Reportage tra i profughi in Sicilia: il Cara di Mineo

caraReportage tra i profughi in Sicilia. 1a parte: il Cara di Mineo.

Catania. Mercoledì 19 agosto. Di Angela Lano e Sulaiman Hijazi. Di buon mattino ci rechiamo in una via nei pressi della stazione ferroviaria, dove sono parcheggiate diverse auto di immigrati dell’Africa subsahariana. Sono tassisti abusivi che trasportano i rifugiati ospiti del Cara – centro accoglienza richiedenti asilo – da Mineo a Catania, per le spese e altre commissioni giornaliere.

Contrattiamo il prezzo e saliamo a bordo di un veicolo che presto si riempie di persone. Mineo dista un’ora da Catania e l’autista, Amin, un senegalese di 42 anni, ci racconta che talvolta vengono fermati dalle forze dell’ordine e multati per… eccesso di passeggeri. Per il resto, transito libero… Sono tre anni che fa questo lavoro e inizia a essere stanco: troppo rischi (le auto scassate) e poco guadagno. Sono in troppi a contendersi i viaggi da e verso il Cara: 18 auto che lavorano dal mattino alla notte. I tassisti sono prevalentemente nigeriani, libici e senegalesi.

IMG_0932Il Cara è organizzato nell’ex villaggio residenziale dei soldati statunitensi di stanza a Sigonella: un’ampia area nel “deserto” catanese, distante 10 km da Mineo, chiusa da filo spinato e controllata da esercito e polizia. Si entra e si esce con i permessi. Non è un lager, come ci era stato descritto nei giorni precedenti il nostro arrivo in Sicilia, anche se quel filo spinato e quel posto di guardia incute un certo disagio. Tuttavia, militari e polizia sono disponibili e hanno buoni rapporti con gli ospiti del centro rifugiati. Mentre aspettiamo l’autorizzazione a entrare, diversi ragazzi escono per raggiungere Catania o i campi agricoli lì vicino.

La permanenza nel campo dovrebbe essere di circa sei mesi – in attesa del processo per lo status di rifugiato -, ma molti vi rimangono anche un anno o più.

Sono circa 3000 i richiedenti asilo attualmente nel Cara: arrivano dalla Nigeria, dal Gambia, dal Mali, dal Senegal, dal Pakistan, dal Bangladesh, dal Ghana, dalla Costa d’Avorio, dalla Guinea Bissau, dalla Somalia, dalla Sierra Leone, dal Niger, dall’Egitto, dalla Libia, dall’Eritrea e da altri Stati. Sono diverse le famiglie ospiti del centro e le donne sole.

Il campo è costituito da diverse case a schiera su viali paralleli e da altre strutture per la mensa, moschee e chiesa, laboratori, uffici, scuola, ambulatori, lavanderia, ecc. E’ tutto pulito e ben organizzato e con un esercito di operatori: 400 tra mediatori, assistenti sociali, medici, psicologi, avvocati, addetti alla mensa e alle pulizie, ecc.

Ci riceve il direttore del centro, Sebastiano Maccarrone, che ci spiega come molti degli ospiti avevano lasciato il proprio Paese per trovare lavoro in Libia e che si erano ben inseriti sia a livello professionale sia sociale, negli anni precedenti la “primavera libica” che ha rovesciato il regime di Muammar Gheddafi. Con lo scoppio della rivolta, tuttavia, sono iniziati i problemi: persecuzioni a causa del colore della pelle, lavoro forzato e senza salario, violenze, prigionia, stupri. A migliaia, nel 2011, sono fuggiti verso le coste italiane, cercando salvezza dalle aggressioni sistematiche di bande di militari di fazioni varie: era l'”emergenza nordafrica”. Un’immigrazione di massa straordinaria e prevedibile, vista la situazione di guerra civile scoppiata in Libia.

All’emergenza straordinaria dei lavoratori immigrati in Libia che scappano da guerra e persecuzioni segue, nei mesi e negli anni successivi, e fino ad oggi, un’altra forma di fuga: quella delle vittime del lavoro schiavo. E’ gente che viene costretta a pagare per andarsene o che è costretta a salire sui barconi da sfruttatori che li hanno utilizzati come manodopera gratuita e che al momento di retribuirli hanno pagato 2000 euro agli scafisti e si sono sbarazzati di loro. Molti di quelli che ora raggiungono le coste della Sicilia su gommoni scassati sono ancora lavoratori africani che fuggono dalla Libia “democratizzata”. Altri, invece, si sono trovati a transitare nel Paese per cercare un lavoro o per tentare la fortuna in Europa, ma tutti, indistintamente, sono finiti nelle mani di bande armate che li hanno catturati, picchiati, sfruttati, violentati e poi imbarcati a forza e a caro prezzo.

“Arrivano tutti dal caos libico – sottolinea Maccarrone -, perché con gli altri Paesi del Nordafrica, come la Tunisia e il Marocco, abbiamo accordi bilaterali e chi arriva in Sicilia viene rimandato indietro. Il problema con la Libia è che manca un governo centrale con cui fare accordi. I migranti partono da vari porti. La vera questione è politica ed è internazionale: bisogna che i responsabili del colonialismo in Africa – principalmente Francia, Gran Bretagna e Usa – si occupino di questa drammatica situazione. L’Italia sta facendo un enorme sforzo, a differenza degli altri Stati”.

Il direttore ci fa accompagnare in giro per il campo da una mediatrice, una giovane marocchina poliglotta. Sono terribili le storie che ci raccontano i rifugiati sulle condizioni di trattamento in Libia. Sono storie di violenza, sopruso, razzismo e lavoro schiavo. Sembra di leggere i racconti della tratta dei neri dall’Africa al continente americano, nei secoli bui dello schiavismo. Invece sono descrizioni dettagliate delle nuove schiavitù, permesse dal caos politico e sociale in cui è precipitata la Libia “post-primavera”. Un Paese senza un governo centrale – ne ha due, rivali, a Tobruk e Tripoli – e con milizie armate dovunque, ISIS compreso.
Le donne dell’Africa subsahariana che si trovano a transitare in Libia vengono stuprate sistematicamente, portate nelle case dei ricchi e abusate.
Ragazzi e uomini subiscono ogni sorta di abusi e violenze nelle carceri, che periodicamente vengono “ripulite” mandandoli sui barconi a morire in mare.

(Foto di Sulaiman Hijazi. Cara di Mineo)

Catania. Giovedì 20 agosto. 40 euro a immigrato…

Incontriamo un giovane ingegnere siciliano, in vacanza a Catania e che a Torino si occupa, come volontario, di immigrati: Niccolò Vasile, che ci spiega come funziona, dal punto di vista economico, l’accoglienza dei rifugiati o richiedenti asilo.

“La propaganda politica e i media hanno raccontato agli Italiani, ormai impoveriti dai tagli e dalla disoccupazione volute dalle banche europee, che gli immigrati (rifugiati, profughi, richiedenti asilo, ecc.) si intascano 40 euro al giorno, 1200 euro al mese, dallo Stato italiano, cioè soldi dei contribuenti. Ebbene, non è vero.
L’Unione Europea dà a ogni Paese membro che accoglie immigrati 40 euro al giorno. Li dà agli Stati. Ogni Stato agisce in modo diverso.
L’Italia li gestisce attraverso i comuni che, generalmente, attraverso appalti, affidano l’accoglienza e la “gestione dell’immigrato” a grandi cooperative, le quali si rivolgono a medie e piccole cooperative. Dunque, al cittadino immigrato arrivano – quando va bene – 2 o 3 euro al giorno. Altrimenti sigarette e ricariche telefoniche”.

La cooperativa gestisce il loro soggiorno – da sei mesi a un anno, con possibilità di estensione di qualche mese – in Italia.
Quando la cooperativa funziona bene, l’immigrato impara l’italiano, segue un iter per l’introduzione al mondo del lavoro, ecc.
Quando lavora male, immaginatelo voi.
La Svezia, che riceve la stessa somma dell’Italia, dà una casa/appartamento, servizi, a ogni famiglia di rifugiati, più una carta di credito con 500 euro al mese a testa.

“Fate voi i calcoli e traetene le conclusioni – aggiunge Niccolò -, ma non credete più a chi vi dice che l’Italia paga 40 euro il giorno a ogni immigrato.
L’Italia e i suoi apparati pubblici e privati guadagnano su ogni immigrato 40 euro al giorno. Moltiplicate per settimane e mesi e per centinaia di migliaia e avrete l’ampiezza del fenomeno nazionale”.