Simbolica ma significativa, la decisione senza precedenti di indagare sull’omicidio di Abu Akleh

MEMO. Di Ramzy Baroud. La recente decisione del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti di aprire un’indagine sull’uccisione, avvenuta a maggio, della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh, non cambia le carte in tavola, ma è comunque una mossa importante e che merita una riflessione.

Basandoci sulla lunga storia di sostegno militare e politico degli Stati Uniti ad Israele e sulla costante protezione di Tel Aviv da qualsiasi responsabilità per l’occupazione illegale della Palestina, possiamo concludere che, con molta probabilità, anche questa volta non sarà effettuata alcuna indagine degna di questo nome. Se invece venisse effettuata in modo serio, potrebbe portare alla scoperta del cosiddetto vaso di Pandora riguardante le altre numerose pratiche illegali di Israele e le violazioni del diritto internazionale – e anche degli Stati Uniti.

Ad esempio, il Federal Bureau of Investigation (FBI) dovrebbe indagare sull’utilizzo, da parte di Israele, di armi e munizioni fornite dagli Stati Uniti che vengono usate quotidianamente per reprimere le proteste palestinesi, confiscare terre palestinesi, imporre assedi militari in aree civili e compiere altre azioni aggressive. La legge americana Leahy proibisce specificamente “al governo degli Stati Uniti di destinare fondi a forze di sicurezza straniere qualora vi siano informazioni attendibili che dimostrino la presenza di gravi violazioni dei diritti umani da parte di esse”.

Inoltre, un’indagine seria significherebbe anche responsabilità, se si arrivasse alla conclusione che Abu Akleh, cittadina statunitense, è stata deliberatamente uccisa da un soldato israeliano, come hanno già concluso varie associazioni per i diritti umani. Anche il fatto di chiedere conto a Israele non è plausibile. Infatti, uno dei principali pilastri che definiscono la relazione tra Stati Uniti e Israele è che il primo serve a proteggere il secondo sulla scena internazionale. Ogni tentativo palestinese, arabo o internazionale di far avviare indagini sui crimini israeliani è fallito miseramente perché Washington ha sistematicamente bloccato ogni possibile indagine con la scusa che Israele è uno stato che è in grado di indagare in modo autonomo. I tentativi di ritenere Israele responsabile, sostengono gli Stati Uniti, sono una caccia alle streghe che costituisce l’accusa di antisemitismo.

Secondo quanto riportato da Axios, la risposta ufficiale israeliana alla decisione degli Stati Uniti di aprire un’indagine sull’omicidio della giornalista palestinese-americana è stata la seguente: “I nostri militari non saranno indagati dal FBI o da qualsiasi altro Paese o entità straniera”, ha dichiarato il primo ministro israeliano uscente Yair Lapid. “Non abbandoneremo i nostri soldati per essere sottoposti ad indagini da parte di paesi stranieri”.

Sebbene quella di Lapid sia stata una tipica risposta da israeliano, è piuttosto interessante – se non scioccante – il fatto che si tratta di un commento riferito ad un’indagine americana. Storicamente, un linguaggio del genere era riservato alle indagini effettuate dal Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e da esperti di diritto internazionale come Richard Falk, Richard Goldstone e Michael Lynk. Più volte tali indagini sono state condotte o bloccate senza alcuna cooperazione da parte israeliana e sotto l’intensa pressione americana che ha sempre mirato a farle cadere nel vuoto.

Nel 2003, l’enorme intransigenza di Israele e il cieco sostegno fornitogli dagli Stati Uniti hanno costretto il governo belga a riscrivere le proprie leggi interne per poter archiviare una causa per crimini di guerra intentata contro il defunto primo ministro israeliano Ariel Sharon. Inoltre, nonostante gli sforzi incessanti messi in campo da molti gruppi per i diritti umani con sede negli USA, perché si indagasse sull’omicidio dell’attivista americana Rachel Corrie, gli Stati Uniti si sono rifiutati di prendere in considerazione il caso, affidandolo invece ai tribunali israeliani, tribunali che hanno scagionato il loro militare che si trovava alla guida del bulldozer passato sopra il corpo della 23enne Corrie, nel 2003. Il suo crimine era stato semplicemente quello di manifestare cercando di impedire al bulldozer di demolire una casa palestinese nella Striscia di Gaza.

Peggio ancora, nel 2020, il governo statunitense ha addirittura sanzionato il procuratore della Corte Penale Internazionale (CPI) Fatou Bensouda, assieme ad altri importanti funzionari, occupati nelle indagini sui presunti crimini di guerra statunitensi e israeliani commessi in Afghanistan e in Palestina.

Tenendo conto di tutto questo, dobbiamo quindi farci delle domande sulla tempistica e sulle motivazioni della proposta di indagine statunitense. Axios ha rivelato che la decisione di indagare sull’uccisione di Abu Akleh è stata “presa prima delle elezioni tenute in Israele il 1° novembre, ma il Dipartimento di Giustizia lo ha notificato ufficialmente al governo israeliano soltanto tre giorni dopo le elezioni”. In realtà, la notizia è stata rivelata ai media il 14 novembre, dopo le elezioni israeliane e statunitensi (del 1° e 7 novembre rispettivamente).

I funzionari di Washington hanno precisato che la decisione non è stata di natura politica, pertanto non aveva lo scopo di evitare di irritare la lobby pro-Israele a Washington pochi giorni prima delle elezioni di medio termine negli Stati Uniti, né di influenzare l’esito delle elezioni generali in Israele. Se così fosse stato, perché allora gli Stati Uniti hanno aspettato fino al 14 novembre per far trapelare la notizia? Il ritardo suggerisce una seria politica messa in atto nelle retroguardie e forti pressioni israeliane volte a dissuadere gli Stati Uniti dal rendere pubblico l’annuncio, dopo il quale sarebbe stato impossibile revocare la decisione.

Sapendo che molto probabilmente non verrà condotta un’indagine veramente seria, la decisione degli Stati Uniti deve essere stata ragionata in anticipo per poter quindi risultare come una decisione prettamente politica. Forse simbolica e significativa, ma in ultima analisi irrilevante, la decisione senza precedenti e determinata degli Stati Uniti è stata probabilmente basata su un solido ragionamento. Tanto per cominciare, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha avuto qualche difficoltà nel gestire le astuzie politiche dell’allora primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, durante il suo periodo di vicepresidenza nell’Amministrazione Obama (2009-2017). Ora che Netanyahu è pronto a tornare al timone della politica israeliana, l’amministrazione Biden ha urgente bisogno di una politica che faccia leva su Tel Aviv, con la speranza di riuscire a controllare le tendenze estremiste del leader israeliano e del suo governo.

Inoltre, il fallimento della cosiddetta “Onda Rossa” repubblicana nell’emarginare i democratici come forza politica e legislativa di rilievo nel Congresso degli Stati Uniti ha ulteriormente incoraggiato l’amministrazione Biden a rivelare le notizie riguardanti l’indagine sull’uccisione di Abu Akleh. Questo, se siamo propensi a credere che la decisione sia stata presa in anticipo.

Inoltre, la grande affermazione di candidati palestinesi e filo-palestinesi nelle elezioni di metà mandato – sia nei sondaggi nazionali che in quelli legislativi statali – rafforza ulteriormente l’agenda progressista all’interno del Partito Democratico. Anche la decisione simbolica di indagare sull’uccisione di un cittadino statunitense rappresenta un momento di svolta nel rapporto tra l’establishment del Partito Democratico e i suoi elettori di base più progressisti. Infatti, la rieletta deputata palestinese-americana Rashida Tlaib ha reagito prontamente alla notizia dell’indagine, definendola come “il primo passo verso una reale responsabilità”.

Sebbene sia improbabile che l’indagine del FBI sull’omicidio di Abu Akleh risulti in un qualche tipo di giustizia, si tratta comunque di un momento molto importante nelle relazioni tra Stati Uniti e Israele e tra Stati Uniti e Palestina. In parole povere, significa che, nonostante il radicato e cieco sostegno degli Stati Uniti a Israele, ci sono margini nella politica statunitense che possono ancora essere sfruttati, se non per annullare il sostegno degli Stati Uniti a Israele, almeno per indebolire il presunto “legame indissolubile” tra i due Paesi.

Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi