Succede solo in Palestina

livros_03PIC. Di Daud Abdullah. In seguito a una visita a Hebron nel 1996, lo studioso palestinese Edward Said scrisse: «La situazione attuale non può durare, ci sono troppe diseguaglianze e ingiustizie nel cuore della vita palestinese». Due decenni più tardi non si vede una via d’uscita alle condizioni pessime di cui allora egli si lamentò. Al contrario, esse sono peggiorate.
Nemmeno la controversa decisione del presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas di partecipare al funerale dell’ex presidente israeliano Shimon Peres è stata sufficiente a far sospendere temporaneamente il tormento quotidiano dei palestinesi nei Territori occupati. Subito dopo il suo ritorno a Ramallah, Israele ha dichiarato il quartiere di Tel Rumeida, nel governatorato di Hebron, area militare chiusa.
Come sempre succede quando vengono imposte queste chiusure, ai residenti e agli studenti che hanno cercato di sbrigare i loro affari quotidiani o di recarsi a lezione è stato detto di ritornare a casa finché i 600 coloni illegali ebrei non avessero terminato le loro commemorazioni religiose. La durata prevista di queste cerimonie è di diversi giorni, e così anche l’antica moschea di Ibrahim è stata chiusa ai fedeli musulmani per 6 giorni.
Anche i palestinesi cristiani di Betlemme e Gerusalemme devono avere il permesso per poter frequentare le loro chiese, dalle quali sono separati dal muro di «sicurezza» alto 8 metri. Prima della creazione dello stato di Israele, nel 1948, i cristiani erano il 18% della popolazione palestinese. Oggi sono meno dell’1,5%. Per questioni di correttezza politica i politici occidentali e i capi della Chiesa hanno chiuso un occhio sulle cause reali di questo esodo, e hanno scelto di cercare il capro espiatorio nella presunta «persecuzione da parte dei musulmani». Sciocchezza evidente nelle mani efferate di Israele.
A Hebron la vita dei 200 mila abitanti palestinesi è lontana dalla normalità, quando va bene. Ogni aspetto della loro vita è messo in secondo piano dalle attività dei coloni che ora vivono illegalmente in mezzo a loro, completamente protetti militarmente dalle Forze di difesa israeliane. I palestinesi devono vedersela con gli odiosi blocchi stradali e i posti di blocco militari di cui la città vecchia e i suoi dintorni sono puntellati. Rapporti recenti confermano che oltre 1000 appartamenti residenziali sono stati evacuati per le molestie subite dalla locale popolazione palestinese. Ciò era completamente prevedibile; la chiusura di oltre 800 esercizi commerciali da parte di Israele mirava esattamente a questo – a rendere la vita dei locali così intollerabile da far loro scegliere di andarsene «spontaneamente». In termini sionisti ciò si chiama, in maniera alquanto sinistra, «trasferimento silenzioso».
Altrove nella Cisgiordania occupata il sistema di diseguaglianze e ingiustizie descritto da Edward Said non è meno punitivo. La comunità in prevalenza contadina di Qalqiliya è stata virtualmente circondata dal muro israeliano di segregazione, che separa i contadini dalle loro terre. Oltre 170 mila uomini, donne e bambini sono ugualmente rinchiusi entro il muro a Betlemme. L’ex presidente Usa Jimmy Carter ha considerato orribile che essi debbano procurarsi dei permessi di «residenza permanente» da parte delle autorità occupanti per poter continuare a vivere nelle loro case.
Non ci vuole molto a rendersi conto delle similitudini tra il sistema israeliano dei permessi e le odiate leggi per il passaggio sudafricane. Come era illegale, per i neri africani, entrare nelle aree riservate ai bianchi in Sud Africa, così, per esempio, non è permesso ai palestinesi di Cisgiordania o della Striscia di Gaza visitare Gerusalemme senza un permesso militare. Al momento la regola generale è che possono ottenere un permesso solo i cittadini al di sopra dei 45 anni di età. Pur essendoci lievi differenze, il giurista sudafricano John Dugard ha osservato che le caratteristiche comuni tra l’apartheid sudafricano e la versione israeliana sono la discriminazione, la repressione e la frammentazione territoriale.
In queste condizioni repressive e degradanti lo scoppio di una terza intifada nei Territori occupati era solo una questione di tempo. La determinazione di Israele a confiscare terreni palestinesi per i propri insediamenti, la chiusura e la sconsacrazione di siti religiosi e gli omicidi extragiudiziali sono stati il combustibile che ha alimentato l’intifada nell’ultimo anno. Il solo numero di coloni (oltre mezzo milione) e di posti di blocco militari sparsi in Cisgiordania (oltre 500) rendono anch’essi mature le condizioni per l’inasprirsi della rabbia e della disaffezione.
I palestinesi, nella lunga battaglia contro la colonizzazione sionista, hanno attraversato diverse rivolte. Una volta in atto queste non sono mai state facili da domare. Essendo tra le due parti la più debole sia militarmente che politicamente, i palestinesi hanno sofferto in ogni occasione perdite umane e materiali incalcolabili. Ciononostante ogni generazione successiva lo ha giudicato un prezzo equo per la propria libertà dalla brutale occupazione israeliana.
La natura e il corso delle rivolte sono sempre sempre stati imprevedibili. Così è soprattutto oggi, dal momento che nessuna fazione è emersa chiaramente a dirigere o a coordinare gli eventi sul terreno. In assenza di qualsiasi iniziativa politica seria, e data la determinazione di Israele a continuare l’occupazione e il dominio sui palestinesi, ci si può ragionevolmente aspettare solo che la attuale intifada continui bene in futuro. A questo proposito Edward Said aveva ragione: non ci sarà fine agli sforzi palestinesi di porre fine a un sistema di diseguaglianze e di ingiustizie che si vede solo nella Palestina occupata.
Traduzione di Stefano Di Felice