Storie dalla Palestina: “Sono passati anni e viviamo ancora nei campi profughi”

Scuola della United Nations Relief and Works Agency (UNRWA), a Gaza, 18/11/2019. Foto di Ashraf Amra

The Electronic Intifada. Di Yasmin Abusayma. Nel 2001, quando avevo sei anni, frequentai la mia prima scuola dell’UNRWA, la Gaza Elementary School. Le pareti della scuola erano dipinte di blu e bianco per abbinarsi al logo dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. La mia uniforme, un vestito a righe bianche e blu, ricordava il logo stesso.

Solo quando sono cresciuta mi sono resa conto di essere una rifugiata, con tanto di tessera di registrazione. La mia famiglia proveniva da una città chiamata al-Majdal, ma ora viviamo nel quartiere al-Remal di Gaza.

Nel 2017 feci parte di un programma di leadership giovanile e ci recammo in Cisgiordania per incontrare altri leader giovanili. Dopo aver attraversato il checkpoint di Erez, la prima grande città che incontrammo fu proprio al-Majdal.

Non riuscivo a vedere molto dal mio finestrino, ma sapevo già molto del posto dalle descrizioni di mio padre. Seduta sull’autobus, sentii di appartenere ad al-Majdal.

Ma la città scomparve con la stessa velocità con cui era apparsa alla vista. Non ci venne permesso di scendere dall’autobus, apparentemente per motivi di sicurezza.

Più che mai mi sentii una rifugiata.

In tutta la Striscia di Gaza ci sono otto campi profughi palestinesi, pieni di rifugiati come me, tutti di generazioni diverse e con ricordi diversi di quando si sono resi conto per la prima volta di essere rifugiati.

Ecco alcune delle loro storie.

Fayqa al-Sous.

Fayqa al-Sous è nata nel campo di al-Bureij nel 1956. Ha 66 anni. La sua famiglia viene dal villaggio di Beit Tima, situato a circa 20 miglia dalla Città di Gaza, nella Palestina occupata. È stata insegnante nelle scuole dell’UNRWA.

“Vivo in questo campo dalla nascita. Sono una rifugiata e sogno di tornare in patria. Ogni angolo di questo campo mi evoca ricordi dolci-amari della vita dei miei nonni prima della Nakba (l’espulsione forzata dei palestinesi dalla loro patria).

“Mia nonna si chiamava Miriam. A quel tempo era sulla trentina. Il secondo giorno dopo la Nakba pianse così tanto per l’accaduto che decise di tornare a casa sua a Beit Tima nonostante il rischio e il pericolo del percorso.

“Cavalcò l’asino per 10 chilometri, portando con sé una scatola di metallo. Desiderando tornare a casa, contemplò il villaggio. Giunta a casa recuperò i documenti che provavano la proprietà della casa e di altri terreni e li rinchiuse nella scatola. Suo marito possedeva 400 acri nel villaggio. Credeva che questi documenti fossero prova sufficiente di proprietà della terra.

“Aveva fretta e si assicurò di partire prima del tramonto, per non rischiare di essere catturata dai soldati. Mia nonna credeva che tornare a casa fosse solo questione di tempo. Quello che non sapeva è che ci sarebbe voluto più tempo di quanto pensasse. Gli anni sono passati e viviamo ancora nel campo.

“Dopo essere stati sfollati, il Comitato Internazionale della Croce Rossa allestì per noi delle tende come rifugi. Ecco perché i luoghi in cui si radunavano i profughi erano chiamati campi. L’8 dicembre 1949 fu fondata l’UNRWA per aiutare i profughi palestinesi e migliorare le loro condizioni di vita. Al posto delle tende ci costruirono case di mattoni.

“La nostra vita era davvero difficile. C’erano solo due bagni in tutto il campo. Uno per gli uomini e l’altro per le donne. Facevamo la fila per usarli. Per quanto riguarda le case, erano molto vicine l’una all’altra e non c’era quasi nessuna privacy.

“Da giovani studenti ci venivano fornite capsule di olio di pesce e latte da bere per mantenere il nostro fisico in salute. Un giorno un autobus dell’UNRWA arrivò nella nostra scuola carico di queste capsule. Ci mettemmo in coda. Ricordo di essermi nascosta dal mio insegnante fingendo di averle prese.

“L’insegnante mi raggiunse e mi diede la capsula. Non riuscivo a ingoiare l’olio e avevo paura che mi si rompesse o mi scoppiasse in bocca. Odiavo il suo odore. L’insegnante mi diede una tazza d’acqua e riuscii a ingoiarlo. Nel frattempo alcuni studenti si liberarono delle loro capsule e ingannarono l’insegnante.

“A quel tempo non c’era elettricità. Mia madre di notte accendeva una piccola lampada a olio e poi l’appendeva al muro di mattoni così che noi potessimo studiare mentre lei ricamava. Questa semplice lampada era stata realizzata da un idraulico del campo. Emetteva del fumo nero e pesante che volava fino al soffitto.

“Quando noi bambini ci svegliavamo, il giorno dopo, bevevamo acqua e ci sciacquavamo la bocca per liberarci del fumo dal naso e dalla gola”.

Abdul Majeed Ismail.

Abdul Majeed Ismail è nato nel 1947. Ha 75 anni ed è un impiegato dell’UNRWA in pensione e un rifugiato di un villaggio chiamato al-Sawafir. Ha trascorso gran parte della sua vita nel campo profughi di Deir al-Balah. Deir al-Balah, situato sulla costa mediterranea, è il più piccolo campo profughi della Striscia di Gaza. Egli ricorda le condizioni del campo tra il 1950 e il 1969.

“I rifugiati palestinesi sono vissuti in condizioni di vita orribili. Le parole non ci rendono giustizia se vogliamo spiegare cosa significa essere un rifugiato. In un batter d’occhio, abbiamo perso tutto.

“Alle 7 del mattino ci riunivamo presso i centri di distribuzione alimentare dell’UNRWA per ottenere assistenza alimentare. Un dipendente dell’UNRWA era il responsabile delle carte di registrazione dei rifugiati. Una volta finito, noi rifugiati dovevamo andare in un’altra sala piena di scorte alimentari.

“Un altro dipendente distribuiva riso, lenticchie, farina, fagioli. Dopo ciò si tornava a casa. I rifugiati passavano molto tempo così. Ci siamo sentiti davvero male per aver dovuto aspettare gli aiuti perché non avevamo mai avuto bisogno di aiuto nelle nostre terre d’origine.

“La povertà era comune nella maggior parte delle famiglie. Un esempio di duro lavoro è quello di addetto ai carrelli di distribuzione. Il carrello veniva riempito con almeno 20 sacchi di farina e l’addetto doveva camminare per 3 chilometri, partendo dai centri di distribuzione alimentare dell’UNRWA fino al punto più lontano del campo.

“Tirarlo era difficile perché le ruote di ferro del carrello erano usurate e facevano un rumore assordante. Trainarlo richiedeva anche il doppio dello sforzo quando le sue ruote erano bloccate dal fango, o nelle fognature aperte dei campi o nella sabbia. Il lavoro rendeva poche piastre, giusto per provvedere alla famiglia.

“Quando andavamo a scuola i nostri zaini erano fatti di vecchi scarti di stoffa inutilizzati e le nostre scarpe erano sottili e logore. Erano fortunati quelli che avevano stivali che li proteggessero dal fango. I nostri vestiti si bagnavano, ma continuavamo a studiare a scuola, non importa quanto facesse freddo.

Sono passati anni e viviamo ancora nel campo profughi

“C’era un solo centro per dentisti situato a Khan Younis. Se avevi mal di denti dovevi aspettare che l’autobus dell’UNRWA raccogliesse tutti i pazienti di tutti i campi per poter andare in clinica. L’unico trattamento era quello di estrarre i denti danneggiati.

“Uno dei momenti più felici per noi è stato il ‘cinema’ dell’UNRWA (uno schermo avvolgibile) che si svolgeva una volta all’anno prima della Naksa del 1967 (con la sua occupazione ed espulsione). La gente dei diversi campi si radunava nel campo di calcio per guardare un film all’aperto (ad esempio ricordo il film egiziano del 1959 “Hassan e Naima”). Alla fine del film tutti se ne andavano felici.

“I giorni trascorsi al campo sono indimenticabili. Non importa quanto diverse siano l’identità e le caratteristiche del campo in termini di case moderne e strade lastricate, le giovani generazioni dovrebbero costantemente ricordare di essere figli e nipoti di rifugiati le cui terre sono state rubate. Dovrebbero ricordare che il ritorno in Palestina sarà inevitabilmente raggiunto”.

Hatem Obaid.

Hatem Obaid è nato nel 1963 nel campo profughi di Beach. Ha 59 anni ed è di al-Majdal. Lavora come responsabile del dipartimento di laboratorio presso l’ospedale al-Naser. Hatem ha studiato chimica in Algeria e gli è stata data la possibilità di rimanere lì e lavorare, ma ha scelto di tornare al campo di Beach con determinazione.

“La vita al campo era davvero dura, soprattutto in inverno. Le case erano piccole e molto vicine l’una all’altra. Affondavamo nel fango nel tragitto per la scuola. Alcuni studenti erano scalzi. A quel tempo (dal 1950 al 1969) si consideravano fortunati quelli che avevano stivali alti. Ci riscaldavamo usando vecchie stufe a legna. Ricordo che un giorno le mura del nostro vicino crollarono a causa di una forte pioggia e di un temporale.

“La caratteristica più importante del campo è il rapporto tra i bambini. Nelle società moderne trovi una persona che vive in un edificio residenziale che non conosce il suo vicino, mentre nel campo i legami familiari e la solidarietà sociale sono forti. Le abitudini e le tradizioni dei bambini del campo non si trovano all’esterno.

“Noi profughi palestinesi abbiamo sofferto molto, ma non dobbiamo mai arrenderci. Abbiamo tante storie da raccontare al mondo intero. Ho passato la maggior parte della mia vita al Beach Camp e ne sono orgoglioso”.

Yasmin Abusayma è una scrittrice e traduttrice freelance di Gaza, Palestina.

Traduzione per InfoPal di Stefano Di Felice