, così come nell’Università Al-Azhar di Gaza. Ma le violenze non si limitano ai giovani: lo scorso anno, il rettore dell’Università Al-Aqsa – Ali Zeidan Abu Zahry – è stato cacciato e sostituito da un consiglio di tre membri cari ad Hamas. Fatah – come riporta l’agenzia di stampa Ma’an – commentò: “Hamas ha preso d’assalto l’Università in modo barbaro e ne ha assunto il controllo con la forza”.

L’elenco delle violazioni al diritto allo studio dei palestinesi dovrebbe insomma comprendere anche abusi interamente attribuibili ad Hamas, nel quadro dello scontro per l’egemonia politica e culturale in corso con i moderati di Fatah. E una cooperazione culturale tra atenei italiani e palestinesi è certamente auspicabile, a patto di valutare attentamente con quali istituzioni accademiche si sta collaborando. Questo però, a differenza di quanto lascia intendere Danilo Zolo sul “Manifesto” di ieri, non dovrebbe essere contrapposto all’accordo governativo che avvia un biennio scientifico e tecnologico italo-israeliano. Piaccia o no, le università dello Stato ebraico sono un esempio di eccellenza, e i loro talenti non sono responsabili delle politiche governative israeliane.

 

 

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Palestina: domenica possibile ripresa dei negoziati di pace

 

     

 

 

L’Autorità nazionale palestinese non si è ancora espressa, eppure la stampa israeliana tutta è sicura che i colloqui indiretti tra Tel Aviv e Ramallah riprenderanno domenica. Secondo il quotidiano Ha’aretz l’ipotesi sarebbe sostenuta dal fatto che proprio per la sera di domenica è previsto l’arrivo in Israele dell’inviato Usa per il Vicino Oriente, George Mitchell, il quale mercoledì scorso è stato invitato dalla Lega Araba a proseguire nella mediazione tra le due parti. Lo stesso giornale riferisce poi di una conversazione privata fra Shimon Peres e alcune importanti personalità politiche del Paese, nella quale il presidente israeliano avrebbe espresso il desiderio che il primo ministro Benjamin Netanyahu chiudesse ogni rapporto politico con i partiti di estrema destra attualmente al governo. Secondo Peres, infatti, la presenza di questi nella compagine dell’esecutivo sarebbe uno dei maggiori ostacoli alla ripresa dei negoziati.
Il leader israeliano ha quindi ipotizzato che il premier possa sostituirli con il partito centrista Kadima, guidato dell’ex ministro degli Esteri nonché avversario di Netanyahu nelle scorse elezioni, Tzipi Livni. Una proposta irrealizzabile allo stato dei fatti e che, se anche fosse messa in pratica, cambierebbe di poco la situazione poiché in ogni caso non sarebbe possibile escludere dal governo lo schieramento laico radicale Israel Beitenu di Avigdor Lieberman, a causa del sostegno di cui gode fra la popolazione. Oltre a questo va ricordato che la stessa Livni non può nemmeno essere definita un “male minore” rispetto a qualunque leader radicale visto che fu proprio lei, insieme con il permanente ministro della Difesa Ehud Barak, a dare il via al genocidio dei palestinesi di Gaza con l’operazione “Piombo Fuso”.
Difficilmente però Netanyahu seguirà le direttive di Peres considerando anche il duro scontro istituzionale in atto fra le due alte cariche israeliane. Il primo ministro si è risentito molto della scelta del presidente di partecipare all’incontro con il leader dell’Anp Mahmud Abbas il prossimo 22 aprile a Roma su invito del sindaco Alemanno. Una scelta che secondo Netanyahu, considerando la delicata situazione attuale, avrebbe dovuto coinvolgere anche l’esecutivo. In ogni caso il governo israeliano non sembra avere alcuna intenzione di mostrarsi disposto a rinunciare alla propria politica coloniale per favorire il clima in vista di una ripresa dei negoziati, sulla quale l’Autorità palestinese si deve però ancora pronunciare. In attesa che Abbas dica la sua, infatti, le autorità di Tel Aviv hanno dato il via all’esproprio di alcuni terreni nei pressi di Betlemme per fare spazio alla barriera che circonda la Cisgiordania. Le ruspe israeliane non hanno esitato ad invadere i campi coltivati dei palestinesi per sradicare tutte le piante di ulivo presenti. Nel frattempo a Gerusalemme è andata in scena la macabra commemorazione di Baruch Goldstein, l’israeliano che il 25 febbraio di sedici anni fa sparò su di un gruppo di musulmani raccolti in preghiera nella Tomba dei Patriarchi a Hebron, uccidendone 29.
“Dottor Goldstein, non c’è nessuno come te al mondo. Dottor Goldstein tutti noi ti amiamo. Ha mirato alla testa dei terroristi, premuto il grilletto e sparato, sparato, sparato”, recita una delle canzoni scandite dai presenti. A differenza di quello che accade solitamente quando sono gli arabi a scendere e manifestare per le vie della Città Santa, la polizia ha ritenuto bene di non intervenire. Ma forse è proprio questo il concetto di pace di Tel Aviv: una “Pax israeliana”. 

 

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Israele – Stati Uniti: puntare sull'Egitto potrebbe non dimostrarsi una strategia vincente

Israele e Stati Uniti puntano sull'Egitto per la risoluzione dei problemi contingenti nella regione: la ripresa del processo di pace tra Israele e Palestina e la questione iraniana. La priorità del governo israeliano rimane la sicurezza e per questo la cooperazione dell'Egitto per il controllo dei confini è di vitale importanza. Il Cairo si sta dimostrando un alleato fidato dal punto di vista strategico, dando il via alla costruzione di una barriera di separazione al confine della Striscia di Gaza. Ma sul piano interno l'Egitto sta attraversando un periodo di transizione: la fine dell'era Mubarak e il progressivo deterioramento della democraticità del paese rischia di spaccare definitivamente le fratture sociali e politiche del paese.

 

 

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Medio Oriente, la soluzione 
della Casa Bianca

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In che consiste la proposta dei “colloqui indiretti”?

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DAL CORRISPONDENTE DA NEW YORK

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L’amministrazione Obama si affida ad una nuova formula per tentare di far ripartire i negoziati fra israeliani e palestinesi. Si tratta di una ricetta con due ingredienti. Primo: i colloqui fra le due parti saranno «indiretti» ovvero israeliani e palestinesi si troveranno in stanze separate e a fare la spola sarà l’inviato Usa George Mitchell, consentendo così di ovviare al persistente disaccordo sulle nuove costruzioni a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Secondo: gli incontri «indiretti» si svolgeranno al Cairo, sotto l’egida della Lega Araba che ne ha stabilito la durata massima in quattro mesi. Se l’assenza di un dialogo diretto riporta le lancette dei rapporti fra israeliani e palestinesi al periodo precedente gli accordi di Oslo del 1993, l’ombrello formale della Lega Araba è la vera novità creando la base per un maggior «coinvolgimento della regione» nella composizione del secolare conflitto.

Sin da quando è arrivato alla Casa Bianca Obama ritiene che i Paesi arabi possano avere un ruolo decisivo nella risoluzione della crisi potendo da un lato spingere il presidente palestinese Abu Mazen ad accettare difficili compromessi – ad esempio sulla rinuncia al diritto al ritorno dei profughi del 1948 – e dall’altro ammorbidire le resistenze di Israele sulle concessioni territoriali facendo leva sulla normalizzazione dei rapporti promessa dal piano saudita del 2002. Ad avvalorare l’importanza della «cornice regionale» c’è quanto sta avvenendo sul terreno: l’Egitto ha aumentato i controlli anti-terrorismo al confine con la Striscia di Gaza diventando di fatto il garante dell’assenza di guerra fra Hamas e Israele; la Giordania sta godendo dei frutti economici del boom di sviluppo che si registra nei maggiori centri della West Bank; l’Arabia Saudita guida il fronte dei Paesi arabi preoccupati del programma nucleare iraniano tanto quanto lo è lo Stato Ebraico. 

Tutto ciò contribuisce a fare della Lega Araba un interlocutore di Israele creando una situazione che offre a Obama la possibilità di tentare di sbloccare lo stallo ovviando alla difficoltà dovuta all’esistenza di due interlocutori palestinesi in attrito fra loro: Hamas a Gaza e l’Anp a Ramallah. La nuova ricetta Usa però ha due avversari dichiarati in Siria e Hamas ovvero gli alleati di Teheran. 

 

 

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«GOLDSTEIN, TI AMIAMO». IL VIDEO È SU INTERNET
Gerusalemme est, provocazione dei coloni
«Dottor Goldstein, non c'è nessuno come te al mondo. Dottor Goldstein tutti noi ti amiamo…hai mirato alla testa dei terroristi (i fedeli musulmani in preghiera, ndr), premuto il grilletto e sparato, sparato, sparato». Centinaia di estremisti di destra israeliani hanno inneggiato a Baruch Goldstein, il colono ebreo che sedici anni fa massacrò 29 palestinesi nella moschea della Tomba dei Patriarchi (Hebron), prima di essere ucciso a sua volta. Lo avevano già fatto ad Hebron, in occasione del Purim, e lo hanno rifatto a Gerusalemme Est. Per la loro provocazione hanno scelto il quartiere arabo di Sheikh Jarrah, da mesi al centro di forti tensioni tra i palestinesi e i coloni che cercano di insediarsi con la forza nell'area. Il sito del quotidiano Yedioth Ahronoth ha mostrato ieri un filmato in cui si vedono i coloni mentre ballano, cantano e inneggiano a Goldstein davanti agli abitanti palestinesi. Tutto sotto gli occhi della polizia, che è rimasta immobile. Al contrario i poliziotti a Sheikh Jarrah non mancano di arrestare e malmenare attivisti e pacifisti durante le manifestazioni contro le occupazioni di case arabe. Oggi pomeriggio a Sheikh Jarrah si svolgerà una nuova manifestazione di protesta di attivisti palestinesi e israeliani ma l'appuntamento più atteso è previsto per domani sera, quando nel quartiere oggetto degli appetiti della destra si terrà un raduno con centinaia di persone al quale parteciperanno anche parlamentari arabo israeliani e della sinistra, per denunciare il comportamento dei coloni che godono di aperti sostegni alla Knesset., al governo e al Comune di Gerusalemme. L'amministrazione guidata dal sindaco Nir Barkat nelle scorse settimane ha approvato la costruzione a Sheikh Jarrah di un grande parcheggio per favorire l'afflusso di «fedeli» alla Tomba del rabbino Shimon Hatzadik. Un progetto che, denunciano i palestinesi, punta in realtà a creare una «continuità territoriale» tra Sheikh Jarrah e la vicina zona ebraica di Gerusalemme.

 

 

 

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