Su Annapolis, dal Manifesto.

Da www.ilmanifesto.it del 29 novembre

«Troppo poco un anno per chiudere, prima la sicurezza» Dagli Usa ex capo della Nato per smantellare le milizie
«Pace nel 2008», Olmert già frena
Alla Casa Bianca partono i «colloqui di pace». Scontro sulla prossima tappa del negoziato. Abu Mazen vuole che i nodi del conflitto siano affrontati tutti assieme. Tel Aviv: non se ne parla nemmeno
Michelangelo Cocco

Si riparte dallo Studio ovale. Dopo gli anni del fallimentare attivismo dell’ex presidente Clinton. A 14 mesi dalla fine di un doppio mandato durante il quale il suo successore Bush ha ratificato alcune tra le decisioni più controverse della leadership israeliana: la distruzione dell’Autorità nazionale palestinese, il muro, il proposito di annessione dei blocchi di colonie ebraiche e la negazione del diritto al ritorno dei profughi palestinesi su tutte.
Ieri il comandante in capo della «guerra al terrorismo» ha ricevuto a Washington il capo dell’Anp, Abu Mazen, e il premier israeliano, Ehud Olmert, per il primo atto dell’ultimo colpo di teatro della sua diplomazia, la ripresa ufficiale dei negoziati di pace collassati sette anni fa a Camp David.
Martedì la dichiarazione congiunta al summit di Annapolis – firmata in extremis alla delegazione palestinese – con cui le due parti si sono impegnate a trovare una soluzione per il conflitto entro la fine del 2008. Ieri l’inizio dei colloqui veri e propri, di cui è stata già fissata la seconda tappa, il 12 dicembre prossimo a Gerusalemme, quando dovrebbero essere affrontati i nodi sullo status finale: Gerusalemme (che Israele considera la sua capitale indivisibile), i confini (con Olmert che l’altro ieri ha chiarito che non si potrà tornare a quelli precedenti la guerra dei Sei giorni), i profughi (Bush ad Annapolis ha dichiarato che potranno rientrare, ma nel futuro Stato di Palestina, non nei villaggi da cui furono cacciati nel 1948 e che ora sono nello Stato ebraico.
Ieri il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat ha detto a Bush di voler risolvere questi contenziosi tutti assieme. Il portavoce israeliano Mark Regev ha fatto sapere che non se ne parla nemmeno. Sulla maggior parte di essi – come nei negoziati precedenti – Tel Aviv non è pronta a cedere di un millimetro. Prima d’iniziare il faccia a faccia con Bush, Olmert ha dichiarato alla Npr, la radio pubblica americana: «Non vogliamo pretendere che si possa arrivare al traguardo in una settimana o in un anno, bisogna però pur cominciare da qualche parte». L’ex sindaco di Gerusalemme ha anche ribadito la sua interpretazione della road map, il piano di pace varato dalla Comunità internazionale nel 2002 che ora gli Stati Uniti hanno ripescato: nessun accordo di pace fino a quando i palestinesi non avranno disarmato le loro milizie. Il governo Olmert si appresta a liberare – probabilmente domenica – 400 prigionieri palestinesi (ne restano dietro le sbarre circa 10mila). Ma gl’incontri di ieri non devono essere stati facili, tanto che nel giardino delle rose della Casa Bianca Bush, Olmert e Abu Mazen non si sono stretti le mani.
E nei Territori occupati è in arrivo un altro generale statunitense. Si tratta di James Jones, ex comandante supremo della Nato in Europa. Un paio d’anni fa, quando era ancora i carica, sulla rivista ufficiale dell’esercito Usa si era espresso a favore dell’invio di una forza militare dell’Alleanza atlantica per fare da cuscinetto tra israeliani e palestinesi e garantire la tenuta di un eventuale accordo di pace.
Fonti qualificate sentite dal manifesto assicurano che negli ultimi mesi all’interno dell’Alleanza non si è parlato di un progetto simile. Secondo quanto riferito dal portavoce del dipartimento di stato Usa, Sean McCormack, Jones affiancherà il generale Dayton impegnato nel «ricostruire le strutture di sicurezza palestinesi». Si tratta del piano per disarmare tutti i bracci armati dei partiti palestinesi e organizzare un’unica forza di sicurezza, alle dipendenze di un’Autorità nazionale palestinese, che collabori con Washington e Tel Aviv.
Un progetto al quale Hamas e i partiti d’opposizione hanno detto «no», rivendicando il diritto alla resistenza armata finché i Territori palestinesi rimarranno occupati.
Contro gli islamisti che controllano Gaza, il governo israeliano sta intensificando la pressione. Ieri almeno una dozzina di razzi Qassam sono stati sparati contro le comunità israeliane oltre la barriera che separa la Striscia da Israele. Ai lievi danni causati dai razzi l’aviazione ha risposto uccidendo due poliziotti di Hamas. Sono almeno sette, secondo quanto riportato dal quotidiano Ha’aretz, i militanti di Hamas uccisi nelle ultime 48 ore.
Case all’asta anche in sinagoga, a Londra è febbre delle colonie
Corsa all’acquisto per i futuri settler illegali. Il sabotaggio alla pace parte anche dall’Europa
Michele Giorgio

Gerusalemme
Lo stesso George W. Bush due giorni fa non si è potuto sottrarre all’obbligo di esortare Israele a congelare la costruzione delle colonie e smantellare le decine di avamposti selvaggi. Una sollecitazione alla quale Olmert ha dovuto rispondere «Obbedisco», anche per dare un contentino ai negoziatori palestinesi che nel frattempo stavano cedendo su tutta la linea. Ma le fanfare dell’incontro di Annapolis serviranno davvero a tirare il freno a mano alla colonizzazione ebraica?
Nulla indica che ciò avverrà realmente, peraltro in un momento in cui, come ha evidenziato una recente ricerca del movimento Peace now, la popolazione delle colonie ebraiche (oltre 250mila abitanti in Cisgiordania e almeno 200mila a Gerusalemme est), aumenta a un livello tre volte superiore rispetto a quella in Israele.
Ed è ben nota la posizione portata avanti da tutti i premier israeliani negli ultimi 15 anni, incluso il «martire della pace» Yitzhak Rabin, ovvero che le costruzioni negli insediamenti già esistenti non possono essere fermate perché coprono la «naturale crescita demografica». Così non sorprende che nonostante la loro totale illegalità per la legge internazionale, le abitazioni delle colonie ebraiche in Cisgiordania vengano messe in vendita in molti paesi. A cominciare dagli Stati Uniti, dove vanno a ruba, ma anche nella democratica Europa.
La stampa britannica ha riferito qualche giorno fa che ville e appartamenti delle colonie ebraiche rientrano nelle proposte di importanti agenzie immobiliari del Regno Unito. La Anglo-Saxon Real Estate, ad esempio, vende 67 abitazioni in edifici di nuova costruzione a Maale Adumim (30mila abitanti), il più grande degli insediamenti ebraici, a est di Gerusalemme, al centro di progetti imponenti nella cosiddetta zona «E1» dove verranno costruite migliaia di abitazioni e strade che taglieranno in due la Cisgiordania e lo staterello palestinese magnificato ad Annapolis.
A promuovere nel Regno Unito vendite a prezzi contenuti delle case nelle colonie ebraiche, è Gavin Gross, responsabile delle pubbliche relazioni per la Federazione sionista che, con una certa soddisfazione, ha notato che l’acquisto di abitazioni negli insediamenti «genera controversie in Israele ma non a Londra» e precisato che la Anglo-Saxon è solo una delle tante agenzie immobiliari britanniche che si sono rese disponibili. Un mese fa diverse abitazioni sono state vendute anche a un’asta organizzata dalla agenzia Beyt BeYisrael che si è tenuta alla sinagoga di Finchley, vicino Londra.
Un manifesto all’ingresso della sala esortava i potenziali acquirenti a «rafforzare il futuro di Israele». I visitatori hanno ricevuto una guida dettagliata, «The Key to Israel», contenente una cartina della Cisgiordania priva della Linea verde, tra Israele e Territori occupati, e dove nomi biblici erano scritti accanto a centri abitati e località palestinesi. Star della giornata è stata la «Yair Building Corporation and Digital Investments and Holdings» che vende appartamenti a Nof Zion.
Ai presenti sono stati illustrati gli «ottimi» acquisti fatti qualche tempo prima da cittadini britannici a Maale Adumim, Har Homa e Beitar Illit. La Beyt BeYisrael ha organizzato vendite di ville degli insediamenti anche in Belgio. Tutto ciò mentre, negli stessi giorni, Kim Howells, ministro per gli affari esteri e del Commonwealth, in una risposta ad un’interrogazione parlamentare, descriveva la colonizzazione israeliana della Cisgiordania un «ostacolo alla pace».
«Siamo preoccupati per le notizie sulle costruzioni negli insediamenti che stanno circondando Gerusalemme est (la parte araba della città occupata nel 1967) e interrompendo l’omogeneità del territorio palestinese», aveva detto con tono allarmato. Bisogna costruire la pace e creare le basi della convivenza, hanno spiegato i protagonisti di Annapolis. E quando si tratta del bene supremo della pace non può mancare il contributo della «colomba» Ehud Barak, leader laburista e ministro della difesa.
Una settimana fa, durante una riunione di governo riferita dal quotidiano Yediot Ahronot, ha dato una mano al successo del negoziato bilaterale con i palestinesi, affermando di «rispettare ed ammirare i coloni nei Territori (occupati), inclusi quelli che vivono negli avamposti illegali…dobbiamo darci da fare per aiutarli nelle loro necessità quotidiane».
«È impossibile fermare le costruzioni negli insediamenti – ha aggiunto Barak -: migliaia di appartamenti sono già stati venduti e non sarò certo io a costringere i coloni a vivere come sardine nei blocchi di insediamenti (già esistenti, ndr)». Parole che, ha commentato il giornale, ricordano i discorsi del ministro di estrema destra Avigdor Lieberman. Eppure, nonostante la centralità della questione degli insediamenti colonici, Abu Mazen non alza la voce.
Un atteggiamento che non è sfuggito persino alla stampa israeliana. L’Anp, ha scritto Ha’aretz, sugli insediamenti già in partenza aveva accettato di inserire nella bozza della dichiarazione congiunta, testi contenuti in accordi precedenti, che non hanno impedito di allargare le colonie esistenti.
E infatti da Annapolis non è venuta fuori una richiesta esplicita di congelamento della colonizzazione e della fine delle confische dei terreni, della costruzione di un doppio sistema di strade (per i coloni e per i palestinesi) e della rimozione dei blocchi stradali. Con negoziatori dell’Anp così attenti e «colombe» tanto impegnate per la pace come Barak, i palestinesi possono stare tranquilli.
Annapolis 1
La Palestina può attendere
Ali Rashid

Sono stati versati fiumi di inchiostro per dare l’illusione, a una vasta opinione pubblica mondiale, che l’amministrazione Bush, alla guida di tutta la comunità internazionale, si stia impegnando finalmente in qualcosa di utile: la soluzione della questione palestinese.
In tutti gli incontri diplomatici, a qualsiasi livello e per qualsiasi motivo, si sente parlare della necessità di trovare una soluzione giusta per la questione.
Una soluzione in grado di portare stabilità e sviluppo, ridurre tensioni e divisioni, combattere il terrorismo, favorire il dialogo tra le religioni e le civiltà, ridurre il prezzo del petrolio, attraverso un processo che dia stabilità al Medio Oriente. E con Medio Oriente si intende ormai una vasta zona che ingloba aree che storicamente non hanno mai fatto parte di esso, una regione che si estende per comprendere tutti gli scenari di conflitto e, per essere più precisi, l’area dove gli Stati Uniti, nel loro progetto di dominio totale, intendono riconsolidare il potere e rimettere le mani.
Durante i sette anni della sua presidenza, Bush non ha voluto occuparsi mai di Palestina e ha dato il proprio sostegno incondizionato a Israele, che ha deliberatamente affossato sul nascere ogni tentativo di soluzione, semplicemente perché i suoi piani erano piani di guerra e non di pace.
Non sono mai stato contrario a qualsiasi tentativo che aiuti un processo di pacificazione tra israeliani e palestinesi, e non vorrei sembrarlo neanche questa volta, ma dire che oggi siamo più vicini alla pace di ieri è un insulto. Ad Annapolis, quello che doveva essere una conferenza è stato declassato da subito a incontro e, solo per dare un poco di lustro, è stato chiamato vertice. La soluzione per la questione palestinese è rinviata nel tempo. Le dichiarazioni che la riguardano parlano di intenzioni, senza scadenze e senza un progetto definito nei tempi e nei contenuti, se non in modo molto vago, parlano di desideri espressi da Bush e Olmert che altro non sono se non riflessi di un desiderio inappagato, di passioni vacue che potrebbero essere oggetto di psicoanalisi più che di analisi.
Comunque, e a prescindere dalle intenzioni dei partecipanti, che obiettivamente non sono tutte uguali, la Palestina, o meglio la sua Ombra e ciò che resta di essa, rimane lì, all’orizzonte, ad attendere l’anima incorrotta, a testimonianza della decadenza del nostro mondo e della miseria del suo ceto politico, costretta a ritornare al centro quando si parla di pace e ad affogare nel suo sangue, come è avvenuto da sempre, quando si fa la guerra.
Le mezze figure che abbiamo visto occupare la scena ad Annapolis non hanno l’autorevolezza, né la storia, né la forza e nemmeno la presunzione che permetterebbero loro di compiere un’impresa così ardua ed esaltante, con qualche attenuante per Abu Mazen, che si trova a tentare di gestire l’ingestibile e non solo per colpa sua. Forse è vero, non poteva non andare e comunque, di nuovo, come un notaio si è limitato ad elencare le cose minime, di cui è impossibile non parlare.
La Palestina, dunque, deve ancora attendere. La pace che incalza è stata surrogata da un processo di pace interminabile e inconcludente, senza punti di riferimento certi, come quelli che, malgrado tutto, ha ribadito il ministro degli esteri dell’Arabia Saudita, interessata più di Bush e per questioni che riguardano la sua stessa stabilità oltre a quella di altri paesi presenti. E cioè che la pace nella regione non è compatibile con la continuazione dell’occupazione dei territori arabi. Questa sarebbe la base minima e se Israele non compie questo passo, altro che «concessione dolorosa», dimostrerà tutta la propria incompatibilità con la pace stessa.
Mentre viene rinviata nel tempo la pace, con questo summit sembrano arrivare a un punto avanzato i preparativi per la prossima guerra. Condoleeza Rice nel suo discorso ha affermato che questo incontro apre le porte alla normalizzazione dei rapporti tra Israele da una parte e il mondo arabo dall’altra, obiettivo che considera un interesse nazionale per gli Stati uniti. Bush ha parlato dell’isolamento dell’Iran, che è stato escluso, e di forte sostegno internazionale. Per chi ha un po’ di memoria, è un film già visto. Si tratta di un brutta copia della conferenza di Madrid che aveva prodotto tanta illusione di pace e due cose concrete: la normalizzazione dei rapporti tra Israele e alcuni paesi arabi e una grande e drammatica guerra.
Anche ora una guerra, e subito, perché la nuova coalizione dei «volenterosi» è già pronta, serve una grande messa in scena per ricaricare la consumata e inattendibile diplomazia americana, creare il nuovo nemico e far pagare i costi dei conflitti ai paesi arabi che hanno accumulato in questi anni un’ingente liquidità monetaria, indispensabile per salvare l’economia Usa dalla recessione. Esattamente come la prima guerra del Golfo, da questo punto di vista un vero capolavoro. Tutto subito e in nome della pace in Palestina.

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