Sharawna: “La mia unica alternativa era l’esilio”

clip_image006Gaza – Pchr. Il 17 aprile 2013 si è commemorata la Giornata di solidarietà internazionale con i prigionieri palestinesi. Ayman Sharawna, 36 anni, ex-prigioniero di Dura, Hebron, in Cisgiordania, è recentemente giunto a Gaza, per la prima volta. Ci rimarrà a tempo indeterminato, essendo stato rilasciato da un carcere israeliano a condizione di essere deportato nella Striscia di Gaza.

Prima della sua ultima detenzione, Sharawna ha trascorso 10 anni nelle carceri israeliane. Il 18 ottobre 2011 egli venne rilasciato in occasione dello scambio di prigionieri, nel quale 1027 prigionieri vennero rilasciati in cambio della liberazione del militare israeliano Gilad Shalit. In base agli accordi sulla liberazione, Sharawna non avrebbe potuto lasciare il distretto di Hebron, in cui risiedeva, e a cadenza bimestrale avrebbe avuto un incontro con l’intelligence israeliana. Il 31 gennaio 2012, alle due di notte, la casa di Sharawna fu oggetto di un’incursione dei militari israeliani, i quali lo arrestarono nuovamente in base a un documento amministrativo segreto secondo il quale egli avrebbe infranto i termini dell’accordo sul rilascio. Il procedimento militare pretendeva che l’accusato avrebbe scontato i rimanenti 28 anni di carcere comminatigli in origine. La reazione di Sharawna fu lo sciopero della fame a oltranza, dichiarato il 1 luglio 2012 e durato 261 giorni, fino a quando le autorità israeliane accettarono di liberarlo a condizione che egli interrompesse lo sciopero della fame e si trasferisse nella Striscia di Gaza: trasferimento coatto che vìola il diritto umanitario internazionale.

L’ex-prigioniero parla dei motivi dello sciopero della fame: “Il motivo principale per cui decisi di intraprendere lo sciopero della fame risiede nel fatto che venni arrestato e imprigionato meno di 3 mesi dopo essere stato liberato in occasione dell’accordo di scambio, senza che mi venisse rivolta alcuna accusa. Non ci fu alcuna indagine, e non avevo idea di quando sarei stato liberato. L’intelligence israeliana possedeva un documento segreto su di me, inaccessibile anche ai miei avvocati. La motivazione di tale segretezza fornita dall’intelligence israeliana risiedeva in questioni relative alla sicurezza della persona, o delle persone, che diedero informazioni su di me. Essere trattenuto in detenzione amministrativa è peggio che essere accusato di qualsiasi crimine, perché semplicemente non si sa quale sia l’accusa. Sentii che le autorità israeliane volevano aumentare la mia precedente condanna, nonostante fossi stato liberato nell’accordo. Non avevo alcuna speranza”.

Sharawna racconta il trattamento subito nelle carceri israeliane: “Le autorità carcerarie mi hanno trattato molto male. Trattano male tutti i prigionieri palestinesi, e in particolar modo coloro che attuano lo sciopero della fame. Quando decisi di iniziare lo sciopero della fame subii un pessimo trattamento, sia dal lato fisico che psicologico. Oltre agli insulti, mi trattarono freddamente. Sapevo che stavano seguendo istruzioni ricevute dall’alto. Mi trasferivano da una prigione all’altra e da un ospedale all’altro, nonostante stessi male. Per mesi fui messo in isolamento totale, potevo vedere solo le guardie carcerarie e i medici. Tentavano di costringermi a mangiare e mi portavano cibo e acqua, sistemandomeli davanti. Mi impedirono di incontrare i miei avvocati e non mi consentirono di ascoltare la radio o vedere la tv: non sapevo nulla di quel che succedeva nel mondo. Non vedevo la luce del sole, non potevo respirare aria fresca né fare ginnastica. Ero rinchiuso in una stanzetta e non potevo andare da nessuna parte. I medici dell’ospedale di Soroka mi trattarono anche peggio. Non dimostrarono alcuna comprensione e quando dissi loro di sentire dolori al fegato e agli occhi mi risposero che se avessi mangiato sarei stato meglio, e che se non avessi mangiato avrei continuato a star male”.

È evidente che il prolungato sciopero della fame ha avuto un forte impatto su Sharawna, che ora cammina utilizzando un deambulatore. “Durante lo sciopero della fame ho perso i sensi e sono svenuto molte volte. Quando mi liberarono e venni qui a Gaza non ci vedevo bene. Ho problemi di salute. Non riesco a reggermi sulla gamba sinistra, spero di potermi operare alla schiena e alla gamba entro la fine di questo mese. Sono già stato operato a un occhio. Durante lo sciopero della fame mi sono affidato a Dio, è stata la mia fede che mi ha sostenuto. Prima dello sciopero pesavo 111 chili. Lavoravo all’aperto e praticavo sport 5 o 6 ore al giorno. Penso di aver avuto la forza per sopravvivere grazie a questo. Per 61 giorni accettai solamente acqua. Per i successivi 200 giorni assunsi 22 pastiglie di vitamine e una soluzione salina intravenosa al giorno, senza le quali sarei morto”.

La decisione di accettare l’accordo con le autorità israeliane è stata molto sofferta: “Le autorità israeliane mi proposero 4 o 5 volte di essere liberato purché mi fossi trasferito a Gaza. Inizialmente pensai che non dicessero sul serio. A marzo, quando mi proposero nuovamente l’accordo, dissi loro di parlare con il mio avvocato. Ci pensai molto, ero sicuro che se non me ne fossi andato sarei morto: soffrivo fisicamente e psicologicamente. Così decisi che sarei andato a Gaza. Mi hanno criticato in molti per la decisione presa, ma la mia famiglia mi è stata vicina. La gente di Gaza mi ha accolto bene, nonostante le terribili condizioni in cui vive. Sono contento di essere venuto qui e non mi sono pentito della mia decisione: c’è maggior sicurezza qui che a Hebron, ma il controllo è estremo. La mia esperienza in carcere mi ha preparato a vivere a Gaza, e vivere qui è la perdita minore che mi sarei potuto aspettare. Sono contrario all’esilio, ma questa era la mia unica alternativa: altrimenti sarei sicuramente morto”.

Sharawna ha sofferto molto la lontananza prolungata dalla famiglia, che ancora continua: “Quando ero in carcere dal 2002 al 2011, alla mia famiglia era permesso farmi visita. Dopo che fui rilasciato, in seguito all’accordo sullo scambio di prigionieri del 2011, potei passare 3 mesi con i miei figli, ma venni arrestato e incarcerato di nuovo nel gennaio 2012, e alla mia famiglia non fu più permesso farmi visita. Non ricevetti visite di familiari per 14 mesi, e ora, di nuovo, sono separato dalla mia famiglia. È molto difficile per loro venire a Gaza e, finora, dal momento della liberazione ho incontrato solo mia madre, che è venuta a trovarmi a Gaza. Tutti i miei 9 figli sono in Cisgiordania: ho 5 maschi e 4 femmine, il più giovane ha 11 anni. La mia figlia maggiore, Suheir, ha 18 anni, è sposata e ha un figlio e una figlia. La conosco appena, e non ho mai visto suo marito”.

Il 24 aprile Sharawna compirà 37 anni, e passerà il giorno del suo compleanno in un posto nuovo, lontano dalla sua famiglia: “Sono arrivato a Gaza lo scorso marzo, per la prima volta in vita mia. Qui è tutto diverso: in Cisgiordania abitavo in montagna, qui sono al mare, in un appartamento in affitto, nonostante possegga 2 case di proprietà in Cisgiordania. Qui non conosco nessuno. Sono stato scarcerato ma ora non sono a casa mia; mi manca il mio villaggio, mi mancano le moschee, le scuole, le colline di Dura. Quando penso ai miei figli e a mia madre, che è malata, mi sento triste. Con la mia famiglia ci sentiamo al telefono, ma non è come potersi vedere e abbracciarsi. Il mio scopo, ora, è far sì che la mia liberazione significhi poter vivere di nuovo con la mia famiglia. Anche la gente di Gaza è la mia famiglia, ma nessuno può sostituire la mia famiglia di Dura. Spero di riuscire, un giorno, a farli trasferire qui da me, a Gaza”.

La deportazione è proibita dall’articolo 49 della Quarta convenzione di Ginevra, che recita: “Il trasferimento forzato individuale o di massa, così come la deportazione di individui sotto protezione da un territorio occupato al territorio della potenza occupante o a quello di qualsiasi altro paese, occupato o meno, sono in ogni caso vietati”. Relativamente al rilascio dei prigionieri palestinesi originari della Cisgiordania, condizionato all’accettazione di essere trasferiti nella Striscia di Gaza, un portavoce del Comitato internazionale della Croce rossa ha affermato che “scegliere tra rimanere in stato di detenzione o essere rilasciati in un posto diverso dall’abituale luogo di residenza di un detenuto, non può essere considerato reale espressione di libero arbitrio”.

Israele continua ad applicare la procedura della detenzione amministrativa contravvenendo all’articolo 16 della Convenzione contro la tortura. Il Centro palestinese per i diritti umani esprime crescente preoccupazione per la continua detenzione di palestinesi senza un capo di imputazione o senza processo, per lunghi periodi, senza ricorrere alle più fondamentali forme di procedura giudiziaria. Gli ordini di detenzione amministrativa si basano, solitamente, su informazioni segrete alle quali non ha accesso nemmeno l’avvocato del detenuto. Essi sono emessi non da un giudice, ma dai comandanti militari israeliani dei Territori palestinesi occupati, e possono essere rinnovati un numero indefinito di volte.

La Convenzione, inoltre, all’articolo 72, vieta la negazione del permesso di poter vedere il proprio avvocato: “Gli accusati […] hanno il diritto di essere assistiti da un avvocato o da un consulente legale di loro scelta, che potrà vederli liberamente, usufruendo di tutti i mezzi necessari alla preparazione della difesa”. Inoltre, imporre un divieto collettivo alle visite di familiari è un’ulteriore violazione della Convenzione, specificatamente dell’articolo 33.

Traduzione per InfoPal a cura di Stefano Di Felice