Reportage dai campi palestinesi in Libano

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Di Bushra El-Said (*) dal Libano.

6 gennaio. La neve ai margini della strada è sporca, le cime delle montagne sono bianche, sento il freddo fin sotto la pelle. 30 famiglie ci aspettano al gelo. Ogni famiglia occupa una stanza per un totale di 30 stanze.
Ci sono alcune fessure tra le varie assi d’alluminio che compongono i container abitativi, tappate con buste o vestiti. Per la tanta neve, alle volte, il tetto del container non regge e allora cede lasciando indifesi chi vi abita. Vestiti, berretti invernali, stivali, materassi, carburante, pacchi viveri, latte per i bimbi, coperte riempono il magazzino. Una donna stringe forte al petto una cappotto dalle piccole maniche, l’etichetta penzola dal bordo.
La felicità è semplicità.

A volte vorrei poter impacchettare certe emozioni e tirarle fuori nel momento del bisogno. Ma non è forse questo il compito dei ricordi?

Dei bambini a fine giornata ci cantano “mawtini”, hanno gli occhi lucidi, le scarpe imbrattate di fango e la bocca che sa di carammelle.
Sono queste le reminiscenze che vorrei abitassero la mia mente: tanti bambini sporchi di vita che ridono.

7 gennaio. Bourj el Barajneh, un chilometro quadrato di muri grigi bucherellati, piccole finestre, tubi d’acqua, sporcizia, ragnatele di fili elettrici, porte arruginite e decine di migliaia di vite imprigionate.
Rivoli d’acqua bagnano gli stretti e sghembi vicoli tra i palazzi ammassati. Da lontano il campo profughi sembra solo un ammasso di case abbandonate a se stesse, ma avvicinandomi sento la radio da una delle fineste, le risate di alcune ragazze, le grida di una donna, vedo dei panni stesi ad asciugare sopra i fili elettrici, delle scarpe orfane agli angoli dei vicoli.

Ho il fiato corto, le narici cariche di odore fetido, la bocca zeppa di parole che vorrei urlare, incastonate tra i denti. Mi sento claustrofobica, chiusa in un barattolo. Vorrei scappare, ho come un macigno sul petto, annaspo.
Un edificio dista dall’altro solo un metro, a volte anche meno, se alzo la testa non vedo altro che tubi d’acqua gocciolanti su fili elettrici sottostanti: un ragazzo qualche mese fa ha perso la vita, folgorato. Ma non è stato portato, com’è consuetudine, dai suoi famigliari per l’addio, ma direttamente sepolto: “Non abbiamo possibilità e capacità di portare le salme sino a casa, questi vicoli sono troppo stretti”.

Mi basta avvicinarmi un attimo per sentirli gridare. Le porte, i muri, le finestre, i panni stesi, le gocce d’acqua, i tubi, le scarpe, gli occhi delle persone che mi passano accanto gridano, ma non c’è via di scampo, nessuna via d’uscita. Il mondo da oltre 60 anni vi ha incastrati in questo chilometro quadrato e ci passerete una vita intera mentre l’umanità là fuori guarda e tace.

Su un muro è appeso un piccolo cesto di pallacanestro, sembra nuovo. L’illusione di un futuro o il ricordo di un tempo sbiadito.

Appena fuori dal campo sento di poter nuovamente respirare, mi volto indietro per l’ultima volta, degli occhietti da una minuscola fessura mi osservano, li sento: “Non lasciarmi in quest’aria scura, come una lucciola senza buio”.

(*) Delegazione Abspp onlus in Libano