Storie che non fanno notizia.

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 Le storie non abbastanza tragiche da fare notizia

Anna Baltzer, 6 Aprile 2007 

Oggi ho visitato il mio amico Dawud a Kufr’Ain per la prima volta da quando ha perso il suo bambino di sei mesi al Checkpoint di Atara. E’ stato straziante ascoltare i dettagli della storia di un uomo che solo un mese fa mi chiedeva di andare a visitare la sua famiglia in amicizia, e non solo per scrivere un articolo. Diceva che la Palestina è qualcosa di più che tristi storie. Ma in questo giorno trovo solo il dolore. Abbiamo guardato in silenzio un video del funerale, ed ho visto la madre di Dawud che aveva un collasso nervoso e diceva che non avrebbe potuto tollerare altro. Lei ha già perso due figli per cause naturali, ma a parte un’asma leggera e curabile Khalid era un bambino paffuto, sano e felice.

L’ultima volta che sono stata a Kufr’Ain ho scritto articoli presso questa o quella famiglia riguardanti le incursioni notturne da parte dell’esercito. Una ragazza di 14 anni mi ha raccontato come i soldati hanno svegliato lei, sua madre e i suoi cinque fratelli (suo padre lavora negli USA) nel cuore della notte con bombe shock, li hanno costretti ad uscire in pigiama e senza scarpe, ed hanno isolato la ragazza per interrogarla prima di chiudere madre e bambini nel soggiorno e perquisire la casa. Ha detto che i soldati hanno provocato esplosioni nella sua stanza e nel pozzo di famiglia.

Un’altra famiglia mi ha detto come sono stati svegliati dalle bombe shock, portati al freddo, e come gli uomini sono stati spogliati, ammanettati, e stesi a faccia in giù, prima di essere portati nel soggiorno del vicino per essere interrogati. La famiglia del vicino era intanto stata rinchiusa nelle stanze da letto a luci spente, con l’ordine di non muoversi e restare in silenzio.

C’erano anche altre storie. Troppe, in realtà. Alla fine dovetti smettere di scrivere articoli, in parte perché dovevo essere altrove, ma ancor più perché mentre prendevo appunti cominciai ad essere oppressa dalla sensazione che le incursioni erano un fatto troppo comune, troppo ordinario per destare l’attenzione di qualcuno. Queste erano questioni di diritti umani che nessuna organizzazione umanitaria si sarebbe disturbata a seguire.

Grosse operazioni a Nablus e Ramallah hanno i titoli, ma le incursioni all’interno di molti piccoli villaggi della West Bank sono semplicemente parte della vita di tutti i giorni. Ad esempio, negli ultimi due mesi, l’esercito è arrivato di notte nel villaggio di Marda, gettando bombe shock, arrestando uomini, sequestrando ragazzi. Presero le carte di identità e si rifiutarono di restituirle finché i loro proprietari non avessero fornito i nomi dei ragazzi del villaggio che lanciavano pietre in una strada riservata ai coloni che attraversa Marda. Chiusero il villaggio completamente, impedendo ai residenti di entrare ed ai visitatori di uscire. Due settimane fa i soldati hanno fatto irruzione nella casa di una famiglia con tre figli. Il secondo figlio, Ahmad, 19 anni, che quando sentì fuori i soldati stava studiando per un esame di inglese il giorno successivo, mi ha raccontato la sua storia:

Lasciai da parte i libri per andare a vedere cos’era tutto quel frastuono. C’erano almeno 14 soldati che con tre jeep circondavano la mia casa. I soldati prendevano a calci le porte e gettavano bombe shock. Quando i soldati mi videro, mi afferrarono cominciarono a percuotermi. I miei genitori e mio fratello Qutaiba — ha solo 13 anni — cercarono di intervenire ma l’esercito gettò a terra mio padre e mia madre, e colpì Quatiba allo stomaco. Ogni volta che mio fratello cercava di alzarsi lo colpivano nuovamente al ventre, e mio madre urlava per farli fermare. Ed era come se ogni volta che lei urlava loro picchiavano lui di nuovo. All’improvviso mia madre cominciò a gemere e io vidi che due soldati stavano coprendo la faccia di Qutaiba con le mani per impedirgli di respirare, fino al punto che la sua faccia diventò rossa. Alla fine gli permisero di respirare.

Ho allora chiesto a Qutaiba cosa accadde dopo:

I soldati bendarono ed ammanetarono me ed Ahmad e ci portarono nelle loro jeep tirandomi su per le mani ammanettate dietro la mia schiena, il che mi fece male alle spalle. Diversi soldati mi colpirono con i loro pugni, con mazze, e con i fucili, e allora cominciarono a pormi domande su quali erano i ragazzi del villaggio che tiravano pietre. Io dissi loro che ero raffreddato e stavo male, ed un soldato disse che questo non era ancora niente; lui voleva colpirmi a morte. Presero il mio cappello e cominciarono a colpirmi alla testa con esso, ridendo e prendendosi gioco di me. Dopo mezz’ora si stancarono e mi lasciarono per farmi tornare a casa. Loro se ne andarono con mio fratello ancora bendato ed ammanettato nella jeep.

Quando Qutaiba smette di parlare, Ahamad riprende:

E’ stato terribile sentire che il mio fratello minore veniva picchiato, e fui quasi grato di essere portato via. I soldati mi portarono alla stazione di polizia di Ariel, dove mi picchiarono per diverse ore su tutto il corpo, specialmente alla testa e alle tempie. Tutto il tempo sono rimasto bendato e quindi non potevo rendermi conto da che parte sarebbe arrivato il prossimo colpo. Era spaventoso. Un soldato mi mise il suo stivale in bocca. Chiesi al comandante un po’ d’acqua e lui mi rispose ‘vai all’Inferno’. All’improvviso uno di essi mi diede un calcio molto forte all’inguine e tutto diventò buio. Dopo un po’ mi accorsi che stavano gettando acqua fredda sulla mia faccia, e quando videro che ero di nuovo cosciente cominciarono a picchiarmi ancora, accusandomi di lanciare pietre, distruggere le case dei coloni, ed essere un membro di Hamas. Dopo quattro ore finalmente mi lasciarono a casa ed io tornai a casa camminando.

Rasmi, il padre di Ahamad interviene:

Quando mio figlio tornò a casa dopo l’una, sembrava che fosse stato sotto una doccia di sangue. Il giorno successivo doveva andare a scuola ma il suo insegnante di inglese accettò di posticipare l’esame. Io insegno buoni valori ai miei figli, a rispettare gli altri e a non ricorrere mai alla violenza. Ma come p
ossono restare tipi pacifici quando sono sempre circondati e minacciati da una simile brutalità? Mi piacerebbe vivere in pace con gli Ebrei. Loro costruiscono il loro stato e noi costruiamo il nostro. Loro si prendono cura dei loro bambini, ed io mi prendo cura dei miei. Ho vissuto a Chicago per 15 anni. Io so che in America è considerato un peccato picchiare i tuoi figli. Qui i soldati possono picchiare i figli degli altri e nessuno dice niente! Ma anche se uccidono i miei figli, io non ucciderò i loro. Questi sono i miei valori, ciò che i miei genitori mi hanno insegnato e ciò che io insegno ai miei figli.

Mentre Rasmi parlava arrivò un auto e tutta la famiglia ebbe un sussulto. Risero nervosamente quando capirono che si trattava solo di un vicino. Rasmi disse che i soldati tornarono tre giorni dopo e presero di nuovo Ahmad, questa volta con il suo fratello maggiore Samiah. Li bendarono e li ammanettarono, e li portarono in un magazzino abbandonato lontano dalla strada. Ahmad era ancora convalescente per le sue ferite alla testa, ma i soldati lo colpirono ancora, insieme a suo fratello, prima in silenzio, e dopo insultandoli ed accusandoli di nascondere armi. Quando cominciò a piovere, i soldati portarono i due ragazzi fuori, gli tolsero le giacche, e ripresero a colpirli. Alla fine li lasciarono andare, dopo aver rubato tutto il denaro nel portafogli di Samiah, 70 dinar giordani e 60 shekel israeliani. Questo in aggiunta a 400 shekel che rubarono da casa durante la prima visita, nel complesso l’equivalente di 200 dollari (per non parlare di CD e giocattoli rotti durante la devastante perquisizione). Presero anche i documenti dell’università che erano nel portafogli di Samiah.

Sebbene gli abitanti del villaggio di Marda siano quelli che ci chiamano di più, la situazione di Marda è lungi dall’essere unica. La maggior parte dei villaggi hanno semplicemente smesso di contare su di noi. Recentemente abbiamo incontrato una nonna di 56 anni di nome Hilwe a cui era stato sparato in faccia tre settimane prima da soldati che si nascondevano dietro un angolo del suo villaggio, Qarawat Bani Hassan. Una pallottola rivestita di gomma (non fraintendete; queste pallottole possono uccidere ed in effetti lo fanno) prese di striscio la sua faccia, tagliando e staccando un pezzo della sua narice, sfigurandola e costandole 20 punti di sutura. Io chiesi a Hilwe cosa i soldati stessero facendo nel suo villaggio e lei si strinse nelle spalle, "Vengono ogni giorno, non è niente di speciale". Io chiesi perché nessuno aveva chiamato IWPS per reagire alle incursioni, e il fratello di Hilwe rispose: "E voi cosa avreste fatto? Avreste scritto un rapporto?"

Incoraggiammo la famiglia a Qarawat a chiamarci più spesso, ma non posso biasimarli se non lo faranno. Di che aiuto siamo per loro veramente, semplicemente stilando rapporti che i politici e persino molti attivisti non leggeranno mai? Il meglio che possiamo fare è offrire i nostri servici ed essere onesti su ciò che possiamo e non possiamo fare. Noi non possiamo assicurare i criminali alla giustizia; noi non possiamo far uscire gli innocenti dalle loro celle; non possiamo impedire che i soldati invadano, o che i coloni rubino la terra. Quello che possiamo fare, più o meno, si riduce a testimoniare e ad apparire solidali, ed occasionalmente a ricordare ai soldati che noi siamo lì e osserviamo.

Persino il nostro villaggio ormai sembra non aspettarsi più niente da noi. Le jeep ancora arrivano, ma nessuno chiama. Ieri ho sentito per caso da un amico che un ragazzo di Haris è stato rapito dai soldati perché vestiva troppo in verde oliva. Dicono che questo è un colore militare. I soldati lo hanno condotto in una strada tranquilla tra il nostro villaggio e Kifl Haris, lo hanno fatto spogliare di tutti i suoi vestiti verdi (facendolo rimanere in mutande), e lo hanno lasciato mezzo nudo a fare l’autostop per tornare a casa. Lo ha fatto per un po’ tenendosi dietro a degli alberi di olivo, finché qualcuno in un auto si è impietosito e gli ha portato dei vestiti.

Come nel caso di Ahmad e di Hilwe, la soria del ragazzo di Haris non farà mai grandi titoli. Ma ci saranno sempre storie come queste. Il noto giornalista di Haaretz Gideon Levy recentemente ha dato seguito a due nostri rapporti: il figlio di Dawud e la undicenne costretta a fare lo scudo umano. L’ultimo è finito anche sul New York Times e su altri grandi media, e l’esercito israeliano ha ufficialmente dichiarato che intende andare a fondo delle accuse relative agli scudi umani (frattanto, altri soldati israeliani e portavoce hanno dichiarato che l’invasione "era piuttosto noiosa, ci pareva appena di essere in azione", e in futuro "non tutte le operazioni saranno condotte in modo altrettanto cauto").

E’ la voce di Israeliani coraggiosi come Levy che mi danno le speranze maggiori per un grande cambiamento nella società israeliana. Io rimango stoica attraverso dozzine di rapporti sui diritti umani scritti nelle ultime settimane e mesi, ma alla fine sono crollata quando ho saputo che una di quelle voci coraggiose era venuta a mancare. Il 17 Marzo, la linguista israeliana ed attivista politica Tanya Reinhart è morta di un colpo apoplettico a New York City. Tanya era un risoluto difensore dei diritti umani, profondamente impegnata a rivelare ai suoi connazionali israeliani ed al mondo i crimini del suo governo contro il popolo palestinese. Tanya ha scritto libri ed articoli straordinari, ma ha anche dedicato tempo sulla linea del fronte qui in Palestina.

Nell’ultimo nostro scambio di corrispondenza, Tanya ha confessato con vergogna che alla fine aveva deciso di lasciare Israele, perché non poteva sopportare di rimanere nel suo paese dopo i bombardamenti di Gaza e nel Libano quest’estate. Infine aveva lasciato l’Università di Tel Aviv dopo che i suoi datori di lavoro "avevano reso la sua vita impossibile" per punirla dele sue prese di posizione politiche. E’ doloroso sentire che una straordinaria attivista come lei chiedeva scusa per non aver fatto abbastanza — lei aveva fatto più di quanto la maggior parte di noi potrebbe mai sperare di fare.

Le voci israeliane coraggiose che rimangono continuano ad essere prese di mira: secondo il Jerusalem Post, lo storico Ilan Pappe ha recentemente annunciato di voler lasciare Israele per il Regno Unito perché le "sue malviste convinzioni e vedute" — Pappe ha condotto approfondite ricerche sulle espulsioni di Palestinesi nel 1948 — gli avevano reso "sempre più difficile vivere in Israele". Tuttavia il movimento di resistenza israeliano sta crescendo più rapidamente che mai. E se anche certe storie non vengono raccontate, altre continueranno a venire fuori, anche se ci vorranno altri sessanta anni. La sola cosa più difficile che dire la verità al potere è coprire la verità indefinitamente. Israele sta combattendo una causa persa. La verità sull’aggressione presente e passata di Israele e la pulizia etnica della Palestina non possono rimanere nascoste per sempre. 

Anna Baltzer è una volontaria dell’International Women’s Peace Service nella West Bank (IWPS), ed è autrice del lib
ro, Witness in Palestine: Journal of a Jewish American Woman in the Occupied Territories. Per informazioni sui suoi scritti, fotografie,  DVD, e giri di conferenze visitate il suo sito
www.AnnaInTheMiddleEast.com.

(Nella pagina web originale foto dei Palestinesi citati nell’articolo)

Traduzione di Gianluca Bifolchi

 

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