Solo ricordi: perché la speranza sta svanendo per le madri dei palestinesi rinchiusi in carcere

Manifestazione di donne palestinesi a Gaza per denunciare la sofferenza dei prigionieri palestinesi. (Foto: Mahmoud Ajjour, The Palestine Chronicle).

Palestine Chronicle. Di Shahd Safi. Quando il prigioniero palestinese Naser Abu Hamid è morto, il 20 dicembre, dopo aver lottato contro un cancro ai polmoni per più di un anno, altre famiglie di prigionieri palestinesi hanno perso la speranza che i loro figli venissero rilasciati, soprattutto dopo la formazione del nuovo governo di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu.

Le condizioni di salute di Abu Hamid sono peggiorate a causa della politica sistematica di negligenza medica del Servizio penitenziario israeliano (IPS).

The Palestine Chronicle ha intervistato le madri dei prigionieri palestinesi Diyaa al-Agha, che ha trascorso 31 anni in una prigione israeliana, e Hassan Salama, imprigionato 27 anni fa.

Diyaa significa luce.

“Il nome di Diyaa significa luce in arabo. In effetti, era la luce della mia vita”, racconta la madre di al-Agha. “Aveva un carisma straordinario, era di buon cuore ed era amato da tutti coloro che lo circondavano. Non è cambiato, nemmeno dopo 31 anni di detenzione. Ha sacrificato la sua vita per amore della libertà”.

Diyaa è stato arrestato durante la Prima Intifada, iniziata il 9 dicembre 1987, nel campo profughi di Jabaliya dopo che un camion dell’esercito israeliano aveva investito un’auto palestinese, uccidendo quattro operai, tre dei quali provenienti dal campo di Jabaliya.

In seguito a quell’incidente, sono iniziate una serie di manifestazioni palestinesi. Ne seguì un movimento di resistenza popolare, incentrato in gran parte sui boicottaggi di massa e sulla disobbedienza civile. La violenta risposta da parte dell’esercito israeliano, che includeva una politica di rottura delle ossa dei manifestanti approvata dal governo, ha portato a un alto numero di vittime.

Dopo sei anni di scontri quotidiani, 1550 palestinesi in totale sono stati uccisi, oltre 70.000 sono rimasti feriti e tra i 100.000 e 200.000 sono stati arrestati. Tra questi, oltre 18.000 sono stati trattenuti in stato di detenzione amministrativa per lunghi periodi di tempo senza accusa né processo.

L’Intifada si è progressivamente attenuata, giungendo infine a una battuta d’arresto dopo la firma degli Accordi di Oslo tra Palestina e Israele nel settembre 1993, che hanno portato alla creazione dell’Autorità Palestinese.

Scomparso.

Durante l’Intifada, Diyaa al-Agha, che all’epoca era minorenne, è semplicemente scomparso. La sua famiglia lo ha cercato per mesi. Nel 1992, fu detto loro che era stato accusato di omicidio e che era detenuto nella prigione israeliana di Talmond. Al-Agha è stato trattenuto senza processo fino all’età di 18 anni, quando il tribunale israeliano lo ha condannato all’ergastolo.

“Da quando è stato condannato, piango ogni giorno la perdita di mio figlio”, ha dichiarato sua madre. “Il mio cuore è colmo di tristezza e faccio davvero fatica a sorridere. Mi mancano terribilmente il suo profumo e le sue risate”. Per la madre di al-Agha è ancora più difficile pensare al suo amato figlio durante le celebrazioni annuali dell’Eid. Non può fare a meno di chiedersi come sarebbe stata la sua famiglia se lui avesse vissuto una vita normale.

È andata a trovarlo nove mesi dopo la sua detenzione. Lei e sua figlia sono state condotte dai soldati israeliani attraverso un tunnel buio che conduceva a una piccola gabbia dove è stato ordinato loro di sedersi. “In quel momento ho iniziato a tremare. Pensavo che ci avessero ingannate e che il loro reale intento fosse quello di trattenere anche noi, o peggio ancora, come ho sentito dire che avevano fatto con molte donne palestinesi”, ha poi aggiunto la madre di al-Agha. A quel punto, le guardie carcerarie israeliane hanno permesso ad al-Agha di incontrarle, da un’altra piccola gabbia posta di fronte a loro. “Era esausto e sembrava estremamente triste. All’epoca era solo un bambino e potevo vedere che stava soffrendo”, ha spiegato la madre di al-Agha. “Indossava una maglietta marrone sopra gli stessi vestiti che indossava nove mesi prima. Soffriva e per comunicare con noi si limitava a fare dei gesti con le mani, invece di parlare”.

Le guardie carcerarie israeliane non le hanno permesso di abbracciare suo figlio. “È assurdo pensare che un israeliano reputi mio figlio un terrorista per aver ucciso un altro israeliano, mentre loro uccidono migliaia di noi e continuano a farlo”, ha proseguito la madre di al-Agha.

“Questo è il motivo per cui lo paragono a (Ernesto) Che Guevara o a Nelson Mandela. Entrambi sono stati definiti terroristi. Diyaa rifiuta l’oppressione, l’ingiustizia e il pregiudizio. Il suo sogno più grande è la libertà della Palestina, colonizzata dall’occupazione israeliana nel 1948 e chiamata Israele”.

Al-Agha è stato in molte prigioni diverse. Dopo che varie organizzazioni umanitarie, tra cui la Palestinian Prisoner’s Society, hanno fatto pressione su Israele affinché i detenuti potessero avere dei libri e completare l’istruzione primaria e superiore, si è diplomato al liceo e ha conseguito due lauree: una in Studi Storici e l’altra in Insegnamento di Studi Sociali nel 2021. Secondo un avvocato che lo ha incontrato di recente, al-Agha è maturato fino a diventare un uomo molto responsabile e sofisticato.

Solo ricordi.

Purtroppo, la storia di al-Agha non è un caso isolato. Ci sono molte madri e prigionieri palestinesi che subiscono la stessa sorte, ognuno con una storia altrettanto densa di dolore.

Come al-Agha, anche Hassan Salama è stato condannato all’ergastolo. È in carcere da 27 anni, di cui 13 in isolamento. Sua madre ha perso ogni speranza che venga rilasciato. Rammenta ancora i suoi ricordi d’infanzia e soffre per il figlio. Salama è stato arrestato sei mesi dopo essersi sposato. Da quel momento in poi, la madre è andata a trovarlo molte volte, ma sente che non è mai abbastanza. Vuole sentire il suo profumo, percepire la sua presenza e assicurarsi che non gli venga fatto del male, cosa che non è mai riuscita a fare. Non le è stato neanche permesso di portargli i suoi piatti o libri preferiti a causa della politica carceraria israeliana.

“Hassan è sempre stato coraggioso. A scuola era intelligente, rispettava e aiutava i suoi insegnanti. Lo ricordo da bambino, che si comportava sempre in maniera saggia”, ha raccontato sua madre a The Palestine Chronicle.

“Hassan era frustrato perché la Palestina è colonizzata da Israele. Lo faceva così arrabbiare vedere la sua gente umiliata e le loro case distrutte. Di conseguenza, ha iniziato a lanciare pietre contro i soldati. Pochi anni dopo, è diventato un combattente per la libertà. Ora è in prigione e di lui rimangono solo ricordi”.

Prima di compiere 18 anni, Salama è stato incarcerato più volte per aver lanciato pietre contro i soldati israeliani. A 18 anni è diventato un combattente per la libertà, il che lo ha portato all’incarcerazione a vita alcuni anni dopo, nel 1996.

Mentre era in prigione, Salama divorziò dalla moglie, poiché si rese conto che non sarebbe mai stato rilasciato. Sua moglie inizialmente si opponeva al divorzio, ma lui la convinse ad accettarlo, dicendo che era così ingiusto per lei trascorrere il suo tempo in solitudine a piangere per questa perdita, sperando che un giorno sarebbe stato rilasciato.

Nonostante la lotta e la dura realtà che incontra nelle carceri israeliane, Salama è riuscito a proseguire gli studi di storia presso l’Università di Al-Aqsa.

La madre di Salama sperava di rivederlo a casa, ma questo non è mai successo. Sono ormai dieci anni che non vede il suo amato figlio e ha perso completamente la speranza di rivederlo. “L’ultima volta che ho visto Hassan, la sua barba era bianca e il suo viso sembrava pallido. Quando è stato arrestato per la prima volta, era un uomo giovane, forte e dinamico, con i capelli corti e neri. Ora è un uomo anziano. Hassan ha sacrificato la sua vita per la Palestina”, ha raccontato la madre, con gli occhi pieni di lacrime.

Il ministro israeliano di estrema destra Itamar Ben-Gvir si è recato di recente presso il carcere di massima sicurezza di Nahfa, dove ha ribadito che le pessime condizioni dei prigionieri palestinesi non dovrebbero mai migliorare. Ciò significa che né al-Agha né Salama saranno probabilmente rilasciati in tempi brevi e che molte altre madri palestinesi continueranno a soffrire per la prolungata separazione dai loro figli.

– Shahd Safi è una traduttrice e scrittrice freelance per We Are Not Numbers, residente a Gaza. WANN ha contribuito a questo articolo per The Palestine Chronicle.

Traduzione per InfoPal di Rachele Manna