Sir Tony Blair, agente coloniale.

Sir Tony Blair, agente coloniale.
di Gianluca Bifolchi
 
Nel mondo arabo e presso tutti gli osservatori occidentali meno ligi alle prescrizioni della propaganda imperiale — ad esempio Robert Fisk — la nomina di Tony Blair a mediatore nel conflitto israelo-palestinese è stata causa di sconcerto, indignazione e sarcasmo. Credo che alla base di questa reazione vi sia il fondamentale equivoco di accettare le formule della diplomazia per ciò che la loro vernice semantica più superficiale pretende di esprimere. Più che riflettere sulla congruità di un ruolo da mediatore per un uomo come Blair sarebbe meglio chiedersi cosa ci si aspetta davvero che faccia in quell’area, al di là della retorica del negoziato, del processo di pace, e di tutto ciò che serve a dare una patina di rispettabilità all’oppressione del popolo palestinese da parte di Israele. In questa prospettiva potrebbe persino apparire che Blair è un candidato eccellente per quel ruolo, non a dispetto dei suoi lamentevoli precedenti mediorientali, ma proprio in virtù di questi.
 
Una importante chiave di lettura ci viene dalle dichiarazioni che il Primo Ministro israeliano Ehud Olmert e George W. Bush hanno rilasciato immediatamente dopo la nomina di Blair al suo nuovo prestigioso incarico internazionale, per il quale aveva alacremente lavorato in vista delle sue dimissioni da Downing Street. I due signori feudali del conflitto si sono congratulati con Blair ed hanno sottolineato che le sue doti ne faranno un prezioso consigliere alla parte palestinese per ciò che riguarda il rilancio dell’economia nei Territori Occupati, la promozione di "cooperazioni nel settore privato", e la costruzione di un nuovo assetto istituzionale moderno e democratico per l’Autorità Nazionale Palestinese.
 
Rilancio dell’economia? Cooperazioni nel settore privato? Costruzione di un nuovo assetto istituzionale? E’ sempre buona norma fermarsi a riflettere quando si avverte una nota stonata. Ci si deve infatti chiedere cosa hanno a che fare l’economia e l’assetto istituzionale palestinese — faccende eminentemente interne — con il ruolo di mediatore di Tony Blair, che in un posizione di equidistanza e non interferenza con i processi interni dovrebbe facilitare l’incontro di due parti ostili e indurle a discutere di pace. Ma in verità Tony Blair è un mediatore per la stessa logica di omaggio al pudore per cui si chiama processo di pace l’avvio della bantustanizzazione della West Bank a partire dagli Accordi di Oslo del 1993. Tony Blair è in realtà un agente coloniale che mutatis mutandis cercherà di svolgere nell’area israelo-palestinese un ruolo che nel contesto mediorientale trova il suo più immediato predecessore in Paul Bremer ai tempi della CPA, subito dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003.
 
Il compito del plenipotenziario di Bush era la costruzione di un nuovo Iraq privo, nel suo asservimento all’America, di qualunque autonomia internazionale, e le cui risorse economiche nel settore pubblico e privato erano terreno di predazione per le imprese occidentali secondo i progetti di un neoliberismo più fondamentalista di quanto i piani di riaggiustamento del FMI abbiano mai osato concepire per un governo sovrano.
 
Gli attuali progetti di USA e Israele per la Palestina prevedono la costruzione di un regime cliente intorno alla cricca mafiosa di Abu Mazen. Ma il ritorno degli ingenti aiuti internazionali, lo sblocco delle entrate fiscali sequestrate da Israele, e quel po’ di ossigeno che l’economia della West Bank potrebbe avere da un certo rilassamento del blocco ai movimenti interni per la popolazione palestinese inducono a pensare anche ad una dimensione affaristica a cui le ditte britanniche, USA ed israeliane sono di certo assai sensibili.
 
Sappiamo tutti molto bene che da molti anni Israele, USA ed Unione Europea intendono la formula "due popoli per due stati" nel senso della trasformazione degli attuali Territori Occupati della West Bank e della Striscia di Gaza in un protettorato israeliano, bantustanizzato e sorvegliato da una partnership di IDF e truppe ascare palestinesi. Ciò che era meno chiaro è che questi piani possono costituire un’ottima occasione di profitti se si costruisce un affare attorno agli aiuti internazionali e alla possibilità di imporre al regime cliente politiche economiche funzionali ad interessi stranieri.
 
Dunque, ecco che un conflitto che per decenni si è sviluppato su parole d’ordine come libertà, autodeterminazione, sicurezza, pace, rivela all’improvviso potenzialità economiche assai attraenti di progetto neocoloniale. Tutto ciò non è niente di nuovo per Israele, se si pensa che oltre il 70% delle risorse idriche della West Bank è di esclusivo uso ebraico, e che i mercati palestinesi hanno nell’economia israliana un fornitore obbligato di merci e servizi. Ma è la prima volta che questo tema si intreccia con il profilo che la causa palestinese ha sempre avuto nella diplomazia internazionale, e in questo nuovo contesto assegnare a Tony Blair il compito di mediatore non ha più niente di strano.

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