Stabilire una presenza palestinese alla Biennale di Venezia 2022

MEMO. Di Naima Morelli. Esattamente al centro di Palazzo Mora, antico edificio veneziano, dopo avere  attraversato il cortile e le stanze dove gli operai stavano ancora allestendo le opere di mostre parallele in preparazione per la Biennale d’Arte di Venezia 2022, che si svolgerà dal 23 aprile al 27 novembre 2022, ho finalmente trovato quello che stavo cercando: un piccolo assaggio di Palestina nel cuore di questa iconica città italiana.

Curata da Nancy Nesvet, curatore del Palestine Museum negli Stati Uniti, la mostra “From Palestine With Art” presenta diciannove artisti palestinesi provenienti dalla Palestina e da tutta la diaspora.

I visitatori sono accolti da tende dipinte ad arte realizzate da Samar Hussaini. Questa è la prima forte impressione insieme alla musica; le melodie tradizionali palestinesi agevolano l’ingresso dei visitatori nell’ambiente lavorando a livello inconscio.

Guardandosi intorno nella stanza si può scorgere un ulivo e diversi dipinti che colpiscono con i loro colori allegri, fotografie intense, sculture e installazioni appese alle pareti. Un vero e proprio autentico puzzle che riflette il paese stesso.

Mentre camminavo con attenzione su una mappa storica della Palestina che copriva il pavimento della galleria, un uomo vestito di rosso seduto su una panchina al centro della stanza mi dice: “Puoi camminarci sopra, sai!” È così che ho conosciuto Faisal Saleh, un ex uomo d’affari e attuale direttore del Museo Palestinese negli Stati Uniti. È stato lui a organizzare lo spettacolo.

L’opera sul pavimento, ha spiegato, è una mappa del 1877 prodotta dal cartografo e storico Salman Abu-Sitta, che ha mappato il suo paese. “Il significato di questa mappa consiste nel fatto che essa raffigura la Palestina prima del sionismo. Non c’è un solo insediamento su di essa; è la terra pura, così com’era. È la Palestina cui appartengono i palestinesi, dal fiume al mare. Questa è un’ affermazione molto vigorosa su come i palestinesi non siano disposti a rinunciare alla loro terra”.

Non ci vuole molto per accorgersi del contenuto politico di questa esibizione. E non potrebbe essere altrimenti visto che la Biennale di Venezia, il più grande evento del mondo artistico, non ha mai avuto un padiglione palestinese nel corso dei suoi 125 anni di storia. Solo nel 2003 il curatore della Biennale Francesco Bonami ha prefigurato la possibilità di un Padiglione palestinese ma tra accuse, tristemente prevedibili, di “antisemitismo”, ciò non si è potuto realizzare.

Nel 2009, tuttavia, la Biennale ha ospitato una mostra collaterale in tutto e per tutto palestinese intitolata “Salwa Mikdadi’s Palestine c/o Venice”, con tema principale la diaspora palestinese e la Nakba (Catastrofe) in corso. In seguito, si è potuta rilevare a Venezia una partecipazione palestinese occasionale, ma mai coesa e sempre affiliata ad altri paesi.

“Questa è la più forte rappresentazione della Palestina che abbia mai avuto luogo”, ha detto Saleh. “In passato, ci sono stati progetti individuali che comprendevano fino a sette artisti ma questa, invece, in termini di dimensioni e audacia delle sue opere, è una rappresentazione molto efficace e potente. Penso che ciò avrà un impatto molto ampio e promuoverà enormemente la Palestina “.

Insieme alle opere d’arte, ci sono anche lavori tradizionali, come abiti di duecento anni fa finemente ricamati. Gli artisti provengono da generazioni diverse e rappresentano una mescolanza di tradizione e innovazione. Questa è proprio l’intenzione, ha detto Faisal Saleh. “Volevamo dare ai giovani artisti palestinesi emergenti la possibilità di partecipare ed essere ispirati perché intervenire al più grande evento artistico è molto stimolante. In un certo senso cambia le loro vite”.

Opere astratte e figurative si trovano l’una accanto all’altra. Il calore delle fiamme della maggiore artista palestinese Samia Halaby nella tela astratta “Venetian Red” è magistralmente collocato accanto alla tela della giovane artista Jacqueline Bejani, che ha deciso di celebrare le figure di spicco della letteratura e dell’arte palestinese raffigurandone i volti.

La missione della mostra è in linea con la visione del Museo Palestinese degli Stati Uniti e cioè di raccontare la storia palestinese attraverso l’arte. Fondata da Saleh solo quattro anni fa, esso si trova a Woodbridge, nel Connecticut. “Non c’era alcun museo sulla Palestina nell’emisfero occidentale”, ha sottolineato, “per dare la possibilità agli artisti palestinesi di colmare questo vuoto attraverso la rappresentazione del loro lavoro in maniera compatta e continuativa”.

Vi è tutta una serie di simboli accattivanti nella mostra, alcuni molto legati all’immaginario palestinese collettivo, come l’olivo, simbolo dell’attaccamento dei palestinesi alla loro terra e ai loro diritti. Le chiavi appese ai rami dell’ulivo al centro della stanza sono le chiavi reali custodite dai palestinesi quando chiudevano le porte durante la pulizia etnica del 1948, nota come Nakba. “Pensavano di tornare dopo un paio di settimane, uno o due mesi, forse, ma, com’è noto, a nessuno di noi ciò è stato permesso. Qui le chiavi rappresentano per i palestinesi il diritto al ritorno”.

Appena sopra l’ulivo c’è un grande dipinto del famoso artista Nabil Anani raffigurante un bellissimo paesaggio privo di tutte quelle barriere ormai onnipresenti nella Palestina odierna occupata. La terra devastata è raffigurata in dipinti più piccoli di altri artisti nella mostra, giustapponendo l’ideale e il reale.

“Questo è ciò che gli israeliani stanno facendo alla bellezza della terra palestinese”, ha osservato Saleh. “Costruiscono insediamenti, distruggono l’ambiente, cacciano via le persone e creano strutture che favoriscono l’apartheid. Il messaggio qui è che la bellezza della Palestina deve essere preservata”.

La pittura di Anani mostra la forza degli artisti in grado di elevarsi al di sopra dei confini della realtà per ricercare la vitalità che esiste oltre lotta. Questa è la sensazione che la mostra vuole trasmettere; una sensazione di espansione più che di contrazione, di vitalità e di speranza.

Una delle opere più affascinanti della mostra è di un giovane artista, Ibrahim Alazza; è una kefiah avvolta nel filo spinato che pende dal soffitto. All’interno c’è una serie di trascrizioni di storie orali palestinesi sulla Nakba. È un forte promemoria sul fatto che i ricordi sono tutto ciò che rimane di un popolo che ha perso tutto.

“L’arte ci permette di attraversare gli ostacoli che normalmente esistono perché la Palestina sia ascoltata”, ha sottolineato Faisal Saleh. “L’arte può quindi aprirci queste porte e permetterci di comunicare con le persone raccontando loro un po’ la nostra storia”.

Mi mostra un video sul suo telefono con la reazione di alcuni palestinesi arrivati nei primi giorni della mostra con le lacrime agli occhi quando sono entrati nella stanza.

“C’è stato un riconoscimento immediato di appartenenza e un senso di orgoglio per essere finalmente qui. Vogliamo mostrare al mondo che l’arte palestinese è altrettanto bella, se non superiore, alla migliore arte in mostra alla Biennale. Sino ad ora le persone sono rimaste molto colpite”.

Ne posso capire il perché.


(Foto: Nameer Qassim, “Enough”, 2020, Acrilico su tela, 100×100 cm [Courtesy of The Palestine Museum US]).

Foto: qui.

Traduzione per InfoPal di Laura Pennisi