Sulla Mole sventola la bandiera palestinese

 

Di Mariagrazia Nemour.

Torino si propone, crea sinergie. Al Salone del Libro 2011 è stato riservato un posto d’onore alla Palestina: una terra profumata di limoni e mandorli, ricca di ulivi. Una terra dalla storia millenaria, madre di illustri intellettuali e scrittori. Per molti una fotografia inedita della Palestina, che non dovrebbe essere identificata con il volto coperto di un “terrorista”, ma con il suo simbolo: l’ulivo. 

Sabato, al Salone del Libro, arriviamo qualche minuto prima di mezzogiorno alla sala Blu che ospita gli interventi di noti intellettuali palestinesi e israeliani e, lo confessiamo, ci stupisce la fila di persone che aspetta di entrare. Si affollano adulti, anziani ma soprattutto giovani, spesso armati di penna e taccuino, per portare a casa spunti interessanti.

Jamil Hilal (sociologo di Ramallah, autore di molte analisi della società palestinese) prende la parola per ricordare come l’Italia sappia esprimere solidarietà e non dimenticare – il ricordo è proprio il tema di questa edizione del Salone. Ricorda di come la nazionale italiana di calcio, nel 1982, alzò la coppa del mondo dedicando la vittoria alla Palestina e di come un italiano, nel 2011, abbia dedicato e sacrificato la sua vita a quella stessa terra: Vittorio Arrigoni. Mentre il battimano riempie la sala, ci torna alla mente un’intervista del presidente Sandro Pertini, del 1983: anche lui parlava della solidarietà che distingue gli italiani e ricordava i diritti del popolo palestinese ad avere una terra in cui riconoscersi.

Sari Nusseibeh (professore di filosofia all’università di Gerusalemme) analizza i nuovi orizzonti aperti dal riavvicinamento politico dei vertici palestinesi, Hamas e Fatah. Sottolinea il ruolo decisivo giocato dai giovani scesi nelle piazze di Ramallah e Gaza e la collaborazione dell’Egitto con la sua politica di mediazione. Una primavera araba piena di germogli.

Ilan Pappè (storico israeliano) si rammarica di vedere Israele indifferente spettatrice delle vicine rivoluzioni culturali e politiche, ma si aspetta che i giovani sappiano accettare la sfida di costruire un panorama nuovo e più equo. Ricorda come i vertici politici speculino sugli interessi della gente per non perdere i propri privilegi e di come il boicottaggio verso Israele possa pressare quegli stessi vertici politici affinché in agenda vengano messe priorità come incontro, coesistenza e uguaglianza.

Nel pomeriggio si ripete la stessa scena del mattino: parte della folla interessata all’incontro con lo scrittore e poeta palestinese Mourid Barghouti non riesce a prendere posto nella sala Blu e si deve accontentare di seguire l’intervista sugli schermi esterni. 

Viene letto un brano tratto dal suo libro “Ho visto Ramallah”. Sulla pagina sono fissate le impressioni di Barghouti nel ripercorrere, dopo una vita di esilio, il ponticello che lo riconsegna alla terra di nascita. Non accetta che poche, misere assi di legno siano riuscite a tenerlo lontano dalla sua casa.

La guerra dei sei giorni del 1967 lo sorprese studente al Cairo e per trent’anni non ebbe più il diritto di tornare al suo paese. Racconta un curioso aneddoto: qualche anno fa chiese il visto per entrare negli Usa, dove insegna suo figlio, e il modulo da compilare richiedeva di inserire il paese di nascita, prelevandolo da un elenco comprendente il mondo intero. La Palestina era come Marte: non esisteva nell’elenco. Si chiese perché dovesse indicare Israele, quando lui era di quattro anni più vecchio di quello Stato.

Si uccidono le parole. “La delegittimazione dei diritti – racconta Barghouti – nasce proprio dall’inquinamento verbale: la Palestina non viene riconosciuta come nazione. Nel 1948 la Palestina diventa Israele e Cisgiordania. Si cancellano le parole per eliminare i concetti. Quando Hamas parla di popolo palestinese parla di alcune strade di Gaza, Fatah si riferisce alla Cisgiordania e poi ci sono la West Bank, Gerico, i territori. Le parole sono importanti perché viaggiano nello spazio e nel tempo, senza visti”.

È bene allora che la parola Palestina non venga uccisa, ma faccia venire subito alla mente il suo simbolo: un ulivo, che rimanda all’idea del tempo, della pace, della storia, della cultura e del profumo di un popolo.

 

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