Rassegna stampa del 7 e dell’8 marzo.

 

Rassegna stampa del 7 e dell'8 marzo.

A cura di Chiara Purgato.

http://notizie.virgilio.it/

M.O./ Alto rappresentante Ue Ashton visiterà Gaza questo mese

Il territorio palestinese controllato da Hamas

Roma, 6 mar. (Apcom) – L'alto rappresentante per la politica estera dell'Unione Europea, Catherine Ashton, si recherà nella Striscia di Gaza – il territorio palestinese controllato dal gruppo integralista Hamas – in occasione della sua missione in Medio Oriente in programma questo mese. Lo riporta il sito web del quotidiano Haaretz.

“Ho chiesto di andare a Gaza, sì”, ha detto oggi la Ashton all'inizio della seconda e ultima giornata di lavori alla riunione dei ministri degli Esteri Ue a Cordoba, precisando che la data esatta di inizio del suo tour nella regione non è stata ancora stabilita. Il suo predecessore, Javier Solana, aveva visitato Gaza nel febbraio 2009, subito dopo la fine dell'offensiva Piombo Fuso condotta dall'esercito israeliano contro Hamas.

 

M.O./ Israele autorizza Ban Ki Moon e Ashton a entrare a Gaza

Dopo che i due alti funzionari ne hanno fatto richiesta

Gerusalemme, 8 mar. (Ap) – Israele ha autorizzato il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon e il capo della diplomazia europea Catherine Ashton a entrare nella Striscia di Gaza. Lo annuncia il ministero degli Esteri israeliano, dopo che i due alti funzionari avevano fatto richiesta di visitare il territorio.

Lo Stato ebraico ha spesso negato a funzionari stranieri di entrare nella Striscia da quando Hamas ha preso il potere nel 2007, affermando che simili visite sostengono il movimento radicale palestinese. Le autorità possono entrare a Gaza dall'Egitto. La decisione – secondo un comunicato – è stata presa per permettere a Ban e Ashton “di farsi un'idea in prima persona delle attività umanitarie in corso” a Gaza.

 

Olp è aperta a colloqui indiretti con Israele sotto egida Usa

Per rilanciare processo di pace nella regione

Ramallah, 7 mar. (Apcom) – I palestinesi sono disposti ad avviare colloqui indiretti con Israele sotto l'egida degli Stati Uniti per rilanciare il processo di pace. Lo ha annunciato Yasser Abed Rabbo, segretario generale dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina. La direzione palestinese ha deciso di dare una chance alla proposta statunitense di raggiungere un accordo che conduca a colloqui indiretti con Israele”, ha dichiarato Abed Rabbo durante una conferenza stampa a Ramallah, in Cisgiordania, sede dell'Autorità palestinese del presidente Abu Mazen. Questa decisione, ratificata dal Comitato esecutivo dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), arriva dopo il sostegno manifestato dai ministri arabi degli Esteri a negoziati indiretti della durata di quattro mesi per “dare una chance” agli sforzi di pace statunitensi. Il semaforo verde dell'Olp, che era atteso, non significa, comunque, sinonimo di unità nelle file palestinesi. Ci sono infatti le due fazioni di sinistra, il partito Popolare (ex-comunista) e il fronte Popolare di liberazione della Palestina (Fplp), membri dell'Olp, che hanno espresso la loro opposizione a discussioni indirette. Mentre il movimento estremista islamico Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ma non fa parte dell'Olp, si oppone a qualsiasi discussione con Israele. 

 

http://www.israele.net/

08-03-2010

Quegli intellettuali un po’ stolti, e molto ipocriti

di Shaul Rosenfeld

Le manifestazioni della cosiddetta Settimana mondiale contro “l’apartheid israeliano” si sono aperte quest’anno con il toccante appello della “combattente per la libertà” Leila Khaled a “continuare la lotta armata contro Israele”. Leila Khaled, dirottatrice d’aerei civili ufficiale e ben nota beniamina della sinistra estremista in Europa occidentale, ha pronunciato le sue parole di “riconciliazione, pace e amore fraterno” in un video che è stato mostrato ai partecipanti ad un convegno di studi mediorientali all’Università di Londra, la settimana scorsa.
È possibile che in tempi normali, con accademici e intellettuali sani di mente che non si precipitano a venerare Satana, un appello del genere avrebbe suscitato grande sdegno. Ma questi sono tempi grami, un’epoca in cui gli orrori del mondo sono evidentemente tutti superati con l’unica eccezione delle ingiustizie e dei crimini di Israele, dell’oppressione dei suoi cittadini arabi, delle sue tante conquiste.
E così, persino i sondaggi che indicano che più di un terzo degli studenti musulmani britannici giustificano l’assassinio in nome della religione non possono sopraffare il “patto di sangue” che si sta saldando fra le “forze del progresso” dell’est e dell’ovest.
Bando agli equivoci, per carità: gli insediamenti di Kedumim e Ariel e Beit El non sono la principale preoccupazione dei partecipanti a quelle manifestazioni. Secondo il “programma” degli eventi della Settimana, i partecipanti dedicano la maggior parte delle loro attenzioni alla “intollerabile combinazione” data da uno stato ebraico, l’uguaglianza di cui gli arabi israeliani sarebbero deprivati, il ritorno di tutti i profughi (arabi) alle loro case e, naturalmente, l’Operazione Piombo Fuso che, come si sa, è piovuta addosso ad una striscia di Gaza senza macchia e senza colpa.
In tempi come questi pare logico che studenti delle associazioni della London School of Economics e del Queen Mary College stringano un gemellaggio con l’Università Islamica di Gaza, quella che fra l’altra funziona da laboratorio per lo sviluppo degli esplosivi dei terroristi, quella i cui migliori laureati eccellono nel lancio di Qassam sui civili di Sderot e dintorni giusto subito dopo aver buttato giù da qualche tetto di Gaza i loro fratelli di Fatah.
E così assistiamo al revival della gloriosa partnership di un tempo fra gli intellettuali “liberal”, che sembrerebbero i più preoccupati per l’eguaglianza e la democrazia, per i diritti umani e civili e per lo status delle donne e della minoranze, e la setta degli zeloti islamisti, che brutalmente calpestano tutti quei valori, e altri ancora, e che nondimeno si accompagnano benissimo insieme, nei verdi campus di Londra, ansiosi di fare proprie le parole di Leila Khaled e di ascoltare attentamente alcuni dei più raffinati concetti enunciati da altri esponenti dell’illuminato islamismo.
Per la verità, nulla di veramente nuovo sotto il sole. Un tempo era il georgiano Stalin, “sole dei popoli”, noto assassino di massa, che accendeva l’immaginazione social-comunista dei migliori esponenti della sinistra estremista occidentale. Ora sono i rampolli spirituali di quegli “utili idioti” – che si presentino con la bandiera di attivisti anti-globalizzazione, pro-anarchici, neo-marxisti, guevaristi, anti-sionisti, o semplicemente normali antisemiti sottoforma di anti-israeliani – oggi sono loro che ogni benedetto giorno si dedicano alla santa opera di condannare il mostro Israele.
In passato abbiamo visto un fiero socialista come George Bernard Shaw parlare positivamente dei processi-farsa di Stalin sostenendo che nessuno avrebbe dovuto nutrire il minimo dubbio sulla colpevolezza degli accusati. Allo stesso modo oggi vediamo Noam Chomsky che trova il modo di rendere onore a quel grande umanista libanese che è il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah.
In passato abbiamo visto il periodico ufficiale del partito israeliano Mapam che, listato a lutto per la morte di Stalin nel 1953, a proposito della scomparsa del massacratore di massa antisemita Joseph Vissarionovich parlava del “profondo dolore provato in questo momento da tutti i paesi socialisti, e nel cuore di ogni persona amante della pace ovunque nel mondo”.
È esattamente così che Hannah Arendt trovò il modo di inorridire per il male umano, e allo stesso tempo studiare sotto la guida del nazista Martin Heidegger. Allo stesso modo una irriducibile femminista come Judith Butler può entusiasticamente appoggiare il boicottaggio contro Israele e poi andare a Ramallah e Jenin a condividere con gli arabi del posto le sue perle di saggezza sulle questioni di genere e sui diritti delle donne, mentre appena fuori la sala della sua conferenza gli oggetti delle sue lezioni si aggirano coperte da veli, burka e hijab.
E là dove la deformazione ideologica non è sufficiente, ecco che arrivano i denari islamici a completare il quadro. E così, una illustre istituzione accademica come la Columbia University di New York non trova nessun remora morale nel prendere soldi dalla Alavi Foundation, che stanzia centinaia di migliaia di dollari per studi su Medio Oriente e Iran purché l’università in questione ingaggi docenti che sostengono il regime iraniano. Allo stesso modo, il principe saudita al-Walid Bin Talal può versare centinaia di milioni di dollari a varie università occidentali, compresa Oxford, influenzando in questo modo drammaticamente i risultati di un bel po’ di studi riguardanti il conflitto arabo-israeliano.
“Certe idee sono così stupide che solo un intellettuale può prenderle per buone” scrisse una volta George Orwell, dimenticando per un momento che la stoltezza di certi intellettuali non arriva alle dimensioni della loro ipocrisia.

 

Organizziamo una vera settimana dell’apartheid in Medio Oriente

di Alan M. Dershowitz

Ogni anno, più o meno in questo periodo, studenti islamici estremisti – coadiuvati da professori estremisti anti-israeliani – organizzano un evento che loro chiamano “settimana sull’apartheid israeliano”. Durante tale settimana cercano di indurre gli studenti in vari campus universitari in giro per il mondo ad aborrire Israele come un regime da apartheid. La gran parte degli studenti sembra ignorare le invettive di questi estremisti, ma alcuni ingenui finiscono con prenderli sul serio. Altri studenti, ebrei o pro-israeliani, denunciano di venire intimiditi quando cercano di rispondere alle loro falsità.
In quanto persona che si oppone con determinazione a qualunque tipo di censura, la mia soluzione è sempre quella di combattere i discorsi malevoli con discorsi validi, le menzogne con la verità, l’insegnamento disonesto con l’insegnamento autentica.
In questo spirito mi faccio sostenitore della proposta di tenere nelle università in tutto il mondo una “settimana dell’apartheid mediorientale” che sia basata sul principio – universalmente accettato in fatti di diritti umani – della “priorità al caso peggiore”. In altri termini, innanzitutto devono essere studiate e rivelate le forme peggiori di apartheid praticate da nazioni ed entità mediorientali. Poi andranno studiate le pratiche da apartheid di altri paesi, in ordine di gravità e di impatto su minorane vulnerabili.
In base a questo principio, il primo paese da studiare è l’Arabia Saudita: un regime tirannico che pratica l’apartheid di genere in grado estremo, relegando le donne in uno status estremamente basso. Non a caso un eminente imam saudita ha emesso di recente una fatwa in cui si proclama che chiunque sostenga che le donne lavorino a fianco di uomini o che in altro modo compromettano l’assoluto apartheid di genere, è passibile di esecuzione. I sauditi praticano anche un apartheid basato sull’orientamento sessuale, imprigionando e giustiziando cittadini sauditi gay e lesbiche. Inoltre l’Arabia Saudita pratica un esplicito apartheid religioso: ha strade speciali riservate “solo ai musulmani”, discrimina i cristiani rifiutando loro il diritto di praticare apertamente la loro religione e – è appena il caso di ricordarlo – non riconosce agli ebrei il diritto di vivere in Arabia Saudita, di possedervi proprietà e persino (con limitate eccezioni) di entrare nel paese: insomma, un apartheid con rappresaglia.
La seconda entità sulla lista dei peggiori apartheid mediorientali da studiare dovrà essere Hamas, l’autorità de facto della striscia di Gaza: anche Hamas discrimina apertamente le donne, i gay e i cristiani, non permette nessun dissenso, nessuna libertà di parola, nessuna libertà di religione.
Ogni singolo paese mediorientale pratica queste forme di apartheid, in un grado o nell’altro. Si consideri ad esempio la nazione più “liberale” e filo-occidentale dell’area, vale a dire la Giordania. Il Regno di Giordania, che il re stesso ammette non essere una democrazia, ha una legge nei suoi codici che proibisce a qualunque ebreo di essere cittadino giordano e di possedere terre in Giordania. Nonostante gli sforzi della regina progressista, le donne di fatto sono ancora subordinate praticamente in tutti gli aspetti della loro vita in Giordania.
L’Iran naturalmente non pratica nessuna discriminazione contro i gay dal momento che il suo presidente ha garantito che in Iran i gay non esistono affatto [Mahmud Ahmadinejad lo proclamò nel settembre 2007 dal pulpito della Columbia University]. In Pakistan, dei sikh sono stati giustiziati per essersi rifiutati di convertirsi all’islam, mentre in tutto il Medio Oriente vengono praticati omicidi delle donne detti “d’onore” spesso con la tacita approvazione delle autorità laiche e religiose. Tutti i paesi musulmani in Medio Oriente riconoscono una sola religione ufficiale, l’islam, e non fanno nemmeno finta di sforzarsi per garantire eguaglianza religiosa ai fedeli di altre fedi. E questa non è che una sintetica rassegna di alcune, certo non di tutte le forme di apartheid praticate in Medio Oriente.
Passiamo ora a Israele. Il laico stato ebraico d’Israele riconosce pieni diritti religiosi a cristiani e musulmani (e alle altre minoranze religiose) e proibisce ogni forma di discriminazione basata sulla religione (ad eccezione, per la verità, degli ebrei conservatori e riformati, ma questa è un’altra storia!). I cittadini musulmani e cristiani d’Israele (in tutto più di un milione) hanno diritto di votare ed essere eletti alla Knesset, e alcuni di costori si oppongono anche al diritto di Israele di esistere. Un arabo siede alla Corte Suprema, un arabo è membro del governo, numerosi arabi israeliani occupano posizioni importanti nel business, nell’università, nella vita culturale della nazione. Un paio di anni fa, nella sede YMCA di Gerusalemme, ho assistito a un concerto dove Daniel Barrenboim dirigeva un’orchestra mista di musicisti israeliani e palestinesi davanti a un pubblico misto di israeliani e palestinesi. L’uomo seduto al mio fianco era un arabo israeliano: più esattamente il ministro della cultura dello Stato d’Israele [Raleb Majadele, dal 2007 al 2009 ministro di scienza, cultura e sport nel governo Olmert]. Qualcuno riesce a immaginare un concerto di questo genere che avesse luogo nell’apartheid del Sudafrica o nell’apartheid dell’Arabia Saudita?
In Israele vige competa libertà di dissenso, che infatti viene praticata con gran vigore da musulmani, cristiani ed ebrei. E infatti Israele è una vibrante democrazia.
Ciò che vale per Israele vero e proprio, comprese le sue regioni a maggioranza araba, non vale per i territori occupati. Israele ha posto fine all’occupazione della striscia di Gaza alcuni anni fa [estate 2005], col solo risultato di venire attaccato dai razzi di Hamas. Israele mantiene la sua occupazione in Cisgiordania solo perché i palestinesi hanno preso le distanze dalla generosa offerta che prevedeva indipendenza statale sul 97% della Cisgiordania, capitale a Gerusalemme e 35 miliardi di dollari come pacchetto di indennizzi per i profughi. Se avessero accettato quell’offerta dell’allora presidente americano Bill Clinton e dell’allora primo ministro israeliano Ehud Barak, oggi esisterebbe (da quasi dieci anni) uno stato palestinese in Cisgiordania, non vi sarebbe la barriera difensiva, non vi sarebbero strade a circolazione limitata ai cittadini israeliani (ebrei, musulmani e cristiani) e non vi sarebbero insediamenti civili. Da molto tempo sono contrario agli insediamenti civili in Cisgiordania, come molti o forse la maggior parte degli israeliani. Ma chiamare “apartheid” un’occupazione che perdura a causa del rifiuto dei palestinesi di accettare la soluzione a due stati significa abusare della parola. Come capiscono bene quelli di noi che hanno combattuto la vera lotta contro l’apartheid, non c’è nessun paragone possibile tra ciò che accadeva in Sudafrica e ciò che accade oggi in Cisgiordania. Come ha ben detto il congressista John Conyors, che contribuì a fondare il Black Caucus del Congresso Usa, applicare la parola apartheid a Israele “non serve alla causa della pace, e l’uso di essa in particolare contro il popolo ebraico, che è stato vittima del peggior genere di discriminazione, una discriminazione che sfociava nella morte, è ingiurioso e sbagliato”.
La “Settimana sull’apartheid israeliano” in corso in varie università del mondo, focalizzandosi soltanto sui difetti dell’unica democrazia mediorientale, è accuratamente studiata per occultare i ben più gravi problemi delle vere forme di apartheid nei paesi arabi e musulmani.
La domanda è: perché tanti studenti si identificano con regimi che offendono le donne, i gay, i non-musulmani, i dissidenti, gli ambientalisti e i sostenitori dei diritti umani, e intanto demonizzano un regime democratico che garantisce eguali diritti alle donne (il presdiente della Corte Suprema e il presidente del parlamento sono donne), ai gay (vi sono nell’esercito israeliano generali che sono gay dichiarati), ai non-ebrei (musulmani e cristiani occupano posizioni importanti in tutta la società israeliana), ai dissenzienti (praticamente ogni singolo cittadini israeliano dissente apertamente su qualcosa). Israele ha il miglior curriculum ambientale di tutto il Medio Oriente, esporta più tecnologia medica salva-vite umane di qualunque altro paese della regione e si è sacrificato per la pace più di qualunque altro paese di tutto il Medio Oriente. Eppure in tanti campus universitari democratici, egualitari e libertari Israele è una sorta di paria, mentre i terroristi di Hamas sessisti, omofobi, totalitari e anti-semiti sono considerati degli eroi.
C’è qualcosa di molto sbagliato in tutto questo.

 

 

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Ricatto israeliano alla Turchia di Erdogan

La risoluzione della Commissione affari esteri del Congresso americano, che ha definito “genocidio” i massacri commessi dai turchi ai danni degli armeni nel 1915, è stata probabilmente favorita dall’azione della lobby israeliana a Washington, come misura di ritorsione per il raffreddamento dei rapporti fra Ankara e Tel Aviv – sostiene il giornalista palestinese Abd al-Bari Atwan

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Non è da escludere che la lobby israeliana negli Stati Uniti abbia giocato un ruolo di primo piano nel voto della Commissione affari esteri della Camera dei rappresentanti a favore della risoluzione che accusa la Turchia di aver commesso un genocidio contro gli armeni nel 1915. Ciò sarebbe avvenuto anche grazie alle esortazioni della lobby armena a compiere questo passo, e attraverso il suo forte appoggio dietro le quinte.

E’ evidente che le relazioni turco-israeliane stanno registrando un crescente deterioramento, dopo che il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan ha assunto una posizione di condanna nei confronti dell’ultima aggressione israeliana a Gaza, ed ha chiesto di porre fine all’ingiusto assedio della Striscia, e di fermare le operazioni di pulizia etnica e culturale che colpiscono i palestinesi ed i loro luoghi santi nei Territori palestinesi occupati.

La lobby israeliana ha una forte influenza sul Congresso americano, e si era sempre schierata a fianco della Turchia, e contro la lobby armena. Tuttavia, dopo le nuove posizioni assunte dalla Turchia in merito alla questione palestinese, la lobby israeliana ha cominciato a cambiare le proprie alleanze adottando politiche ostili ad Ankara.

La risoluzione della Commissione del Congresso, che ha vinto per un solo voto (23 a 22), giunge come una mossa volta a sabotare gli enormi sforzi di riconciliazione prodigati dalla Turchia nei confronti della vicina Armenia con l’obiettivo di normalizzare i rapporti fra i due paesi e siglare una serie di accordi di cooperazione economica.

Israele ha un grande interesse ad assediare Ankara ed a contrastare i suoi sforzi di allacciare stretti rapporti con i suoi vicini, i quali si distinguono dalla Turchia per storia e religione. Ciò spiega perché sia stata riaperta la ferita della controversia turco-armena, dopo che erano stati fatti grandi progressi sulla strada della riconciliazione fra i due paesi. La visita del ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman in Grecia e nella metà greca di Cipro, il mese scorso, è un altro tentativo di riattizzare un antico conflitto fra questi due paesi e la Turchia.

La lobby israeliana a Washington ha frequentemente “ricattato” la Turchia negli anni passati, rammentandole di sostenere la posizione turca (in merito alla questione dei massacri degli armeni) attraverso un’azione di contrasto che ha impedito alla forte lobby armena di penetrare il Congresso e di far emettere una risoluzione di condanna nei confronti della Turchia per aver commesso un “genocidio”.

E’ certo che il voto della Commissione affari esteri della Camera dei rappresentanti intende mettere in difficoltà il presidente Barack Obama e la sua amministrazione, compromettendo i suoi rapporti con la Turchia, nel contesto delle pressioni israeliane nei confronti sia della Casa Bianca che di Ankara. Il presidente Obama si era opposto al voto su questa questione, e si era rimangiato la promessa – fatta in passato alla lobby armena – di condannare la Turchia per aver commesso un genocidio ai danni degli armeni, nel caso in cui fosse giunto alla Casa Bianca. In realtà Obama si era spinto ancora oltre, quando aveva scelto Ankara come sua prima tappa nel mondo islamico, e durante la sua visita aveva lodato il modello democratico turco che conferma che non vi è contraddizione fra la democrazia e l’Islam.

Ma gli israeliani dominano il Congresso attraverso il loro gruppo di pressione in America, e non esageriamo se diciamo che il loro controllo del Congresso è quasi maggiore del loro controllo della Knesset. Essi sono riusciti a comprare la maggior parte dei deputati americani, come ha dimostratola schiacciante condanna  della relazione Goldstone da parte del Congresso.

Erdogan è diventato una spina nel fianco di Israele. Mentre Tel Aviv è riuscita ad addomesticare la stragrande maggioranza dei leader arabi – o con il pretesto della comune inimicizia nei confronti dell’Iran, e dei timori condivisi per il programma nucleare di quest’ultimo, o facendosi forte dell’alleato americano – Erdogan è uscito da sotto il mantello di Israele ed è diventato il primo difensore dei diritti dei palestinesi e il censore dei crimini israeliani nella Striscia di Gaza.

Le congiure contro Erdogan e il suo partito non cesseranno. Dopo che è stato smascherato il tentato golpe pianificato da alcuni generali dell’esercito, ecco un altro complotto all’interno del Congresso americano per macchiare l’immagine della Turchia e fomentare la discordia fra Ankara ed il mondo cristiano, riattizzando dispute dimenticate con i suoi vicini a nord e a sud.

Non crediamo che Erdogan si piegherà al ricatto israeliano, in primo luogo perché egli rappresenta un grande paese islamico, e poi perché trae la propria forza da una radicata esperienza democratica (che lo ha portato al governo attraverso le urne elettorali), oltre che dai successi economici senza precedenti che hanno portato la Turchia al 17° posto fra i paesi economicamente più forti del mondo.

Non crediamo neanche che Erdogan resterà a guardare, di fronte a queste campagne contro la Turchia. Egli ha già obbligato in passato Israele a scusarsi ufficialmente, nell’arco di poche ore, quando aveva minacciato gravi conseguenze se il governo israeliano  non avesse presentato queste scuse la sera stessa del giorno in cui gli israeliani avevano umiliato l’ambasciatore turco a Tel Aviv. In precedenza, egli non aveva neanche esitato a contrapporsi al presidente israeliano Shimon Peres quando quest’ultimo aveva mentito e travisato i fatti riguardo all’aggressione israeliana a Gaza, dando la colpa ai palestinesi. In quell’occasione, Erdogan aveva lasciato la sala in segno di protesta.

Ci auguriamo che Erdogan non si accontenti di richiamare il proprio ambasciatore a Washington in segno di protesta contro la risoluzione votata dalla Commissione affari esteri della Camera dei rappresentanti, ma che risponda ricordando al mondo intero i crimini di genocidio commessi dai coloni americani contro gli indiani d’America – gli abitanti originari del paese – o che parli delle due immense stragi perpetrate dall’America democratica, leader del mondo libero, quando sganciò le due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki nel momento in cui la seconda guerra mondiale si era praticamente conclusa a vantaggio degli Alleati. E se i due esempi appena ricordati sono considerati da alcuni come appartenenti ad un passato ormai lontano, basterà ricordare lo sterminio americano di due milioni di iracheni, la metà dei quali morirono sotto l’assedio imposto al regime di Saddam, mentre l’altra metà cadde vittima dell’invasione e dell’occupazione – per non parlare poi dei milioni di vedove, di orfani, e di sfollati; e la lista potrebbe continuare.

Tutti i crimini di sterminio e di pulizia etnica vanno assolutamente condannati, quali che siano le vittime, e quale che sia la religione o l’identità di coloro che li commettono. Ma ciò su cui non siamo d’accordo è il modo selettivo di rapportarsi a questi crimini, e l’utilizzo della condanna di questi crimini come strumento di pressione e di ricatto, soprattutto da parte del mondo occidentale e del suo alleato israeliano. Gli americani e gli israeliani sono gli ultimi ad avere il diritto di dare lezioni al mondo sui crimini di genocidio.

Le campagne di incitamento contro la Turchia continueranno nei prossimi mesi; di questo non dubitiamo affatto. Ma ci tranquillizza il fatto che esse potrebbero avere risultati del tutto contrari a quelli voluti, perché uniranno il popolo turco a sostegno dell’attuale governo, e metteranno in luce il livello di ingratitudine mostrato dagli alleati della Turchia nei confronti del loro paese, soprattutto quando la faccenda riguarda Israele. Malgrado i grandi servigi che la Turchia ha fornito per sessant’anni come membro della NATO, a fianco dell’America contro il blocco sovietico, tutto ciò viene messo da parte non appena la Turchia assume una posizione etica che non può non assumere in quanto stato musulmano, decidendo di sostenere i suoi correligionari più deboli e rifiutando le campagne di giudaizzazione dei luoghi santi islamici a Gerusalemme, ad al-Khalil (il nome arabo di Hebron (N.d.T.) ), ed altrove.

Il popolo turco non può dimenticare come è stato tradito dagli europei, che hanno rifiutato l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea sebbene Ankara avesse soddisfatto le condizioni richieste per l’adesione (alcune delle quali sono in contrasto con la religione islamica e con la sharia), mentre essi hanno aperto le porte ad alcuni ex membri del Patto di Varsavia. Allo stesso modo, i turchi troveranno difficile accettare le recenti posizioni americane contro la Turchia, sostenute da Israele.

Erdogan, il discendente degli Ottomani, si è trasformato in un simbolo di fermezza e di giustizia nel suo paese ed in tutto il mondo islamico, e non ci stupiremmo se egli dovesse cambiare la storia della regione così come ha cambiato la storia della Turchia, liberandola dal dominio dei militari, smascherando il razzismo europeo, e ponendo fine all’alleanza di Ankara con uno stato che intende giudaizzare i luoghi santi musulmani e distruggere la moschea di al-Aqsa, ricostruendo al suo posto il tempio di Salomone.

Abd al-Bari Atwan è un giornalista palestinese residente in Gran Bretagna; è direttore del quotidiano “al-Quds al-Arabi”

 

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08/03/2010

Israele, la provocazione continua

Tel Aviv da' il via libera alla costruzione di altri 112 insediamenti, nel giorno dell'arrivo del vice-presidente Usa Biden

Un giorno dopo l'annunciata disponibilita' dell'Autorita' nazionale palestinese ad iniziare colloqui indiretti con la mediazione americana, e a poche ore dall'arrivo della delegazione Usa a Gerusalemme, il ministero della Difesa israeliano ha approvato un progetto per la costruzione di 112 nuove abitazioni in Cisgiordania.

Malgrado la moratoria di dieci mesi imposta ai progetti della regione, Ehud Barak ha concesso un permesso speciale di costruzione a Beitar Illit “dovuto a problemi di infrastrutture e sicurezza”, si legge in un comunicato. Si tratta, ha spiegato la nota, di un progetto approvato dal governo Olmert e quindi prima del congelamento provvisorio degli insediamenti voluto dall'attuale premier Benjamin Netanyahu. Beitar Illit e' un insediamento ebraico ortodosso situato a sud-ovest di Gerusalemme. Il congelamento escludeva in origine tutti i progetti già avviati, oltre a non riguardare in nessuna maniera Gerusalemme est, la parte a maggioranza araba della città la cui annessione allo Stato ebraico non è riconosciuta dalla comunità internazionale. Secondo il ministro dell'Ambiente Gilad Erdan, il caso di Beitar Ilit rientrerebbe proprio fra le eccezioni previste per i cantieri già aperti.

A fine febbraio, la commissione israeliana per la costruzione di nuovi insediamenti aveva dato il via libera a un piano di nuove unita' abitative a Gerusalemme Est, vicino al sobborgo di Pisgat Zeev e nell'area palestinese di Shuafat; originariamente le case previste erano 1.100, ma sono state ridotte a 600 quando è risultato che alcune terre erano proprietà privata di palestinesi. Già più di 200mila israeliani vivono a Gerusalemme Est e nelle zone limitrofe della Cisgiordania, occupate dopo la guerra del 1967 e considerate parte indivisibile della città biblica. I palestinesi vogliono invece Gerusalemme Est come capitale di un futuro stato nella Striscia di Gaza e nella Cisgiordania.

L'annuncio di oggi rischia in ogni modo di proiettare nuove ombre sull'appena annunciata ripresa di negoziati indiretti fra Israele e l'Anp, mediati dagli Usa e a poche ore da una visita nella regione del vicepresidente americano, Joe Biden, la piu' alta carica statunitense a recarsi in Israele dall'elezione di Obama. Giusto ieri i palestinesi si erano detti pronti a rientrare in colloqui indiretti con Israele per rilanciare il processo di pace. Il capo negoziatore palestinese, Saeb Erekat, ha riferito oggi che la decisione israeliana rappresenta un sabotaggio del processo. I palestinesi avevano interrotto i colloqui di pace dopo l'offensiva lanciata da Israele contro la Striscia di Gaza nel dicembre 2008.

Peace Now, un gruppo umanitario israeliano, ha detto che il via libera ai nuovi insediamenti solleva pesanti interrogativi sulla volonta' di Israele di impegnarsi in un processo di pace: “Il governo israeliano saluta il vice-presidente degli Stati Uniti dimostrando di non avere alcuna genuina intenzione di fare avanzare il processo di pace”. Secondo il diritto internazionale, tutti gli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est sono considerati illegali.

 

http://www.osservatorioiraq.it/index.php

Palestinesi pronti a colloqui indiretti. “E’ l'ultima chance per la pace”

Osservatorio Iraq, 8 marzo 2010

A più di un anno dall’interruzione dei colloqui con gli israeliani, i palestinesi hanno fatto sapere di avere accettato la proposta statunitense per dei negoziati indiretti, già accolta in precedenza da Tel Aviv.

Ad annunciarlo – dopo che la proposta Usa aveva ricevuto il sostegno dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e quello della Lega Arba – sono state fonti del governo palestinese, secondo cui questa è l’ultima possibilità per raggiungere una pace in Medio Oriente.

“I rapporti si sono deteriorati a tal punto che gli Stati Uniti stanno provando a salvare il processo di pace con quest'ultimo tentativo – ma ricordate le mie parole – questa sarà l'ultima chance per vedere se esiste un modo per prendere delle decisioni tra israeliani e palestinesi”, ha detto il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat alla radio militare israeliana.

Già oggi l'inviato Usa George Mitchell dovrebbe incontrare il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che gli consegnerà una risposta scritta in cui verrà formalizzata la decisione.

Inizialmente Abbas aveva chiesto, come condizione per la ripresa dei negoziati, una sospensione completa degli insediamenti israeliani. L’avallo di Olp e Lega Araba ha però fornito l'appoggio necessario al leader palestinese per riprendere comunque i colloqui con Israele.

 

http://punto-informatico.it/

lunedì 8 marzo 2010

Facebook, il soldato che aggiornava troppo

I militari israeliani sono stati costretti ad annullare una missione in Palestina. Colpa di un aggiornamento sul social network in blu, a svelare la data precisa dell'intervento

Roma – Proprio recentemente, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti aveva ufficializzato una sorprendente apertura nei confronti dei social network, definiti utili strumenti online. I militari a stelle e strisce si potranno dedicare con maggiore impegno a piattaforme un tempo temute dal Pentagono, ad esempio Facebook e Twitter.

Ma il corpo militare israeliano ha dovuto fronteggiare un caso imbarazzante, che ha concretizzato una delle più serie paure già vissute dal Pentagono. Il timore che soldati troppo aperti alla sfera sociale della Rete possano in qualche modo compromettere l'esito di una missione.

Ed è accaduto esattamente questo. Un soldato israeliano è stato condannato da un tribunale militare a dieci giorni di prigione, prima di venire espulso dal corpo al quale apparteneva. A metterlo in guai seri, la sua propensione all'uso del social network in blu, Facebook. In particolare, l'aggiornamento di uno status: “Mercoledì, daremo una ripulita a Qatanah. Giovedì, con la volontà di Dio, torneremo a casa”.

La “ripulita” del villaggio palestinese da parte dell'esercito israeliano doveva rimanere una faccenda segreta. Mentre lo status del soldato illustrava precisi dettagli sulle dinamiche dell'attacco. Troppo rischioso, la missione è stata annullata. E qualcuno, a questo punto, ha già parlato di una lezione per il Pentagono.

 

http://www.agi.it/home

(AGI) – Gerusalemme, 8 mar. – Israele ufficializza domani la richiesta di assistenza alla Francia per la costruzione di una centrale atomica. Il ministro delle Infrastrutture Uzi Landau lo fara' a Parigi durante la Conferenza internazionale sul nucleare civile. L'impianto nasce da un progetto congiunto fra Israele e Giordania cui la Francia farebbe da supervisore e fornitore di tecnologia. .

 

http://www.ilvelino.it/

EST – M.O., la Cooperazione celebra le donne palestinesi con un video

Roma, 8 mar (Velino) – “Avere un ruolo”, “trovare un punto d’equilibrio tra il lavoro e la famiglia”, “soddisfare le proprie ambizioni”. Le donne palestinesi appaiono determinate e forti, concrete e allo stesso tempo sognatrici: è quanto conferma un video, realizzato dall’Unità tecnica locale (Utl) della direzione generale per la Cooperazione allo sviluppo (Dgcs) della Farnesina a Gerusalemme, e diretto da Carla Pagano, esperta dell’Utl in materia di politiche di genere e sviluppo. Il filmato – che dura cinque minuti ed è stato interamente girato tra Ramallah, Gerusalemme e Gerico – vede dodici donne raccontarsi: Mirna, Naila, Nisbet, Inam, Maysa, Badia, Amna, Rusalya, Huda, Ghada, Yusra, Maysa. Dodici nomi, dodici storie di successo e tre domande sull'essere, il lavorare, il desiderare. Mirna, 30 anni, lavora in una galleria d’arte nel cuore della Gerusalemme araba. Ha i capelli cortissimi e un piccolo brillantino al naso: “sono ambiziosa, instancabile sul lavoro, coraggiosa e non giudico gli altri”, afferma. “La donna dovrebbe diventare una decision maker”, spiega Naila, 32 anni, vicedirettrice della Camera di Commercio palestinese. Naila è moderna e autonoma: non è sposata ed è proiettata verso il mondo esterno.


Nisbet, 20 anni, di Gerusalemme, accento americano, confessa di amare due mestieri e di sentirsi scissa tra il ruolo di ostetrica e quello di attrice: “Descrivo me stessa semplicemente come una ragazza che vuol vivere la propria vita e ricerca il senso della bellezza. Amo recitare e questo mi aiuta a motivarmi”. Inam, 39 anni, di origini beduine, è invece più protesa verso il sociale e lavora con i rifugiati palestinesi, i bambini beduini, le donne: “Voglio cambiare le cose in meglio – afferma – la vera sfida per le donne passa attraverso le donne, non gli uomini. Il mio desiderio è contribuire ad un futuro migliore per un'altra donna”. Maysa, 17 anni, è nata in un villaggio contadino a nord della Cisgiordania, ma ora vive da sola a Ramallah e vuole fare la giornalista. Huda e Ghada, due sorelle di 14 e 16 anni, vivono a Jerico e sognano professioni decisamente maschili per la cultura in cui vivono. Huda fa la sportiva e nella vita “vuole essere una campionessa”. Ghada invece studia per diventare avvocato.

Yusra fa la pescatrice a Gerico e si sente completamente realizzata nella vita. Amna ha 67 anni ed e' felice: dirige un'associazione a Ramallah e crede nell'uguaglianza tra i sessi. Rusalya, di professione cuoca, è “ambiziosa” e ha “molti obiettivi nella vita”. Infine Badia, sindacalista, crede fermamente che “la grande sfida palestinese sia eliminare le discriminazioni tra uomo e donna”. “Questo progetto è nato a coronamento della Giornata internazionale della donna, ma anche dei nostri programmi nel settore gender, molto importanti e impegnativi – ha spiegato al VELINO Gianandrea Sandri, direttore dell’Utl di Gerusalemme -. Il video celebra tutte le varie sfaccettature della società palestinese con cui lavoriamo. Dalle imprenditrici, con le quali mediante le Ong, abbiamo in essere iniziative microcredito alle più giovani. Verso queste ultime c’è un programma di collaborazione con Unifem (il Fondo Onu per le donne) per costruire una rete di protezione contro la violenza sulle donne”.

Non solo. “A questo proposito, inoltre, – ha aggiunto il direttore dell’Utl -, Unifem ha aperto con noi il Centro Mehwar per il supporto, la protezione e l’empowerment di donne e bambini vittime di violenza domestica e persecuzione di genere”. La Dgcs ha concesso al Fondo Onu per il progetto un contributo di due milioni di euro. “Infine – ha concluso Sandri -, abbiamo il programma a gestione diretta Tawasol, recentemente approvato dalla Dgcs -, il cui obiettivo è l’empowerment economico e sociale delle donne a livello locale, attraverso l’ottimizzazione del funzionamento e l’incremento dei centri di donne nelle singole province dei Territori”. Si tratta di centri mirati allo sviluppo locale delle donne, “dove fare rete, per la raccolta di informazioni, training sulla comunicazione e il cinema, volti all'empowerment sociale economico e culturale delle donne palestinesi”, spiega Carla Pagano. I centri, uno per ogni Governatorato, vengono gestiti da gruppi di donne e sono parte integrante del Welod, programma finanziato dalla Dgcs con 1,5 milioni di euro e avviato nel febbraio 2010”.

 

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 8 marzo 2010

Il lato positivo

Più i palestinesi protestano pacificamente contro l’occupazione, più l’esercito aumenta la repressione, scrive Amira Hass.

La mia amica era al parco e il suo compagno mi ha chiesto di richiamare più tardi. Poi ha aggiunto: “Ma forse non tornerà tanto presto. È uscita con altri due di sinistra, e di questi tempi è un po’ pericoloso”. Stava scherzando, naturalmente. Le persone di sinistra possono passeggiare per ore a Tel Aviv senza essere seguite o fermate. Ma forse avrei dovuto scrivere “possono ancora”.

Attenzione: non c’è paragone tra il giro di vite dell’esercito contro i palestinesi e le misure prese contro i loro simpatizzanti israeliani. Più i palestinesi protestano pacificamente contro l’occupazione, più l’esercito aumenta la repressione: raid nei villaggi di Bili’n e Ni’lin, arresti di massa e lunghi processi basati su testimonianze dubbie.

Contemporaneamente le forze dell’ordine scoraggiano i cittadini israeliani dal violare la separazione imposta ai due popoli. Chi partecipa ad attività congiunte è accusato di schierarsi con il “nemico”. Negli ultimi due anni una nuova generazione di israeliani ha aderito alla causa palestinese, raccogliendo l’invito dei vecchi attivisti.
A Gerusalemme la polizia ha effettuato alcuni arresti durante le proteste contro l’espulsione dei palestinesi dalle loro case.

Anche le manifestazioni contro il muro di separazione preoccupano le autorità. Da qualche tempo i poliziotti chiedono la carta d’identità agli attivisti che manifestano a Tel Aviv. Spesso si segnano anche il numero di targa delle loro automobili. Ma far presente che l’esercito non ha nessun diritto di raccogliere informazioni su privati cittadini non serve a niente.

C’è un lato positivo: la repressione dimostra che l’esercito ha paura dei palestinesi e degli attivisti israeliani.

 

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