Suicidio a Gaza: “Un messaggio di rabbia”

Gaza-E.I. Hosni Abu Arabiya, 25 anni, era disoccupato e pieno di debiti. Il 22 luglio, quando il padrone di casa è passato dalla casa di famiglia che si trova nel campo profughi Beach di Gaza, Hosni lo ha pregato di concedergli più tempo per poter trovare i soldi dell’affitto.

Ma il padrone di casa si è rifiutato.

“Ci ha detto che se non avessimo pagato l’affitto entro il 30 luglio, ci avrebbe costretto a lasciare la casa”, ha raccontato Jamila, 55 anni, la madre di Hosni.

Hosni doveva dei soldi anche ad un altro padrone di casa e Jamila ha calcolato che in totale doveva circa 1.500 dollari, una somma che a Hosni sembrava impossibile di riuscire a pagare. Quando lavorava, di solito guadagnava tra i 4 e gli 11 dollari a settimana, come stuccatore o come operaio in un macello di pollame.

Dopo neanche 15 minuti da quando era uscito il padrone di casa, Jamila ha sentito delle urla provenire dalla stanza accanto.

“Non so ancora dove abbia comprato un litro di benzina”, ha detto. “L’ha versata su di sé e per terra e l’ha accesa. Il fuoco si è diffuso su tutto il corpo. Ha iniziato a gridare e io mi sono precipitata ad abbracciarlo per spegnere il fuoco. Anche i vicini sono arrivati per spegnere il fuoco e hanno chiamato l’ambulanza”.

Hosni e sua madre sono quindi saliti insieme sull’ambulanza. La donna ha raccontato che lui le chiedeva di perdonarlo per le ustioni che ricoprivano il corpo della madre e anche il suo.

“Ha detto che non aveva intenzione di bruciare se stesso o me, giuro che non intendeva farlo”, ha detto. “Lui l’ha fatto a causa dell’oppressione e della povertà”.

Una volta raggiunto l’ospedale, Hosni è stato mandato nel reparto di terapia intensiva. Jamila aveva ustioni di primo e secondo grado su mani, gambe e testa.

Alcune ore dopo ha lasciato l’ospedale, ma suo figlio è morto la mattina successiva a causa della gravità delle ustioni.

“Ha vissuto ed è morto oppresso”, ha affermato Jamila, ricordando che Hosni aveva dovuto lasciare la scuola all’età di 10 anni per lavorare al macello di pollame a causa dei problemi renali del padre.

“Tutto ciò che voleva era una casa e una fonte di reddito stabile”, ha aggiunto. “Nessuno dei dirigenti ci ha chiamato per sapere il motivo per il quale Hosni si è dato fuoco. Dovremmo darci fuoco per ottenere gli aiuti governativi? Nessuno si preoccupa di noi, nessuno”.

Messaggio di rabbia.

Durante la prima metà del 2020, la Commissione Indipendente per i Diritti Umani – con sede nella città cisgiordana di Ramallah – ha documentato un totale di 12 suicidi nella Striscia di Gaza, oltre a tre-cinque tentativi al giorno.

Secondo Mostafa Ibrahim, coordinatore per la difesa dei diritti presso la commissione, nel 2018 sono stati documentati 15 suicidi e 373 tentativi, aggiungendo che l’87% di questi individui aveva meno di 30 anni.

E questi sono solo i suicidi documentati. A causa dello stigma che circonda la morte per suicidio, molti tentativi probabilmente non vengono nemmeno riportati.

Yasser Abu Jame, direttore generale del Gaza Community Mental Health Program, ha affermato che a Gaza le motivazioni dei suicidi variano da sociali ad economiche.

I 15 anni di assedio israeliano e le numerose guerre contro la Striscia di Gaza non hanno fatto altro che aggravare il senso di isolamento e disperazione dei giovani di Gaza, per non parlare del fatto materiale della povertà.

Nel 2020, oltre 1 milione di Palestinesi di Gaza – il 56% – viveva sotto la soglia di povertà a causa dell’assedio. Nel marzo 2022, la disoccupazione è passata al 75% tra i laureati di età compresa tra i 19 e i 29 anni.

“Darsi fuoco è un messaggio di rabbia che i giovani lanciano per far luce sulle difficoltà che devono affrontare nella loro vita”, ha detto Abu Jame.

Le prospettive per le future generazioni di Palestinesi che vivono a Gaza sono altrettanto disastrose. Secondo un rapporto di Save the Children del giugno 2022, quattro bambini su cinque dichiarano di vivere con sintomi di “depressione, dolore e paura”.

“Un proiettile israeliano ha trasformato la mia vita in un inferno”.

“Ho perso la speranza nella vita”, ha detto Rami, 37 anni.

Rami, che ha chiesto di essere identificato con uno pseudonimo, era proprietario di un laboratorio di marmo che impiegava 16 lavoratori. Guadagnava un reddito mensile relativamente confortevole, tra gli 800 e i 1.000 dollari.

Tuttavia, a causa del blocco israeliano, che ha inflitto enormi danni all’economia di Gaza, la sua attività è fallita.

“Ho iniziato a vendere le mie macchine e i miei utensili per mantenere la mia famiglia di cinque persone”, ha raccontato. “Poi ho dovuto chiudere l’officina nel maggio 2018”.

Le sue condizioni sono ulteriormente peggiorate tre mesi dopo, nell’agosto 2018, quando un cecchino israeliano gli ha sparato alla gamba destra durante la Grande Marcia del Ritorno.

Durante queste marce, i Palestinesi di Gaza cercavano pacificamente di rivendicare il loro diritto a tornare nella loro terra d’origine.

Ma da marzo 2018 a luglio 2019, Israele ha ucciso almeno 311 Palestinesi, tra cui 44 bambini. In quel periodo sono state ferite più di 34.000 persone.

La ferita di Rami era talmente grave che i medici ne hanno consigliato l’amputazione. Ma lui ha rifiutato, cercando invece di farsi curare sia a Gaza che in Egitto.

“Lo shock è stato quando un medico delegato egiziano a Gaza mi ha detto che avevo un’infiammazione necrotizzante cronica, che aveva aggravato la mia ferita”, ha raccontato. “Dopo il primo intervento, mi hanno amputato parti della gamba tre volte in tre anni”.

Dopo l’ultimo intervento, nel giugno 2020 a Gaza, Rami non era preparato all’impatto mentale dell’amputazione.

“Quando i miei figli hanno potuto venire a visitarmi il giorno dopo, sono scoppiati in lacrime e mi hanno chiesto: ‘Papà, dov’è la tua gamba?’”

Una serie di pensieri negativi si sono immediatamente affollati nella sua testa. “Sarò impotente, disoccupato e un peso per la società per tutta la vita”, ha pensato.

Ha preso una dose eccessiva di un farmaco che gli era stato prescritto e si è risvegliato dal coma dopo due settimane di terapia intensiva.

Quando è tornato a casa una settimana dopo, la sua famiglia gli ha chiesto perché avesse cercato di porre fine alla sua vita, ma lui non ha saputo rispondere.

Parlando con The Electronic Intifada dalla sua casa di Gaza, Rami, che indossava una jalabiya nera, ha raccontato, con un forte dolore nella voce, come ha trascorso gli ultimi due anni.

Da quando si è ripreso dall’overdose, la vita non è diventata più facile. Gli sono stati diagnosticati diabete e pressione alta e, nel 2021, ha dovuto sottoporsi ad una cateterizzazione cardiaca.

“Un proiettile israeliano ha trasformato la mia vita in un inferno”, ha detto.

Attualmente, la sua unica fonte di reddito è di 175 dollari al mese, pagati dal ministero dello Sviluppo Sociale di Gaza.

“Hai uno shekel in tasca?”

Nel suo lavoro di psichiatra, Yasser Abu Jame ha potuto osservare un aumento delle discussioni riguardanti la morte tra i giovani di Gaza. Molti di loro non trovano alcun senso nella vita e, di fronte all’ennesima battuta d’arresto in una vita che è piena di battute d’arresto, ritengono sia difficile affrontarla.

Khaled, 23 anni, ad esempio, che ha chiesto di essere identificato con uno pseudonimo, era fiducioso per il suo futuro.

Per tutto il 2018 e il 2019 ha lavorato nella redditizia attività di cambio valuta della sua famiglia. Tuttavia, nel 2019, la loro attività non ha retto alla pressione del blocco israeliano ed è crollata.

La famiglia ha perso circa 400.000 dollari di risparmi.

“Poi ho dovuto lavorare come venditore nei mercati pubblici, guadagnando 20 shekel [quasi 6 dollari] o anche meno per 12 ore di lavoro”, ha raccontato, nonostante sia in possesso di una laurea in economia aziendale.

Anche in mezzo a queste difficoltà, Khaled ha trovato l’amore. E il sentimento è stato ricambiato.

Ma quando, nel giugno 2021, un altro uomo ha chiesto la mano della sua ragazza, Khaled ha perso ogni speranza.

“La mia ragazza ha rifiutato, ma sua madre l’ha costretta ad accettare [l’altro uomo]”, ha raccontato. “Ho detto a mio padre di chiedere la sua mano per me, ma lui si è rifiutato e mi ha chiesto: ‘Hai un shekel in tasca?’ Quindi, non stava dalla mia parte”.

Khaled si è buttato dalla finestra del terzo piano.

“Sono caduto su un pollaio e poi sono svenuto”, ha raccontato. “Per fortuna avevo solo qualche graffio sul corpo e nessun osso rotto. Ho lasciato l’ospedale dopo tre giorni”.

Khaled vorrebbe poter emigrare, ma non ha i fondi economici per farlo.

“Se non ci fossero l’occupazione o l’assedio”, ha detto, “potremmo ricostruire la nostra attività”.

Nel frattempo, Khaled continua a lavorare molte ore per un salario basso.

“Il lavoro disponibile per i giovani di Gaza è schiavismo”, ha detto. “A volte penso di porre fine alla mia vita, ma la mia fede religiosa me lo impedisce”.

Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi