Ripensare la nostra definizione dell’apartheid: non solo regime politico (Seconda parte)

Ripensare la nostra definizione dell’apartheid: non solo regime politico (Seconda parte).
Ma’an. Di Haidar Eid e Andy Clarno per Al-Shabaka. 

Il capitalismo razziale in Palestina/Israele.
Vedere l’apartheid da questa prospettiva permette anche di comprendere che il colonialismo degli insediamenti israeliani agisce ora attraverso il capitalismo razziale neo-liberista. Negli ultimi 25 anni Israele ha intensificato il proprio progetto coloniale degli insediamenti  in una parvenza pacifica. Tutta la Palestina storica resta soggetta al governo israeliano, che agisce frammentando la popolazione palestinese. Oslo ha permesso a Israele di frammentare ulteriormente i Territori palestinesi occupati (Opt) e di incrementare il governo militare diretto facendolo apparire indiretto. La Striscia di Gaza è stata trasformata in un «campo di concentramento» e in un modello di «riserva indigena» tramite un assedio mortale e medievale, descritto da Richard Falk come «preludio al genocidio», e da Ilan Pappe come «genocidio incrementale».

In Cisgiordania la nuova strategia coloniale israeliana comprende la concentrazione della popolazione palestinese nelle aree A e B, e nella colonizzazione dell’area C. Anziché garantire ai palestinesi libertà e eguaglianza, Oslo ha riformulato le relazioni di dominio. In breve, Oslo ha intensificato, anziché rovesciarlo, il progetto coloniale degli insediamenti di Israele.
La riorganizzazione del dominio israeliano è avvenuta contemporaneamente alla ristrutturazione neoliberista dell’economia.

Dagli anni Ottanta Israele ha intrapreso una trasformazione fondamentale da economia statale, attenta ai consumi interni, a economia di tipo aziendale, integrata nel circuito del capitale globale. La ristrutturazione neoliberista ha generato enormi profitti societari e ha smantellato il welfare, indebolito il movimento operaio e acuito le diseguaglianze. I negoziati di Oslo sono stati fondamentali in questo progetto. Shimon Peres e l’élite affaristica israeliana sostenevano che il «progetto di pace» avrebbe aperto i mercati del mondo arabo ai capitali Usa e israeliani, e avrebbe facilitato l’integrazione di Israele nell’economia globale. Dopo Oslo Israele si affrettò a sottoscrivere accordi commerciali con Egitto e Giordania.

La ristrutturazione neoliberista ha permesso a Israele di compiere la sua nuova strategia coloniale riducendo in modo significativo la sua dipendenza dalla manodopera palestinese. La transizione israeliana a un’economia high-tech ha fatto diminuire la richiesta di operai di industria e agricoltura. Gli accordi sul libero commercio hanno permesso ai produttori israeliani di spostare la produzione dai subappalti palestinesi a zone attive nell’export di paesi vicini. Il crollo dell’Unione Sovietica, seguito da un neoliberismo «shock» ha portato oltre un milione di ebrei russi a cercare opportunità in Israele, e la ristrutturazione neoliberista su ampia scala ha portato all’immigrazione di 300 mila operai dall’Asia e dall’Europa orientale. Questi gruppi ora sono in competizione con i palestinesi per ciò che resta delle occupazioni a basso reddito. Lo stato coloniale degli insediamenti ha così usato la ristrutturazione neoliberista per progettare la disponibilità della popolazione palestinese.

La vita per i palestinesi della classe operaia è diventata sempre più precaria. L’accesso occupazionale limitato in Israele ha causato povertà e disoccupazione nelle enclavi palestinesi. Sebbene l’Autorità nazionale palestinese (ANP) abbia sempre appoggiato la visione neoliberista di un settore privato orientato all’esportazione e all’economia del libero mercato, l’ANP ha inizialmente risposto alla crisi degli impieghi creando migliaia di posti di lavoro nel settore pubblico.
Dal 2007, però, l’ANP ha seguito un programma economico rigidamente neoliberista, che richiede il taglio dell’impiego pubblico e l’espansione degli investimenti del settore privato. Nonostante questi progetti, il settore privato resta debole e frammentato. Progetti di zone industriali lungo il muro israeliano illegale che si snoda lungo gli Opt sono in gran parte falliti a causa delle restrizioni che Israele impone sull’import-export e per i costi relativamente alti del lavoro palestinese confrontati a quelli di Egitto e Giordania.

Sebbene le politiche neo-liberiste abbiano reso la vita della classe operaia palestinese ancora più difficile, esse hanno contribuito alla crescita di una piccola élite palestinese nei Territori occupati, composta dalla leadership dell’ANP, da capitalisti palestinesi e da funzionari di Ong. Chi visita Ramallah rimane spesso sorpreso nel vedere palazzi, ristoranti costosi, hotel a cinque stelle e autoveicoli di lusso. Essi non sono il segno di un’economia prospera, bensì di un divario con le classi in crescita.

In modo simile, una nuova borghesia affiliata ad Hamas è emersa a Gaza dal 2006. Il suo benessere dipende dalla calante «industria dei tunnel», un monopolio sui materiali da costruzione contrabbandati dall’Egitto e di merci limitate importate da Israele. Sia le élite di Fatah che di Hamas accumulano le loro ricchezze con attività non produttive, ed esse sono entrambe caratterizzate da una totale assenza di visione politica. Haidar Eid si riferisce a ciò con i termini «oslizzazione» in Cisgiordania, e «islamizzazione» nella Striscia di Gaza.

Inoltre, impiegarsi nelle forze di repressione è diventata una delle uniche possibilità di impiego disponibili per la maggioranza dei palestinesi, soprattutto tra i giovani uomini. Nonostante alcuni impieghi dell’ANP siano nel campo dell’istruzione e in quello sanitario, la maggior parte si ha tra le forze di sicurezza. Come ha dimostrato Ala’a Tartir, queste forze sono progettate per proteggere la sicurezza di Israele. Dal 2007 esse sono state riorganizzate sotto la supervisione degli Usa. Oltre 80 mila membri delle forze di sicurezza dell’ANP vengono addestrati dagli Stati Uniti in Giordania e collocati nelle enclavi della Cisgiordania in stretto coordinamento con l’esercito israeliano. Israele e l’intelligence condiviso dell’ANP coordinano gli arresti e collaborano nella confisca di armi. Insieme essi puntano non solo ai gruppi islamisti e di sinistra, ma a ogni palestinese critico con Oslo.

Di recente la sicurezza coordinata tra Israele e l’ANP ha preceduto l’assassinio dell’attivista Basil al-Araj.
L’unico settore dell’economia israeliana ad aver mantenuto una relativamente solida domanda per gli operai palestinesi è quello delle costruzioni, in gran parte dovuto alla grande espansione degli insediamenti israeliani e del muro in Cisgiordania.

Secondo un’indagine del 2011 su Democrazia e diritti dei lavoratori, l’82% degli occupati palestinesi negli insediamenti lascerebbe il lavoro se ci fosse un’adeguata alternativa.
Ciò vuol dire che due dei soli mestieri disponibili per i palestinesi oggi in Cisgiordania sono la costruzione di insediamenti israeliani su terreni palestinesi confiscati, o l’impiego nelle forze dell’ANP per aiutare Israele a reprimere la resistenza contro l’apartheid. 
Ai palestinesi della Striscia di Gaza mancano persino queste «opportunità». Gaza è anzi una delle versioni più estreme di progettazione della disponibilità. L’evacuazione coloniale degli insediamenti ha trasformato Gaza in un campo profughi nel 1948, quando le milizie sioniste, e più tardi l’esercito israeliano, hanno espulso più di 750 mila palestinesi dalle loro città e dai loro villaggi. Il 70% dei 2 milioni di abitanti di Gaza sono profughi, testimonianza vivente della Nakba e richiesta personificata del diritto al ritorno.

La ristrutturazione politica ed economica avvenuta tramite Oslo ha permesso a Israele di trasformare Gaza in una prigione atta a contenere e a concentrare questo surplus non gradito di popolazione. L’assedio israeliano sempre più stretto aumenta sempre più la disumanizzazione dei gazawi. Per il progetto neoliberista coloniale israeliano le vite dei palestinesi non hanno valore, e la loro morte non ha importanza.
Inoltre il neoliberismo, insieme al progetto coloniale degli insediamenti israeliani, ha trasformato i palestinesi in una popolazione a perdere: ciò ha permesso a Israele di compiere il suo progetto di concentramento e colonizzazione. Comprendere le dinamiche neo-liberali del regime israeliano può contribuire allo sviluppo di strategie che possano sfidare l’apartheid, messo in atto non solo come sistema di dominazione razziale ma come regime di capitalismo sociale.

Affrontare l’economia dell’apartheid israeliano.
Una questione importante per il movimento di liberazione palestinese è come evitare le trappole del Sudafrica del post apartheid nello sviluppo di una visione per il post apartheid di Palestina/Israele. Come predissero i radicali neri, l’attenzione esclusiva allo stato razziale ha portato a seri problemi socioeconomici in Sudafrica dal 1994. La liberazione dei palestinesi non deve finire con la stessa «soluzione» offerta dal Congresso nazionale africano. Ciò richiede attenzione sia ai diritti politici che a questioni complesse che riguardano la ridistribuzione dei terreni e della struttura economica, per assicurare un esito più equo. Un posto cruciale da cui iniziare è la continuazione del discorso sulle dinamiche pratiche del ritorno palestinese.
E’ poi importante riconoscere che l’attuale situazione in Palestina è strettamente connessa con i processi di modernizzazione delle relazioni sociali in tutto il mondo. Il Sudafrica e la Palestina, ad esempio, stanno sperimentando cambiamenti economici e sociali simili, nonostante le loro traiettorie politiche radicalmente diverse. In entrambi i contesti il razzismo coloniale neoliberista ha prodotto diseguaglianze estreme, emarginazione razziale e strategie avanzate di protezione dei potenti e politicizzazione dei poveri emarginati razziali. Andy Clarno definisce questa combinazione «apartheid neoliberale».

Una manciata di capitalisti miliardari controlla sempre più il benessere e i profitti in tutto il mondo. Mentre le basi della classe media crollano, il divario tra ricchi e poveri aumenta e le vite dei poveri diventano sempre più precarie. La ristrutturazione neo-liberale ha permesso ad alcuni membri delle popolazioni storicamente oppresse di raggiungere i ranghi delle élite. Questo spiega l’emergere di una nuova élite palestinese negli Opt e la nuova élite nera in Sudafrica.
Allo stesso tempo la ristrutturazione neo-liberale ha peggiorato la marginalizzazione dei poveri razziali, intensificando sia lo sfruttamento che l’abbandono. L’occupazione è diventata più precaria e intere regioni hanno visto decrescere la richiesta di lavoro. Mentre alcune popolazioni emarginate vengono sfruttate oltre misura nelle fabbriche e nell’industria dei servizi, altre – come i palestinesi – sono destrutturate e abbandonate a una vita di disoccupazione.

I regimi dell’apartheid neo-liberal come Israele, nel mantenimento del potere dipendono da strategie avanzate di messa in sicurezza. 
Israele esercita sovranità sugli Opt attraverso il dispiegamento dell’esercito, la sorveglianza elettronica, la reclusione, gli interrogatori e la tortura. Lo stato ha inoltre prodotto una geografia frammentata di recinzioni palestinesi circondate da muri e posti di blocco e gestiti tramite blocchi e permessi. E le aziende israeliane sono diventate leader del mercato globale nella fornitura di sistemi di sicurezza avanzati, sviluppando e sperimentando congegni di alta tecnologia negli Opt.

Ma l’aggiunta più importante del regime di sicurezza israeliano è dato da una rete di forze di sicurezza agevolate da Usa e Europa, supportate da Giordania e Egitto e manovrate tramite schieramenti coordinati dell’esercito israeliano e delle forze di sicurezza dell’Ap.
Ci sono altri regimi neoliberali che, come Israele, contano su enclavi murate, forze di sicurezza privata e statale e strategie politiche razziali. In Sudafrica la messa in sicurezza ha compreso la fortificazione dei quartieri agiati, la rapida espansione dell’industria della sicurezza privata e una forte repressione statale nei confronti di sindacati indipendenti e movimenti sociali. Negli Stati Uniti gli sforzi della sicurezza per i potenti prevedono comunità recintate, muri di recinzione, reclusioni di massa, deportazioni di massa, sorveglianza elettronica, guerre tramite droni e la rapida crescita delle forze di polizia, penitenziarie, di sorveglianza dei confini, militare e di intelligence.

Diversamente dal Sudafrica, Israele resta uno stato coloniale degli insediamenti aggressivo. In questo contesto il neoliberalismo fa parte della strategia coloniale di eliminazione della popolazione palestinese. Ma la combinazione di dominio razziale e di capitalismo neoliberale ha prodotto diseguaglianze, emarginazione razziale e programmi di sicurezza crescente in molte parti del mondo. Mentre i movimenti e gli attivisti uniscono le lotte contro la povertà e le politiche razziali in Palestina, in Sudafrica, negli Usa e altrove, comprendere l’apartheid israeliano in quanto forma di capitalismo razziale può contribuire alla crescita dei movimenti contro l’apartheid globale neoliberale. Ciò può anche aiutare a spostare il discorso politico in Palestina dall’indipendenza alla decolonizzazione. Franz Fanon, nella sua opera seminale The Wretched of the Earth (I dannati della Terra), sostiene che una delle insidie della consapevolezza nazionale possa essere un movimento di liberazione che conduca a uno stato indipendente governato da una élite nazionalista che imita il potere coloniale. Per prevenire che ciò avvenga Fanon incoraggia un cambiamento dalla consapevolezza nazionale a una consapevolezza sociale e politica. Spostarsi dall’indipendenza politica alla trasformazione sociale e alla decolonizzazione è la sfida che il Sudafrica del post apartheid deve affrontare. Evitare questa trappola è la sfida che le forze politiche palestinesi affrontano nella lotta per la liberazione, oggi.

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro la cui missione è istruire e incoraggiare il pubblico dibattito sui diritti umani dei palestinesi e il loro diritto all’autodeterminazione entro il diritto internazionale.

Traduzione di Stefano Di Felice

Qui la prima parte