Ritratto di Ahmad al-Ja’bari, tra i combattenti più ricercati da Israele

Gaza – Quds Press. L’apparizione pubblica durante il rilascio di Gilad Shalit del comandate di spicco delle Brigate ‘Ezz id-Din al Qassam (ala militare di Hamas), Ahmed al-Ja’abari, non era dovuta al caso. Il leader palestinese sapeva bene di essere nella lista dei più ricercati da Israele.

Quell’apparizione era un messaggio rivolto ai detenuti palestinesi nelle carceri dell’occupazione israeliana, ed era la dimostrazione che aveva mantenuto la sua promessa, fatta 16 anni prima, prima di lasciare i suoi compagni rimasti in carcere. Le sue non erano promesse campate in aria, ma erano reali, sincere e fatte da chi conosce bene la sofferenza dei detenuti nelle carceri israeliane.

Ahmed al-Ja’abari apparve in pubblico nel momento dell’arrivo dell’auto che trasportava Shalit liberato dal rifugio dov’era tenuto in prigionia. Quest’ultimo scese dal mezzo, al-Ja’abari gli si avvicinò da destra, mentre l’ufficiale dell’Intelligence egiziana era alla sua sinistra tenendogli il braccio.

Quell’immagine sortì un effetto profondo sulla vita dei palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, loro conoscevano bene Ahmed, si ricordano dei suoi occhiali con le lenti spesse, tolti dopo essersi operato in Egitto. Lui ha vissuto con loro per 13 anni lasciandoli più di 16 anni fa con la promessa di liberarli, uno ad uno, fino all’ultimo uomo, pur sapendo che sarebbe stata una promessa difficile da mantenere, tuttavia non impossibile: aveva promesso di catturare dei soldati israeliani e ci è riuscito, quando nel 2006 le Brigate al-Qassam rivendicarono la cattura di Gilad Shalit a sud della Striscia di Gaza.

La famiglia di al-Ja’bari proviene da al Khalil (Hebron), trasferitasi nella Striscia di Gaza all’inizio del ’900 dove Ahmed è cresciuto nel quartiere ash-Shujaiya, ad est di Gaza City. Fu arrestato all’età di 18 anni con l’accusa di far parte di una cellula armata di Fatah e per resistenza all’occupazione.

Un tribunale israeliano lo condannò a 13 anni di carcere, e durante la sua prigionia, subì l’influenza del comandante generale delle Brigate al Qassam, Salah Shehadah, nonostante all’epoca appartenessero a due movimenti diversi. Dalla detenzione, al-Ja’bari guidò insieme ad altri sei quadri di Fatah una ribellione contro la leadership del movimento. Da quell’episodio, al-Ja’bari aderì al Movimento di resistenza islamica, Hamas, nonostante in via di principio fosse vietato tra i detenuti, soprattutto perché si trattava di un neo-movimento, da poco costituito.

Inzialmente, Fatah respinse la sua decisione, ma Ahmed e i suoi compagni insistettero con la leadership allora in esilio. Questa accolse la loro richiesta.

Il passaggio al movimento islamico segnò l’inizio di una nuove fase nella sua vita, soprattutto perché ha potuto incontrarne i suoi leader storici, formando, proprio in prigione la sua personalità islamista.

Secondo quanti lo conoscevano, avendo vissuto con lui in carcere, al-Ja’abari aveva un carattere forte e un buon grado di cultura e conoscenza, sia della causa palestinese, che di quella islamica. Egli riuscì a mantenere dei buoni rapporti con tutte le organizzazioni, compresa Fatah, nonostante ne fosse uscito.

Nei primi nove anni di detenzione, al-Ja’abari passava il tempo a leggere e ad aiutare gli altri detenuti; ha aderito a molti scioperi con i quali si sono ottenuti tanti successi. Rappresentò i prigionieri palestinesi negli incontri con la direzione del carcere, la quale nutriva rispetto nei suoi confronti, per la sua personalità forte e per la sua fermezza. 

La formazione di un leader. Il suo trasferimento nel carcere di Negev nel 1991 fu di una rilevante importanza, in quanto proprio lì, al-Ja’abari ha potuto incontrare centinaia di prigionieri, che potevano spostarsi liberamente tra le varie tende, diversamente dalle prigioni centrali dove i rapporti venivano limitati ai compagni di cella.

Uno dei detenuti che ha incontrato al-Ja’abari, ha raccontato che egli lavorò insieme ad altri leader di Hamas, come Ibrahim al Maqadmah (assasinato nel 2003), all’addestramento dei membri del movimento, per renderli pronti ad un eventuale impiego, specialmente con le Brigate al-Qassam, una volta usciti dal carcere”.

Gli accordi di Oslo. All’inizio del 1994 le forze di occupazione israeliane decisero il rilascio di alcuni detenuti palestinesi, come gesto di buona volontà nei confronti di Fatah. Ad al-Ja’abari fu data la possibilità della liberazione a patto che firmasse una lettera in cui si impegnava ad astenersi da attività di “terrorismo e resistenza’”.

Egli rifiutò la proposta israeliana affermando: “Ho trascorso 11 anni in carcere, ne passerò altri due. Non vorrei che qualcuno mi dicesse ‘sei uscito grazie a Oslo con la promessa di non combattere più’. A cosa sono serviti il mio arresto e la mia esistenza allora?”

Da quell’episodio emerge il carattere di al-Ja’bari, determinato a proseguire sulla via della resistenza, secondo molti che l’hanno conosciuto. Molti leader di Hamas allora avevano provato a farlo desistere, dicendogli “sei più utile alla causa da libero che da detenuto”. Lui rifiutò e scontò tutta la sua condanna.

Al-Ja’abari uscì di prigione nel 1995, un anno dopo che il suo movimento, Hamas, aveva subito una durissima campagna di persecuzione per mano dell’Autorità palestinese (Anp), con l’arresto di centinaia dei suoi membri, con la chiusura di associazioni e istituzioni. Nonostante questo, Ahmed fece molto per rinnovare il movimento; istituì il primo ufficio d’informazione di Hamas all’interno dei Territori palestinesi occupati. Si chiamava “l’ufficio del porto” per via della sua vicinanza al vecchio porto di Gaza. Partecipò anche alla fondazione dell’associazione “an-Nur” per seguire la questione dei detenuti e prese parte alle attività dei loro familiari.

Dopo un lungo lavoro svolto per aiutare i detenuti, come nel campo dell’informazione, al-Ja’abari fu arrestato nel 1998 dall’Anp a causa del ruolo di coordinatore che svolse tra la dirigenza politica di Hamas e la sua ala militare (al-Qassam). L’arresto risale quindi a due anni prima dell’esplosione dell’Intifada al-Aqsa, a settembre 2000. Da allora, la questione dei prigionieri fu affidata a Riyad Abu Zaiyd (assassinato nel 2003).

L’impegno in campo militare. L’affidamento della questione dei detenuti ad Abu Zaid, molto attivo in questo campo, permise ad al-Ja’abari di dedicarsi all’attività militare a tempo pieno, soprattutto dopo il rilascio di Shaykh Salah Shehadah, nel 2000. In detenzione, quest’ultimo era molto legato ad al-Ja’abari e dopo il suo rilascio sono anche diventati cognati.
Al-Ja’abari svolse un ruolo importante nella direzione delle attività militari durante l’Intifada di al-Aqsa, gradualmente venne promosso all’interno della leadership delle Brigate al-Qassam, e assunse un ruolo logistico di estrema importanza soprattutto in seguito all’uccisione di Shehadah o anche dopo l’episodio del grave ferimento di un altro leader di spicco, Muhammed Dayf, sfuggito a molti tentativi di assassinio.

Al-Ja’abari tornò sotto i riflettori dopo essere sfuggito a un tentato omicidio, il 7 agosto del 2004, quando un aereo israeliano bombardò l’abitazione delle sua famiglia, ad est di Gaza City, uccidendo il fratello Fathi (38 anni), il figlio Muhammed (23 anni), il cognato e alcuni parenti, compresa la sua guardia, Ala’ ash-Sharif. Al-Ja’bari riportò solo ferite lievi.

Dopo questo episodio, al-Ja’abari scomparve completamente per un anno, per riapparire in un sit-in dei familiari dei detenuti davanti alla sede della Croce Rossa internazionale a Gaza, ma costantemente, continuava a tenersi lontano dai riflettori. L’unica eccezione fu un documentario nel quale raccontava di sé e dell’apparato militare di Hamas, per poi ritornare nell’anonimato, senza apparire più sui media né rilasciare dichiarazioni.

La cattura di Shalit. Si riprese a parlare molto di al-Ja’abari dopo la cattura di Shalit, avvenuta il 25 giugno 2006: gli israeliani lo accusarono di aver orchestrato l’operazione, ma lui non rilasciò alcuna dichiarazione in merito.
E sempre Israele aveva ammesso di aver fallito nel tentativo di eliminare al-Ja’abari durante la guerra contro Gaza, “Piombo Fuso” (2008-2009), nonostante fossero riusciti ad intercettarlo in più occasioni. Gli israeliani erano convinti che al-Ja’bari fosse l’unico uomo a controllare il destino di Shalit.

Persone vicine ad al-Ja’abari affermano che sia stato lui a guidare le trattative indirette di scambio insieme ad altri tre dirigenti. L’uomo sarebbe stato determinato a non cedere ad alcuna pressione, conosceva bene la lista dei detenuti che aveva formulato; comprendeva tutte le donne, i detenuti decani, i leader delle fazioni, i bambini, i malati. Per al-Ja’bari ogni nome aveva una storia e un significato.

Secondo gli osservatori, con l’accordo di scambio, Hamas è riuscito a dettare, in modo indiretto le proprie condizioni alla controparte: molti tabù israeliani sono stati superati, soprattutto perché i negoziatori palestinesi sono esperti dotati di pazienza e sanno bene cosa vogliono, non cedono alle pressioni e, soprattutto, perché Israele continuava a fallire nei tentativi di liberare Shalit con la guerra.

Il capo dei negoziatori. Israele era consapevole e ha ammesso la difficoltà nelle trattative nel caso Shalit. Essa conosceva il negoziatore capo al-Ja’abari, rinchiuso nelle sue carceri per 13 anni. Ricordava bene la determinazione nella rivendicazione dei diritti dei prigionieri durante le trattative con la direzione del carcere. Anche quando si trattava solo di un semplice utensile da cucina, come poteva essere un cucchiaio che i detenuti chiedevano di introdurre nelle celle.

Una persona vicina ad al-Ja’abari affermò che “dal momento in cui Shalit fu catturato, al-Ja’abari aveva un’idea ben chiara su come gestire la faccenda e su quale dovesse essere il prezzo da far pagare a Israele. Partecipò alla redazione della lista dei prigionieri da liberare insistendo su ogni singolo nome perché sapeva bene si trattava di un’ultima opportunità di uscire dal carcere da vivi per ciascuno dei prigionieri.

Al-Ja’bari stava lottando per mantenere la promessa fatta ai suoi compagni prima di uscire dal carcere, anni fa.

Circa due anni fa, al-Ja’abari si rifiutò di parlare delle trattative in corso, limitandosi a indirizzare un messaggio ai detenuti, nel quale intendeva rassicurarli: “La vostra causa è in buone mani, le mani di un negoziatore fermo e deciso, non vulnerabile a pressioni”.

14 novembre 2012, muore il protagonista dell’operazione al-Wahm al-Mutabadded (l’illusione svanita). Mercoledì 14 novembre 2012, dopo lunghi anni di inseguimenti reciproci tra Ahmed al-Ja’abari e le forze di occupazione israeliane, queste ultime sono riuscite ad assassinarlo, con un raid aereo.

Al-Ja’abari fu l’ideatore dell’epica impresa, Illusione Svanita, nella quale le fazioni della resistenza palestinese a catturarono il caporale israeliano Gilad Shalit, imprigionandolo per 4 anni, durante i quali nessun servizio di sicurezza riuscì a trovarlo.