Ricordando la Naksa, un commento di Amayreh.

Da www.palestine.co.uk

 

Commento di Khalid Amayreh in Cisgiordania

5 giugno 2008. Ramallah.

Questa data segna il 41° anniversario dello scoppio della guerra del 1967, definita Guerra dei Sei Giorni dalla fraseologia politica israeliana. Tuttavia, nonostante i grandissimi vantaggi militari e politici goduti dagli israeliani, in gran parte dovuti all’influenza e al dominio esercitati dagli esponenti del Sionismo in Occidente, e in particolar modo negli Stati Uniti, risulta ben evidente la ferma volontà del popolo palestinese di proseguire nella lotta per la libertà, la giustizia e l’autodeterminazione. Questa lotta (e tutti lo devono capire) non arriverà mai a una fine, finché non scompariranno il razzismo e l’oppressione. 

In questo articolo, piuttosto lungo, presenterò alcuni ricordi personali che riguardano la vita sotto la sinistra occupazione israeliana. È significativo il fatto che gli incubi hanno via via assunto contorni sempre più macabri. Ora, il volto nazista d’Israele è evidente agli occhi di tutti. 

Prima della guerra del 1967, l’esercito israeliano conduceva regolari incursioni nella Cisgiordania, distruggendo le case della povera gente e uccidendo cittadini innocenti, in maniera del tutto simile a quel che accade oggi nella Striscia di Gaza e nella Cisgiordania.

Chi scrive, ad esempio, ha perso tre parenti innocenti, trucidati per mano brutale israeliana, nei primi anni ’50. Mentre portavano al pascolo le loro pecore nelle vicinanze della linea di armistizio, nei pressi del villaggio di Burj, situato a circa 30 kilometri a sud-ovest di Hebron, i miei tre zii da parte paterna (Hussein, Yousuf e Mahmoud) caddero durante un feroce attacco scatenato dallo stato terrorista. Conosco molte famiglie che hanno perso parenti e figli uccisi dagli israeliani.

Alcuni abitanti dei villaggi, condannati in partenza, venivano catturati mentre cercavano di recuperare i beni rimasti nelle proprie case, a ovest della linea d’armistizio: venivano costretti a scavare le fosse dentro le quali venivano poi gettati, dopo essere stati, senza alcun appello, fucilati sul posto.

Prima del 1967, le incursioni nella Cisgiordania assumevano le proporzioni di veri e propri massacri, come a Kufr Qassem, Nahalin, Sammu, Khan Younis e in altri luoghi.

Conservo ancora il vivo ricordo di come l’esercito israeliano, nel novembre del 1966, con il sostegno di carri armati e aerei, attaccò una piccola città della zona Sammou, situata a circa 25 kilometri sud-ovest di Dura. Distrussero quasi del tutto la città, causando molti morti tra i civili.

Nel giugno del 1967 avevo 10 anni. Mi ricordo come ci ordinarono di alzare la bandiera bianca quando l’esercito israeliano circondò il nostro piccolo villaggio, Khorsa, nella regione di Hebron.

Ci dissero che l’alternativa era finire sotto il piombo del nemico. Le truppe giordane se ne andarono con la coda tra le gambe. Alcune, per nascondersi, si travestivano da donna, mentre il re Hussein ci esortava, tramite la Amman Radio, a combattere contro gli israeliani “con le unghie, con i denti.”

E come potevamo difenderci dal potentissimo esercito israeliano con i denti e le unghie?

Detto sinceramente, gli eserciti arabi si impegnavano poco nella lotta contro gli israeliani. Questi eserciti fornivano uno specchio fedele della totale decadenza e bancarotta politica, morale ed ideologica che caratterizzava la maggior parte dei regimi arabi. Infatti, all’epoca, la priorità, la strategia primaria, dei junta e delle elite dominanti era il mantenimento dei regimi dispotici. Al di là della retorica, la lotta contro Israele e la liberazione della Palestina non erano priorità reali per questi regimi arabi.

Ed è significativo notare che la situazione è rimasta invariata fino ai nostri giorni, a distanza di 40 anni dalla più grande sconfitta araba dei tempi moderni.

Per molti anni, Israele e gli alleati d’Israele hanno asserito che nel 1967 il loro paese aveva subìto un attacco da parte araba, e che Israele fu costretta alla difesa, per poter garantire la propria sopravvivenza.

Naturalmente, è una grossa bugia, come, a distanza di molti anni, alcuni tra gli stessi leader israeliani, hanno ammesso.

In un’intervista concessa nel 1972 al giornale israeliano Haaretz, l’ex president israeliano, Ezer Weizmann (anche ex-comandante dell’aeronautica israeliana), ha ammesso che «non c’era alcun pericolo di distruzione… tuttavia l’attacco contro l’Egitto, la Giordania e la Siria si giustificava perché rendeva possibile a Israele un’esistenza sulla scala, nello spirito e nella qualità che oggi dimostra.»

Idem l’ex primo ministro israeliano, Menachem Begin, un falco di primissimo ordine, citato nel libro ‘The Fateful Triangle’ di Noam Chomsky con le seguenti parole: «Nel 1967, ci trovavamo di nuovo di fronte a una scelta. Le concentrazioni dell’esercito egiziano nel deserto di Sinai non indicavano con certezza che Nasser ci avrebbe davvero attaccato. Dobbiamo essere onesti con noi stessi. Avevamo deciso di attaccare lui.»

Yitzhak Rabin, anche lui ex primo ministro israeliano, giudicava la cosiddetta minaccia egiziana ad Israele nei seguenti termini: «Io non credo che Nasser volesse la guerra. Le due divisioni che mandò nel Sinai non sarebbero state sufficienti per iniziare una guerra offensiva. Lui lo sapeva e noi lo sapevamo.»

Con ciò, non vogliamo sostenere che gli arabi, e in particolari i regimi dell’Egitto e della Siria, non abbiano usato toni bellicosi, minacciando la distruzione di Israele. Tuttavia, i leader israeliani dell’epoca e, insieme a loro, l’amministrazione Johnson e i servizi britannici e sovietici (russi), sapevano benissimo che se Nasser si permetteva di adottare questi toni si trattava di apparenze e di retorica.

Tuttavia, Israele decise l’offensiva, la cui principale ragione stava nell’espansione territoriale. Inutile aggiungere che l’espansione territoriale è da sempre una meta centrale della strategia israeliana.

Ecco, ad esempio, le parole, riportate da Noam Chomsky, del primo premier israeliano, David Ben-Gurion: «L’accettazione (da parte israeliana) della partizione non costituisce un impegno a rinunciare alla Transgiordania. Non si può chiedere a nessuno di rinunciare alle proprie visioni. Accetteremo uno stato all’interno delle frontiere stabilite oggi. Ma le frontiere delle aspirazioni sioniste vengono sindacate dal popolo ebraico e nessun fattore esterno potrà limitarle.»

Sconfitta gigantesca 

La storica sconfitta degli eserciti arabi nel 1967 (storica perché Israele veniva ad occupare il resto della Palestina, compresa al-Masjidul Aqsa, uno dei luoghi santi più importanti dell’Islam) non era da considerarsi necessariamente la conseguenza di una qualche inerente inferiorità araba nei confronti di Israele: fu piuttosto la conseguenza della bancarotta dei regimi.

Nel 1973, durante la guerra di Ottobre o di Ramadan, senza l’intervento massiccio del guardiano e alleato di Israele, gli Stati Uniti, gli eserciti egiziani e siriani avrebbero potuto conseguire una decisiva vittoria nei confronti di Israele. Con ogni probabilità, con condizioni favorevoli, gli eserciti arabi avrebbero potuto sconfiggere l’esercito  israeliano, come ha dimostrato Hezbollah durante la sua guerra con Israele nell’estate del 2006.

Nei primi tempi dell’Occupazione, nel 1967, gli israeliani inscenarono quel che potremmo definire una ‘charm campaign’ (campagna della seduzione). Impiegarono gli ebrei immigranti che parlavano l’arabo e che provenivano dal mondo arabo, e con loro ufficiali drusi. Troppo precipitoso fu il giudizio di alcune anime semplici della nostra comunità, logorate dalla mano pesante del regime giordano: cominciavano a parlare bene dei nuovi occupanti.

Queste persone dimostravano un certo ottimismo. Esprimevano una certa speranza nel loro modo di vedere la nuova era israeliana che si stava prospettando. Senza pensarci su più di tanto, sentenziavano: «Oh, sono migliori dei giordani; sono civilizzati e istruiti!», «Gli ebrei sono persone istruite; trattano le persone con dignità e rispetto»,  «sotto le regole israeliane siamo tutti uguali». Era gente che semplicemente non sapeva nulla di quello che stava dicendo.

Ma tali sentimenti, non diffusissimi tra la gente, ebbero vita breve non appena le misure contro di noi si fecero più aspre e la maschera dell’esercito occupante cominciò a scivolare in basso, mostrandoci la brutta faccia che nascondeva. Be’, sembravano, come sembrano ora, l’eterno ossimoro; occupazione e correttezza. Non esistono le occupazioni civili, illuminate, benevole. L’occupazione straniera è uno stupro; per sua natura è un crimine, un atto malvagio. Altrimenti, sarebbe qualcos’altro.

Infatti, l’occupazione israeliana risulta essere, con ogni probabilità, la peggiore che si sia mai verificata nella storia dell’uomo, non soltanto per la brutalità che dimostra ma anche per la sua durata nel tempo.

(…)

Non c’era da attendere molto prima che gli israeliani cominciassero a sequestrare le terre e a costruire le colonie, e ad adottare le più sporche tattiche: la corruzione, gli affari sospetti, l’inganno, i trucchi, la falsificazione di documenti, e la nuda coercizione.

Adottavano anche la violenta politica della punizione collettiva, demolendo case, ad esempio, per rappresaglia dopo gli attacchi della guerriglia, o a causa del tesseramento all’OLP, e soprattutto all’organizzazione Fatah, fondata e capeggiata dallo scomparso leader palestinese, Yasser Arafat.

Nella nostra cultura palestinese, se vuoi davvero male a qualcuno, gli dici «Yikhrib Beitak» – che la tua casa venga distrutta.

Gli israeliani s’avvantaggiavano in pieno di questa debolezza della nostra psicologia sociale: hanno demolito migliaia di case. Le demolizioni, un chiaro crimine di guerra per la legge internazionale, non sono mai cessate. Oggi usano soprattutto i bulldozer e il bombardamento mirato aereo. Non so con precisione quante case palestinesi siano state distrutte da Israele dal 1967 fino ai giorni nostri. Tuttavia, posso quantificarle con sicurezza in oltre 15.000.

L’indisciminata distruzione delle case e dei villaggi palestinesi iniziò subito dopo le ostilità. Infatti, l’esercito israeliano distrusse immediatamente più di 170 case nelle zone Maghariba e al-Sharaf nei paraggi della Moschea al-Aqsa.

Nelle due ultime settimane del gennaio 1967, i bulldozer dell’esercito israeliano, su ordini emessi da Yitzhak Rabin, rasero al suolo i villaggi palestinesi di Beit Nuba, `Imwas (Emmaus) e Yalu.

Circa 12.000 persone furono cacciate dalle loro case. Molte furono trasportate in camion verso il Giordano. Altre furono costrette a vagare per il deserto senza cibo o acqua.

Il governo israeliano costruì una cosa infame sulle rovine di `Imwas, finanziata con un generoso dono offerto dal Canada ‘democratico’ e ‘civile’. La chiamarono Canada Park . Ecco il Canada che si vanta come baluardo del rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale!!!

Le demolizioni delle case erano destinate a lasciare ferite profonde nella psiche e nei ricordi di chi le subiva. I bambini tornavano da scuola per assistere allo spettacolo della distruzione delle proprie case, i bulldozer guidati da soldati che indossavano elmi ornati dalla Stella di Davide. La Stella di Davide, ci dicono, era originariamente un simbolo religioso, ma era diventato il simbolo dell’odio, della malvagità, della crudeltà. Ancora oggi, non riesco a figurare nella mia mente un simbolo più odioso e malvagio. Rimane più che appropriato il paragone con il modo in cui i sopravissuti all’Olocausto dovevano vedere la Swastika nazista.

Ho visto con i miei occhi molte demolizioni, all’età di 11 anni. L’operazione, che consisteva nella demolizione o nel far saltare la casa con esplosivi, iniziava con un annuncio in cui era nominato il villaggio in cui si trovava la casa condannata. L’annuncio avveniva per mezzo di altoparlanti fissati sui tetti delle jeep militari.

Nel frattempo si ordinava che tutti i maschi dell’età tra i 13 ed i 70 anni si radunassero nel cortile della scuola locale. Là, dovevano restare in piedi con il capo chino. I soldati, molte volte, sparavano sopra le loro teste per terrorizzarli. E chi osava alzare la testa riceveva un calcio sulla schiena dai soldati armati fino ai denti. Non si verificava mai un comportamento civile o dettato dalla semplice decenza umana. E così è oggi, e non c’era nessuna al-Jazeera o CNN presente allora per riprendere gli atti vergognosi d’Israele. Dunque, i sion-nazisti si sentivano liberi di fare con noi quel che volevano.

Poi l’ufficiale responsabile dell’operazione dava alla famiglia condannata dieci minuti per salvare quelle poche cose che poteva portare con sé (oggigiorno, le demolizioni cominciano subito senza un periodo di grazia utile a recuperare qualche oggetto personale).

È devastante vedere bimbi che confortano altri bimbi ancora più piccoli di loro. Le casalinghe, traumatizzate, facevano di tutto pur di salvare qualche stoviglia, materasso, qualcosa da mangiare, prima che venissero schiacciati e distrutti. Un bambino piccolo correva per salvare il giocattolo preferito o il ritratto ingrandito del defunto nonno, prima che fosse troppo tardi. Poi il comandante dava l’ordine, e in pochi secondi la casa era ridotta in un mucchio di macerie.

Poi, arrivava la Croce Rossa con una tenda, la quale doveva fornire un riparo temporaneo per le vittime. In alternativa, la famiglia così offesa finiva per ritagliarsi uno spazio da qualche parte e dormiva sotto gli alberi, o, se faceva freddo, in attesa di una qualche sistemazione permanente, cercava rifugio in una caverna. Queste immagini di miseria restano indelebili nella mente, incancellabili: un ricordo brutto che comprova il selvaggio comportamento, degno dei nazisti, di cui Israele si rende responsabile.

Jeff Halper, fondatore dell’organizzazione non-governativa, Israeli Committee Against House Demolitions (ICHAD), antropologo e studioso dell’occupazione, ha osservato come, negli ultimi 80 anni, i leader sionisti e israeliani abbiano sempre, senza eccezioni, voluto consegnare ai palestinesi un unico messaggio: ciò che egli chiama «the Message to the Palestinians.»

Il Messaggio, ci dice Halper, è questo: «Arrendetevi. Soltanto quando avete abbandonato i vostri sogni di uno stato indipendente e accettato il fatto che la Palestina è diventata Terra di Israele, sapremo darvi tregua.»

Le implicazioni e il significato profondo del messaggio sono chiarissimi: «Questo luogo non è vostro (di voi palestinesi). Vi abbiamo cacciato dalle vostre case nel 1948 e ora vi sradicheremo dalla Terra di Israele.»

Halper ci ricorda come, già dai primissimi tempi, il sionismo rappresenta un «process of displacement» (processo di rimozione/sradicamento) e che dal 1948 le demolizioni delle case sono «al centro della lotta israeliana contro i palestinesi».

Smontando la propaganda israeliana, che vuole che si distruggano le case arabe per motivi di sicurezza, Halper ci informa che il 95% delle case demolite non ha nulla che fare con la lotta al terrorismo e che le case vengono distrutte per spostare i non ebrei e per favorire l’avanzamento del sionismo. Nel 1967, la popolazione palestinese della Cisgiordania, della Striscia di Gaza Strip, e di Israele ha raggiunto i cinque milioni. Infatti, in pochi anni, tra 4 e 6, forse, nel territorio del mandato di Palestina (l’area tra il Mediterraneo ed il Giordano), troveremo più palestinesi di ebrei.

Questo fatto in sé è molto importante, perché erode il mito sionista della Palestina come terra senza popolo per un popolo senza terra.

Vero è che Israele costituisce un’entità potente con molte armi nucleari, chimiche e biologiche. Con i potenti gruppi di pressione negli Stati Uniti, Israele controlla – anzi, direi, domina – la scena politica di quel paese, dettandone le politiche.

Ma già si avverte il declino di Israele, i cui segni non sono evidenti all’osservatore distratto. In ultima analisi, uno stato che trucida i bambini mentre vanno a scuola e che bombarda case e appartamenti pieni di bambini, di uomini e di donne che dormono, per poi raccontare le più incredibili bugie sul proprio operato, non ha futuro.

Khaled Amayreh

Traduzione di Alex Synge

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